Eritrea: un Paese sotto dittatura amica dell'Italia

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16 luglio 2016

Un eritreo su sei ha lasciato il paese per sfuggire al regime. Pochi lo ricordano ma delle 368 persone che morirono nella strage di Lampedusa il 3 ottobre di due anni fa, 360 erano eritrei, gli altri 8 invece etiopi. In tanti inoltre non vollero indagare le ragioni reali che spingono migliaia di eritrei a fuggire da quel Paese. Forse perché tra i Paesi amici del dittatore eritreo c'è il nostro. Stando alle statistiche, oltre il 25 per cento dei profughi arrivati in Italia nei primi nove mesi del 2015 proveniva dall'Eritrea. Rispetto al 2014 si registrava un incremento di quasi 3 punti, mentre le stime di varie organizzazioni (Unhcr e Oim in primis) parlavano di una media di almeno 5 mila fughe al mese. Un’odissea che si replica ancora nel 2016 evidentemente legata alle condizioni in cui gli eritrei sono costretti a vivere a causa del dittatore Isaias Afewerki: colui che ha dato ordine di sparare a vista contro chiunque tenti di varcare la frontiera per emigrare. Sinora quasi 400 mila eritrei su una popolazione che non arriva a sei milioni ha sfidato il deserto, i trafficanti di uomini e di organi, le violenze, i ricatti delle organizzazioni criminali e il rischio di morire affogati in mare piuttosto che continuare a vivere in quell’inferno. Se ai 400 mila profughi aggiungiamo quelli della prima diaspora, vive all’estero un eritreo su sei. Una diaspora continua e dolorosa che continua anche a causa di questa Europa, troppo incline ad ospitare e a parlare coi dittatori e tiranni. L'Eritrea sta perdendo intere generazioni, come ha denunciato anche la coraggiosa lettera pastorale firmata da tutti i vescovi in Eritrea in occasione della Pasqua 2014.

Come afferma Emilio Drudi nel saggio “Ciò che mi spezza il cuore”, pubblicato nel volume “Migranti e Territori” (Ediesse, 2015), i responsabili di questa tragedia sono in parte gli stessi esponenti della nuova classe dirigente uscita dalla guerra di liberazione vinta nel 1991 contro l’Etiopia e che, con la proclamazione ufficiale dell’indipendenza nel 1993, aveva generato speranze per l’intero continente africano.

Ben due rapporti della Commissione Onu non lasciano spazio a dubbi. L'Eritrea vive sotto un regime di terrore e violenza, caratterizzato da arresti illegali, pestaggi, torture, detenzioni abusive senza alcuna accusa specifica da cui potersi difendere, sequestri, violenze anche sessuali nei riguardi delle donne e uccisioni. In poche parole, uno stato-prigione con ben 361 tra carceri e centri

di detenzione di vario tipo. Il Lazio, con lo stesso numero di abitanti, ne ha 12 in tutto. Per questo la

stessa Onu definisce l’Eritrea come “la Corea del Nord dell’Africa”. A fuggire sono soprattutto i giovani, spesso minorenni, ai quali, come afferma Emilio Drudi, la dittatura «ruba la vita, costringendoli in armi o al lavoro obbligatorio con un servizio di leva che dura decenni».

La nuova strategia dell’Ue e dell’Italia per gestire i flussi migratori è quella di esternalizzare i propri confini per trattenere con ogni mezzo i profughi nei paesi di transito e ricorrere ai militari locali per impedire i passaggi verso i paesi del Nord. Una prova terribile si è avuta alla fine di settembre 2014, quando tredici adolescenti tra i 12 e i 18 anni sono stati trucidati a fucilate a un posto di confine con il Sudan e fatti sparire in una fossa comune. Delitti già noti quando, sulla scia della firma del Processo di Khartoum dell’ottobre del 2014, arrivò l’impegno del Fondo europeo per lo sviluppo a stanziare 200 milioni di euro in favore del regime di Asmara (2,5 milioni solo dall’Italia). È la riproposizione della vecchia politica del “dittatore amico” per tutelare interessi economici, magari legati alle risorse naturali dell'area che, in questo caso, comprendono il problema

dell’emigrazione dal Corno d’Africa verso l’Unione. Roma e Bruxelles giustificano questa scelta citando le «promesse di cambiamento» formulate dal regime. Promesse però senza impegni precisi e vincolanti e, soprattutto, senza che l’Ue abbia posto alcuna chiara condizione irrinunciabile. Ad esempio, l’attuazione della Costituzione democratica varata nel ’97 e mai entrata in vigore, libere elezioni, la liberazione dei prigionieri politici, il ristabilimento del ruolo del Parlamento. Niente più che una finzione appare anche l’altro argomento addotto da Italia e Ue: l’impegno di istituire in Africa centri di raccolta per i profughi, sotto l’egida Unhcr, dove si potranno presentare le richieste di asilo. Non è chiaro, infatti, chi garantirà sicurezza e condizioni di vita dignitose in queste strutture. “Campi di questo genere sotto la bandiera Unhcr”, rileva don Mussie Zerai, presidente dell’agenzia Habeshia, già candidato al Premio Nobel per la Pace, “in realtà già esistono, tra gli altri, in Sudan. Ma le forze di polizia che dovrebbero garantirne la protezione e la sicurezza sono spesso colluse con i clan che gestiscono il traffico di uomini verso la Libia e l’Europa o con le bande che sequestrano i profughi, sottoponendoli ad ogni genere di torture e pretendendo poi riscatti enormi per rilasciarli”.

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