Il Sahel terra dimenticata

PhD in sociologia conseguito presso l’Università degli Studi di Roma Tre e arabista, è docente a contratto di sociologia delle migrazioni islamiche in Europa.
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16 luglio 2016

Pina Sodano

Il Sahel è un’area geografica di enorme interesse. Il suo territorio si estende, al nord con il deserto del Sahara e a sud con la savana del sud Sudan. I paesi che ne fanno parte sono: Mauritania, Mali, Burkina Faso, una parte dell’Algeria e del Niger, Ciad e il Sud Sudan. La drammaticità degli eventi che si sono susseguiti nel corso degli ultimi anni rende questa fascia africana uno snodo centrale nella geopolitica continentale e mondiale. Essa entra di diritto nelle riflessioni politiche, geostrategiche, economiche mondiali con riferimento alle grandi organizzazioni internazionali, ai paesi più sviluppati e alle riflessioni culturali e geopolitiche di istituti, università e grandi think tank mondiali, compresi quelli di natura militare. All’analisi relativa alle variabili tradizionali, come la situazione politica, istituzionale e economica del Sahel, alla complessità territoriale che la caratterizza, a partire dalla varietà di paesi, culture, regimi istituzionali e economie che lo compongono, se ne sommano altre, invece di natura specifica o originale, come la diffusione di scuole coraniche, i molteplici attacchi terroristici messi in atto dalle varie organizzazioni criminali presenti e la loro strategie di insediamento e radicamento territoriale, comprese le relative differenze tattiche, e le numerose crisi ambientali che si sono manifestate, le quali hanno influenzato in modo diretto l’economia locale, i relativi conflitti e i flussi migratori spesso forzati con riferimento alle migrazioni interne e esterne, complicano di molto l’analisi. Si considerino alcuni dati in premessa che consentono di comprendere il contesto globale e poi quello in esame. Secondo le fonti più accreditate, al 2050 la popolazione mondiale sarà di circa 9 miliardi di persone mentre al 2100 dovrebbe raggiungere la cifra record di 10,1 miliardi. Secondo l’OECD - Enviromental Outlook to 2050 dell’Ocse, entro il 2050 il 47% della popolazione mondiale risiederà in zone in cui non sarà possibile usufruire dell’acqua. La prospettiva è catastrofica e dimostra il legame intimo tra crisi ambientale e umanitaria. Molteplici sono i fattori che hanno influito sul collasso dell’ecosistema della fascia del Sahel: a) l’aumento della popolazione; b) l’incremento degli animali da pascolo; c) scavi di pozzi profondi per la pastorizia; d) messa a coltura dei terreni più fertili per prodotti volti all’esportazione (cotone e arachidi); e) messa a coltura di terre marginali per coltivazioni intensive destinate a soddisfare le esigenze alimentari; f) notevole diminuzione dei tempi di maggese; g) diminuzione delle terre destinate al pascolo. A complicare il tutto si sono aggiunti gli effetti globali del climate change i quali risultano incidere con particolare durezza, relativamente soprattutto ai processi di desertificazione, siccità e carestia in corso. Si tratta di agenti che hanno conseguenze non solo il patrimonio ambientale locale, sul suo valore ecologico e relativa biodiversità, pure da non sottovalutare. Le conseguenze riguardano invece anche l’organizzazione sociale che fonda ad esempio la propria economia sull’agricoltura, direttamente influenzata dal mutamento climatico, sul livello di benessere relativo della popolazione, sulle prospettive di vita e sulla capacità di rigenerazione sociale che ne deriva. Insomma, il rapporto tra stato ecologico e stato socio-politico di un territorio è diretto, tanto che al mutare dell’uno, soprattutto nei paesi in via di sviluppo, si determina un mutamento anche nell’altro. Un rapporto politico-ecologico di natura omeostatica di grande valore, anche per le conseguenze che esso determina nel contesto globale.

Ad interessarsi del Sahel, insieme a varie Agenzie Onu e a molti governi, anche Occidentali, soprattutto in ragione di interessi di natura economica con riferimento alle risorse naturali del territorio, vi sono diverse Organizzazioni Non Governative (Ong) le quali hanno saputo promuovere nel corso degli anni una nuova governance politica dell’area e una prospettiva concreta di sviluppo legata ad una progettualità territoriale che ha permesso a migliaia di persone, soprattutto contadini, di sopravvivere alla crisi ecologico-politica. In particolare ci si riferisce al warrantage (immagazzinamento), che ha permesso, ad esempio, di evitare la svendita dei prodotti alimentari in fasi di crisi, perdendo ogni possibile margine di profitto. Si tratta di un progetto che merita di essere considerato in virtù dei risultati positivi che ha conseguito e per la possibilità concreta di vita che ha garantito a migliaia di persone. La crisi alimentare, legata a quella ecologica e politica, necessità di analisi moderne, di policy adeguate e di un impegno di natura internazionale e cooperativistico avanzato, perché si ridefinisca una governance delle risorse locali finalmente in grado di generare possibili soluzioni o gestioni adeguate ai problemi presenti. Nello stesso tempo è indispensabile sviluppare un approccio integrato – politico e sociale – tra i diversi paesi del Sahel. La cooperazione intra-regionale, e per questo il superamento di ogni conflitto, sia politico sia di altra natura, tra tutti gli attori statuali presenti, consentirebbe non solo di produrre maggiori beni e di generare migliori servizi a vantaggio della popolazione e relativa economia, ma anche di superare difficoltà strutturali che determinano il persistere delle ragioni della crisi. Peraltro il persistere di gravi condizioni di povertà economica e sociale, di uno stato di arretratezza produttiva e istituzionale, di gravi problemi sociali, spesso legati alla sopravvivenza stessa della sua popolazione, dimostrano l’urgenza di politiche nuove e di una rigenerazione probabilmente anche politico-istituzionale che è sempre più urgente per portare il Sahel fuori dalle secche della miseria e del terrorismo. Secondo il Global Hunger Report (2014), la situazione del Sahel rimane fragile e condizionata dagli eventi climatici e politici della zona. I prezzi degli alimenti non sono diminuiti e milioni di persone restano sotto-alimentate. La stessa UE che è chiamata a svolgere un ruolo nuovo nel Sahel. Da questo possono dipendere i destini di milioni di persone, compreso l’arresto di processi di aggregazione di organizzazioni terroristiche che rischiano di generare uno stato di crisi, violenza e minaccia istituzionalizzato e definitivo. Il primo e più indicativo risultato ottenuto da un nuovo impegno dell’Unione Europea nel Sahel è stato il passaggio da un approccio interventista nell’emergenza, spesso capace di produrre risultati nell’immediato ma non di agire sulle cause della stessa, alla resilienza. La resilienza, in questo caso, ha permesso di rafforzare le capacità delle comunità locali contro il trauma determinato dalle crisi che si manifestano ciclicamente e di qualunque natura, utilizzando un approccio preventivo. Nell’agricoltura, ad esempio, ciò ha significato rafforzare l’organizzazione contadina e di conseguenza la capacità produttiva e distributiva di risorse agricole fondamentali alla sopravvivenza e alla generazione e rigenerazione di circuiti economici virtuosi a vantaggio dei produttori e commercianti locali, come dei consumatori del Sahel, attraverso la distribuzione di prodotti agricoli di base, indispensabili alla sopravvivenza di milioni di uomini. Si è dunque stimolata l’organizzazione sociale locale introducendo gli “anticorpi” utili a prevenire, gestire e uscire da situazioni di emergenza. Ciò ha significato operare sulle materie fondamentali per la costruzione e lo sviluppo delle migliori politiche possibili, comprese quelle ecosostenibili, con l’intento di affrontare e oltrepassare le croniche condizioni d’emergenza della regione. S’interviene dunque fornendo alla comunità locale gli strumenti, innanzitutto culturali, per intervenire in modo adeguato sulle ragioni che hanno determinato le varie crisi e risolverle quasi autonomamente. La comunità internazionale ritiene che il principale impedimento alla realizzazione di un sistema resiliente risieda nella difficoltà da parte della popolazione locale di rispondere in maniera efficace alle emergenze che si presentano e di recuperare rapidamente i danni da esse causati. Scarsa resilienza significa cronicizzazione delle crisi, lentezza delle risposte, emergenze che si sommano ad altre emergenze e una continua dipendenza dalle sovvenzioni e aiuti esteri. In sostanza è povertà che genera altra e più acuta povertà, sino all’impoverimento sociale, ambientale, culturale ed economico del territorio. Una pratica ma anche una prospettiva da cambiare con un approccio e politiche diverse. Per queste ragioni, un altro sviluppo, a partire da politiche e pratiche di resilienza più raffinate e in costante aggiornamento, costituisce la migliore strategia da applicare per fronteggiare le crisi sociali, umanitarie, ambientali e alimentari del Sahel. Essa è anche una delle azioni di più efficace contrasto al proliferare del terrorismo. Lo sviluppo e elementi di giustizia sociale a livello territoriale costituiscono gli elementi cardini per un efficace contrasto ad ogni retorica terroristica e a ogni forma di indottrinamento o reclutamento da parte di organizzazioni estremistiche. A questo riguardo e anche per proprio interesse politico, l’Unione Europea ha voluto sviluppare un progetto motivato su tre piani di azione. Consolidare la produzione, assicurarsi il funzionamento dei mercati alimentari e, rinforzare l’empowerment dei gruppi fragili, delle donne e della società civile. Un progetto di grande respiro che se applicato o realizzato potrebbe determinare una svolta epocale nell’intera area.

Non è un caso se le migrazioni dell’Africa subsahariana sono in forte accelerazione. Le continue crisi ambientali, i conflitti armati, il terrorismo, spesso di stampo jihadista, il sempre più diffuso uso strumentale dei media, che oggi in modo specifico gioca un ruolo essenziale nel diffondere rappresentazioni e anche pratiche terroristiche, determinano conseguenze spesso drammatiche per milioni di persone, obbligando queste alla fuga. Il flusso sempre maggiore di profughi (compresi donne e bambini) richiede, in maniera chiara e urgente, interventi diretti sia in termini di politiche di assistenza, necessarie per fronteggiare le relative crisi umanitarie e prevenire il rafforzamento delle rotte migratorie gestite da trafficanti di uomini, sia di accoglienza, soprattutto nei Paesi Occidentali. La Comunità Economica dell’Africa Occidentale (CEDEAO) ha proposto a livello regionale l’istituzione di aree protette e a livello multilaterale per la gestione dei flussi migratori offrendo loro garanzie e assistenza oggi improponibili. Si tratta di una proposta che merita di essere presa in considerazione, sia per l’originalità, data dalla comunione tra aree protette e flussi migratori, sia perché presuppone un cambio di paradigma nella gestione dei migranti, con interventi finalmente diretti nei Paesi prossimi a quelli di origine dai quali essi fuggono, con l’intervento coordinato dei paesi occidentali, realizzando le condizioni di una permanenza sicura e una gestione rispettosa dei diritti umani e degli obblighi internazionali stabiliti.

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