Indignez vous, il coraggio di cambiare le cose

PhD in sociologia conseguito presso l’Università degli Studi di Roma Tre e arabista, è docente a contratto di sociologia delle migrazioni islamiche in Europa.
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16 luglio 2016

Indignez vous! (Add editore, 2010). Così titolava un piccolo pamphlet di Stéfhane Hessel, diplomatico e politico francese di origine ebrea, deportato durante la seconda guerra mondiale nel campo di concentramento tedesco di Buchenwald. Si tratta di uno degli intellettuali più ascoltati al mondo, le cui riflessioni hanno condizionato la politica francese ed europea tanto da essere stato incaricato, insieme ad altri illustri intellettuali, di redigere la famosa Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo (Parigi, 10-12-1948). Hessel, con voce chiara e la consueta autorevolezza, invitava con quella sua piccola ma importantissima pubblicazione, tutti i cittadini ad indignarsi, per non rimanere silenti, per non guardare il mondo girare e la vita scorrere senza mai prendere posizione, per reagire ai soprusi, alle violenze, alle discriminazioni, alle ingiustizie. Proprio lui che visse gli anni terribili della discriminazione, della deportazione e dell’annientamento pianificato di oppositori, stranieri, omosessuali, rom e qualunque declinazione possibile possa assumere il diverso, invita le nuove generazioni a non rassegnarsi, a non perdersi nei colori opachi della modernità ma a reagire con coraggio, ritrovando il senso di una vita rivolta in favore della democrazia e del rispetto dei diritti umani.

Ormai uscito sei anni fa, quel piccolo manifesto ha una forza ancora attualissima. In questi ultimi anni stiamo, infatti, assistendo a forme di violenza che ricordano anni e periodi che si pensavano superati definitivamente. I diritti umani fondamentali vengono quotidianamente e ripetutamente offesi se non negati. Non solo nei regimi dittatoriali che ancora dominano in molti Paesi nel mondo, in Asia come in Africa: in Eritrea domina la dittatura di Afewerki, in Egitto quella di Al Sisi e in molti altri Paesi le ripetute violenze, a partire dalla Turchia di Erdogan, sono all’ordine del giorno. Questo fenomeno sembra però riguardare anche la civile Europa. I diritti dei migranti, dei profughi, di milioni di lavoratrici e lavoratori, dei giovani e dell’ambiente vengono calpestati o ipotecati anche nelle democrazie occidentali.

Uccidere una donna per aver detto “addio” al proprio uomo; far lavorare più di dodici-tredici ore un bambino, meglio se profugo; uccidere giovani omosessuali in un locale; aggredire e ridurre al silenzio dei ragazzi, ad Istanbul, colpevoli di celebrare l’uscita dell’ultimo disco della loro band preferita. E poi i respingimenti, gli accordi internazionali come quello tra UE e Turchia, gli hot spot per i profughi, i confini militarizzati e le barriere per impedire a chi fugge dalle guerre e dalle violenze di avere una vita migliore. Un mondo nel quale indignarsi sembra ormai inevitabile se si vuole conservare umanità e dignità.

Stefano Rodotà, nel suo libro “Il diritto di avere diritti” (Laterza, 2013), cita l’articolo 19 della Dichiarazione Universale dei diritti umani che riconosce “il diritto di cercare, ricevere e diffondere informazioni e idee con ogni mezzo e senza riguardo a frontiere”; se è vero infatti che oggi è più facile conoscere ciò che accade dall’altra parte del modo, mantenere in essere rapporti familiari, amicali o economici a distanze che solo venti anni fa sembravano incolmabili, è vero anche che internet continua ad essere vietato in molti Paesi, la censura negare il diritto di cronaca, la religione declinata in modo violento e crudele, il terrorismo conquistare territori e farsi Stato, il potere politico estendere la sua azione nel privato e quotidiano di milioni di persone. Vale in Cina, in Sudan, in Egitto, in Turchia, in Russia e in molti altri Paesi e in forme più sofisticate di quelle tradizionali anche in alcuni Paesi occidentali.

È senza dubbio vero però che ciò a cui si è assistito, a partire dal 2011, nel mondo arabo e a cui è stato dato il nome di “primavere arabe” è un movimento che continua a generare domande sociali, di democrazia, di libertà, nonostante le repressioni, gli attentati, gli omicidi e le “sparizioni di Stato”. Il coraggio dimostrato da milioni di giovani - uomini e donne - che si sono uniti aldilà del proprio credo religioso e hanno gridato all’unisono “dignità” è una lezione di umanità per il mondo intero. Loro hanno fatto proprio l’appello di Hessel.

Il mondo richiede gesti coraggiosi, analisi approfondite e la capacità di prendere posizione rispetto alle grandi ingiustizie che il potere e l’economia ancora producono nel mondo. Da che parte stare diventa la scelta quasi antropologica della post-modernità. Una scelta in realtà affrontata già dalle generazioni precedenti e per questo una scelta intima per ogni generazione. La dinamica e i rapporti di forza che sottintendono a quella scelta fanno la storia e indicano la direzione che prenderà il mondo.

Ad Hessel rispose Ingrao sostenendo che indignarsi non basta, si deve agire. Indignazione e azione sono senza dubbio i due volti di una stessa battaglia. Possono pretendere ed ottenere giustizia, libertà e uguaglianza, oppure restare il flebile sibilo di un popolo annichilito e pigro. Agire in una direzione o nell’altra spetta solo a noi. Tutto il resto è la retorica di poteri e interessi che vogliono omologarci nell’anomia e nell’indifferenza. Anche per questo indignarsi e agire è quanto mai urgente e irrimandabile.

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