La Croazia dice addio alle trivelle

PhD in sociologia, presidente della coop. In Migrazione e di Tempi Moderni a.p.s.. Si occupa di studi e ricerche sui servizi sociali, sulle migrazioni e sulla criminalità organizzata.
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16 luglio 2016

Dal sito di Greenpeace

Sì, perché di mare qui si parla: la Croazia ha deciso, chiude definitivamente le sue acque ai petrolieri. Parola del ministro per l’Economia Tomislav Panenić: «La maggioranza dei cittadini è contraria all’estrazione di petrolio in Adriatico. Il turismo è molto più importante e questo progetto (riferendosi ai piani di estrazione idrocarburi dai fondali croati, ndr) è semplicemente inaccettabile».

Poche righe che fanno calare il sipario sul miraggio fossile dei croati e, con esso, su uno dei più goffi argomenti usati nel nostro Paese per legittimare le trivellazioni: “Se lo fanno i nostri vicini, perché non possiamo farlo anche noi?”. Che la Croazia avesse già da mesi bloccato ogni piano di sfruttamento energetico dei suoi mari era cosa nota. Eppure, durante la campagna referendaria dei mesi scorsi, la grancassa governativa e lobbistica ha continuato a raccontare di un Adriatico che sarebbe comunque stato perforato in ogni dove, a pochi chilometri da casa nostra.

Non è semplice esterofilia, dicevamo, ma un confronto elementare e trasparente, tra opzioni economiche ancor prima che ambientali. I croati hanno fatto due conti, capito che i cittadini non volevano consegnare i mari alle multinazionali delle fossili e verificato che il turismo può generare molta più ricchezza.

In realtà la situazione italiana non è dissimile. Malgrado il risultato negativo del referendum – da tarare rispetto ai livelli correnti di partecipazione al voto, oramai ai minimi, nonché alla campagna di sabotaggio messa in campo da Renzi e petrolieri – tutti i sondaggi rilevano che anche nel nostro Paese la maggioranza della popolazione è contraria allo sfruttamento delle riserve offshore; e il settore del turismo si è schierato in maniera pressoché univoca contro le trivelle. Sarebbe tuttavia ora che questo settore facesse qualcosa di più: chi ricava profitti soprattutto dalla bellezza dei nostri paesaggi e dall’integrità dei nostri mari e dei nostri ecosistemi in generale, dovrebbe essere impegnato a promuovere l’alternativa energetica, investendo convintamente in rinnovabili ed efficienza. E dovrebbe avere alleato un governo che favorisca questi investimenti. Ma questo in Italia non sta avvenendo.

Nel 2015 le rinnovabili in Italia hanno ridotto la loro produzione assoluta, rispetto al 2014, del 9,6 per cento. Non sappiamo di altri Paesi – almeno tra quelli più sviluppati – in cui le fonti pulite invece di crescere calano di produzione. E dove a contrarsi sono i Terawattora verdi e a crescere sono quelli termoelettrici di gas e carbone. E pensare che, proprio nei giorni che precedevano il 17 aprile, Renzi aveva dichiarato che nel giro di due anni porterà in Italia le rinnovabili al 50 per cento…

L’invito all’astensione del primo ministro, in occasione del voto sulle trivelle, ha garantito (per il momento) la sopravvivenza di una norma apertamente contraria al diritto dell’Ue che garantisce diritti di sfruttamento illimitati dei giacimenti entro le 12 miglia marine. Nella ‘narrazione’ del governo, il mancato quorum avrebbe dovuto garantire i posti di lavoro di chi opera nell’oil & gas. Ma è la Filctem CGIL, già molto attiva nelle settimane precedenti il voto, a lanciare l’allarme: 600 posti di lavoro già persi nel ravennate – epicentro del settore – cantieri fermissimi, bilanci che saranno presto ben più pesanti. Ora certamente il governo Renzi, con la stessa solerzia con cui ha difeso quei posti di lavoro dal voto ‘No Triv’, vorrà trovare soluzione, garantire tutela per quei lavoratori. Vedremo.

Intanto quanto accade dimostra per l’ennesima volta alcune semplici cose. Che dietro la difesa dello 0,8 per cento del fabbisogno petrolifero nazionale e del 2-3 per cento di quello del gas – sì, queste misere quantità erano la posta in gioco nel referendum del 17 aprile – non vi era alcuna strategia di difesa dell’occupazione, ma solo l’obiettivo di non far pagare alle compagnie petrolifere lo smantellamento di impianti vecchi, inquinanti, improduttivi. Inoltre, è definitivamente assodato che ai nostri vicini di casa l’epopea di un’economia morente come quella del petrolio non interessa. Non sono tanto sciocchi da consegnarsi a decenni di occupazione “fossile” dei propri mari, che sono probabilmente l’asset strategico principale dell’economia croata. E noi italiani?

La partita sulle trivelle, spiace per Palazzo Chigi, non è affatto chiusa. Tutt’altro.

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