Il terzo luogo. Coesione sociale e azione pubblica

PhD in sociologia, presidente della coop. In Migrazione e di Tempi Moderni a.p.s.. Si occupa di studi e ricerche sui servizi sociali, sulle migrazioni e sulla criminalità organizzata.
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18 luglio 2016
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Presentazione e prefazione al testo di Ciardiello, Il terzo luogo. Coesione sociale e azione pubblica. Generare e valutare processi partecipativi, Roma: Aracne Editrice, con prefazione di Gloria Regonini.

A partire da una riflessione intorno alla coesione sociale come costrutto nodale per questioni a vario titolo correlate al “tenersi insieme” delle società, il volume si concentra sull’azione pubblica che pone fra i propri obiettivi espliciti la promozione della coesione sociale nelle città attraverso il coinvolgimento diretto dei cittadini e degli attori locali. L’argomentazione si dipana con l’obiettivo di dare conto della capacità dell’azione pubblica considerata di generare condivisione delle responsabilità sociali e si conclude con proposte inerenti alla generazione di un nuovo spazio pubblico – il terzo luogo – in cui elaborare discorsivamente le questioni di rilevanza collettiva.

Prefazione di Gloria Regonini

Il tema affrontato in questo volume è di grande rilevanza, perché interrogarsi sul significato e sulle possibili applicazioni pratiche dell’idea di coesione sociale permette di capire meglio le potenzialità e le contraddizioni attuali dell’idea stessa di democrazia. Nelle nostre società aperte, il proposito di prevenire i rischi di disgregazione e di allargare la sfera delle scelte condivise non può fondarsi su una visione antipluralista e paternalistica delle dinamiche sociali e politiche, ma deve invece porsi in una relazione di continuità con le grandi utopie fondative che hanno ispirato le istituzioni in cui viviamo.

In molte ricostruzioni storiche, a partire da Marshall (1950) e Bendix (1964), in questo lungo e contorto percorso sono distinguibili tre acquisizioni fondamentali. La prima, sia storicamente, sia analiticamente, è l’idea della coesistenza civile, cioè del riconoscimento di diritti fondamentali quali il diritto alla vita, all’integrità fisica, alla libertà, alla proprietà, a un giusto processo, senza discriminazioni basate sulla razza, il genere, la religione. La seconda utopia fondativa riguarda l’uguaglianza dei diritti politici: il diritto a intervenire nella selezione di chi ci governa e delle loro scelte, attraverso il voto e la ‘voce’, cioè la libertà di intraprendere azioni per ottenere il consenso degli altri cittadini su proposte alternative a quelle portate avanti da chi detiene il potere politico. Infine, tra gli ultimi decenni del 1800 e gli anni ’60 del 1900, si è consolidata una nuova idea della missione delle istituzioni pubbliche che, benché non si identifichi totalmente con il concetto di coesione sociale, tuttavia ha molti punti di contatto con questo obiettivo. Lo sviluppo del welfare state aveva alla sua radice la visione di un attivo impegno dei centri di governo per garantire a tutti i cittadini un riparo dalle avversità basato sulla solidarietà tra gruppi sociali e generazioni diverse e gestito in base a criteri di equità. Molti autori sottolineano come le concrete attuazioni ispirate a queste tre utopie fondative siano progredite secondo una logica di stretta integrazione reciproca, e non di “successione per sostituzione”. I diritti civili e politici oggi comprendono tutele attive da discriminazioni e situazioni di svantaggio. In modo simmetrico, i destinatari delle politiche sociali sono oggi considerati titolari di nuovi diritti civili e politici, da quello alla privacy a quello all’informazione, alla scelta e alla voice. Anche se i processi storici reali sono stati molto meno lineari di quanto non possa essere riconosciuto in un riassunto di poche righe, l’integrazione tra queste tre fonti originarie dei nostri diritti e dei nostri doveri di cittadini è un aspetto importante dell’idea di coesione sociale, al punto che ci è difficile pensare all’una senza pensare alle altre. Oggi, per motivi diversi, tutte e tre queste utopie fondative appaiono più fragili, meno condivise, lontane dall’autoevidenza e dalla prospettiva universalistica che le hanno qualificate per oltre due secoli, dalle dichiarazioni dei diritti delle rivoluzioni moderne ai documenti delle organizzazioni internazionali. Se pensiamo alla sfera dei diritti civili, dal diritto alla sicurezza personale alla libertà di culto, spesso definiti ‘diritti di prima generazione’, oggi le minacce provengono da drammatiche sfide non più solo esterne, come l’occidente ha tragicamente scoperto con la serie di attentati che vanno dall’11 settembre 2001 a New York alle stragi di Parigi del 2015, eventi inimmaginabili qualche decennio fa. Se consideriamo l’effettiva incisività dell’esercizio dei diritti politici, constatiamo che la fine dell’età d’oro dello stato-nazione e l’affermazione della multilevel governance rendono molto più difficile, per i comuni cittadini - elettori - contribuenti, identificare le sedi in cui sono effettivamente prese le decisioni che li riguardano e mobilitarsi perché queste ultime siano modificate. Questo dato è reso ancora più amaro dall’enorme sviluppo delle tecnologie che oggi in teoria consentirebbero di superare i problemi di connessione, di comunicazione e di partecipazione che nei secoli precedenti hanno penalizzato le organizzazioni di opposizione nell’esercizio dei loro diritti. Infine, se guardiamo alle promesse del welfare state effettivamente mantenute, dobbiamo prendere atto del fatto che, dopo il 1985, e soprattutto dopo la crisi economico-finanziaria che ha colpito molti paesi nel 2008, la disuguaglianza è significativamente aumentata nella maggioranza delle nazioni OCSE, spesso facendole retrocedere a livelli mai registrati dalla fine del 1800 (OECD 2015). Se l’esito è preoccupante, ancora di più lo è il modo in cui si è pervenuti a questi disequilibri. Secondo molti autori, infatti, questa situazione non è tanto il prodotto inatteso di congiunture straordinarie sfuggite di mano alle capacità previsionali e operative dei governi, quanto invece l’intenzionale risultato di quella che Di Palma (2013) chiama la ‘decontrazione della solidarietà’, cioè lo spostamento della responsabilità della protezione dai rischi di situazioni avverse (malattie, disoccupazione, inabilità fisiche, intellettuali, relazionali) dalle istituzioni politiche ai singoli individui ora chiamati a farsi carico in prima persona della loro tutela, cercandola sul mercato e/o rivolgendosi alle organizzazioni no profit, dato che è sui singoli che ricade, in ultima istanza, la ‘colpa’ delle proprie inadeguatezze. Se questi sono i trend emersi dall’inizio del nuovo secolo, l’obiettivo della coesione sociale non può più trovare un intrinseco sostegno nell’onda lunga delle grandi innovazioni radicate nelle tre ‘utopie fondative’ cui abbiamo fatto riferimento. Per avere l’evidenza visiva di questo ‘cedimento del terreno’, si possono rivedere le immagini della mostra fotografica The Family of Man, organizzata dal Museum of Modern Art’s (MOMA) di New York nel 1955. Oggi sappiamo che la speranza in un futuro comune, condiviso,

dignitoso che traspare da molti di quegli scatti non può contare su una naturale, istintiva, universale simpatia. Questa perdita dell’innocenza, questo smarrimento della fiducia illuministica in una progressiva estensione dei diritti individuali, politici e sociali, può avere due esiti. Il primo è una rassegnata accettazione dello spirito del tempo. Il secondo è un radicale ripensamento del significato stesso di coesione sociale, motivato non solo da ideali di equità e dignità, ma dalla realistica constatazione che lo stesso sviluppo economico richiede società inclusive e coese (OECD 2015, p. 26), perché del potenziale di ‘distruzione

creativa’ dell’economia rimarcato da Schumpeter (1942) non rimanga solo la distruzione: quella dell’ambiente; quella delle vite di chi fugge dalla fame e dalla guerra; quella del potenziale intellettuale di chi non può accedere all’istruzione.

Questo volume dà un contributo importante a una reinvenzione dell’idea di ‘coesione sociale’, qui analizzata come costrutto, cioè ricondotta ai frames impliciti degli attori sociali e politici che ricorrono a questo termine e alla natura dialogica dei processi attraverso i quali questo viene definito e operazionalizzato. E lo fa muovendo da un’attenta rassegna critica delle definizioni che di esso sono date, a partire da un originale spunto: le differenze tra le corrispettive versioni inglesi, francesi, spagnole e italiane su Wikipedia. La ricerca prosegue con l’analisi di alcuni concreti tentativi messi in atto per rendere operativo questo costrutto. Questa parte fornisce importanti elementi di riflessione. Innanzi tutto, le iniziative sono state intraprese non in

contesti lontani, ma nel nostro paese. Questo significa che approcci dichiaratamente tesi all’innovazione del rapporto fra cittadini e istituzioni attraverso l’attivazione delle capacità di apprendimento non solo dei cittadini, ma anche degli attori della società civile e, in ultima analisi, delle istituzioni hanno dovuto fare i conti con le enormi difficoltà create dal (mal)funzionamento del settore pubblico italiano. In secondo luogo, come abbiamo visto, la logica che ispira questi esperimenti si differenzia in modo significativo dai tradizionali interventi di ‘coinvolgimento’ e ‘sensibilizzazione’ dei destinatari condotti secondo una logica top-down. In terzo luogo, le modalità con cui l’autrice dà conto dei processi, dei risultati e dei limiti di queste ‘prove pubbliche di coesione’ seguono un originale approccio metodologico, connotato dall’analisi delle modalità attraverso le quali, usando il linguaggio ordinario, amministratori locali, operatori istituzionali, soggetti del terzo settore e cittadini hanno dato corpo al mandato di generare coesione sociale. Dal mio punto di vista di studiosa di politiche pubbliche, questi tre aspetti permettono di confermare e approfondire alcune idee che provengono dalle radici teoriche e dalle riflessioni etiche alla base di questa disciplina, per come è stata impostata da autori quali Lasswell, Lindblom,Wildavsky. In primo luogo, è difficile per i cittadini ‘avere la loro da dire’ sulle scelte pubbliche quando gli stessi politici e i dirigenti amministrativi vedono l’azione pubblica solo come approvazione di leggi, stanziamento di fondi, creazione di strutture burocratiche. Con riferimento al caso italiano, è esperienza comune di chi analizza le decisioni pubbliche nel nostro paese il disagio per le modalità con cui queste sono adottate e legittimate, in forme che spesso sono quanto di più lontano si possa immaginare da una logica dialogica, aperta al confronto e alla rendicontazione dei risultati. Dal punto di vista dell’analista di politiche, la lista interminabile dei ‘visto..visto..visto..’ con i più astrusi e remoti richiami a leggi e regolamenti, è una cortina fumogena cui i decisori ricorrono per nascondere la loro incapacità di presentare in termini chiari e falsificabili le ipotesi che stanno alla base di un intervento pubblico. Dal punto di vista del cittadino interessato a far sentire la sua voce, i ‘visto..visto..visto..’ sono un fuoco di sbarramento che impedisce la risalita dal basso verso l’alto di conoscenze, di esperienze, di proposte alternative. Per certi versi, la genericità o l’astrusità delle motivazioni che provengono dall’interlocutore pubblico rimandano a relazioni di potere pre-moderne, quando valeva il principio “gli argomenti sono validi nella misura in cui l’autorità è valida”. Come è noto, secondo Habermas la transizione verso nuovi rapporti di potere tra governanti e governati passò attraverso il radicamento di un’opinione pubblica capace di capovolgere questo principio:”l’autorità è valida nella misura in cui i suoi argomenti sono validi” (Poggi, 2014). I cittadini coinvolti negli esperimenti analizzati in questo volume hanno pochi tratti in comune con il ceto colto e benestante che tra il 1700 e il 1800 riuscì a incrinare il predominio dell’assolutismo: si tratta di persone alle prese con disagi e insoddisfazioni che possono disgregare il senso di appartenenza a una comune rete sociale. Ma proprio per queste loro ‘competenze’ sono stati invitati a definire, attraverso un’elaborazione comune, che cosa intendono per coesione sociale e quali politiche pubbliche potrebbero rafforzarla.

Il metodo scelto dall’autrice per dare conto di queste esperienze permette di capire che non si è trattato di una passeggiata in discesa. Il senso della condivisione di una comune avventura per il fatto di vivere in una stessa epoca e con lo stesso codice postale è tutt’altro che scontato, anche tra persone che hanno gli stessi problemi e utilizzano gli stessi servizi pubblici. Eppure, le lezioni apprese in questi esperimenti da professionisti riflessivi, consapevoli delle potenzialità e dei limiti dei loro strumenti di intervento, forniscono indicazioni preziose per provare a riscoprire le ragioni ultime della convivenza democratica e per riflettere criticamente intorno ai metodi utilizzati per generare una sua visione condivisa.

Non resta che acquistarlo, leggerlo e farne esperienza pratica di azione e di governo.

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