Profughi, sempre più a sud

Giornalista, già responsabile delle edizioni regionali e vice capo redattore della cronaca di Roma de Il Messaggero, ha approfondito i problemi dell’immigrazione.
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24 settembre 2016
I 40 sudanesi rimpatriati da Ventimiglia probabilmente sono solo l’inizio. Li hanno presi nel centro accoglienza della Croce Rossa dove si erano rifugiati, portati in questura a Imperia e da qui trasferiti a Torino Caselle, per essere caricati, sotto scorta, su un volo speciale per Khartoum. Poi, dopo averli consegnati alla polizia sudanese, l’Italia si è totalmente disinteressata della loro sorte. Pur sapendo bene di averli messi nelle mani della dittatura di Al Bashir dalla quale erano scappati. Non è stato specificato – o comunque i giornali non ne hanno fatto cenno – se tra loro, come è possibile, ci fossero dei profughi del Darfur, la sfortunata regione sconvolta da anni dalla guerra civile, dove le famigerate milizie janjaweed, i “diavoli a cavallo”, hanno licenza di uccidere e di commettere ogni forma di violenza. Il Viminale si è giustificato appellandosi al memorandum of understanding, il trattato bilaterale per il rimpatrio firmato a Roma il 3 agosto. Un patto, peraltro, rimasto praticamente segreto fino all’episodio di Ventimiglia. E che, appunto, con questo primo respingimento di massa, è lo specchio dell’ulteriore giro di vite impresso dall’Italia alla sua politica sull’immigrazione. Una conferma, pochi giorni dopo, è venuta da Como, dove si ammassano centinaia di profughi che non riescono a passare in Svizzera. Per “alleggerire la frontiera”, almeno due volte alla settimana la polizia organizza veri e propri “pullman di deportazione”, riempiendoli dei migranti bloccati dalla gendarmeria elvetica e riconsegnati, sulla linea di confine, alle autorità italiane. Una volta presi, fuggire è impossibile: fino alla partenza dei bus la sorveglianza è rigidissima. Meta del viaggio: uno degli hot spot del Sud Italia. In particolare, quello di Taranto. Celeste Grosso, attivista dell’Arci di Como, intervistata dal Fatto Quotidiano, non ha dubbi: “Si tratta di trasferimenti collettivi e indiscriminati. I migranti sono costretti a salire su questi pullman con i vetri oscurati e non gli viene nemmeno detto dove verranno portati. Scopriranno la nuova destinazione solo all’arrivo”. Il timore è che Taranto e gli altri hot spot siano solo la prima tappa di un’odissea al contrario, che si concluderà con la “riconsegna” dei profughi agli Stati di provenienza o a uno dei paesi di transito disposti a “prenderseli”, in cambio dei soldi assegnati dal Processo di Khartoum, il patto sottoscritto tra l’Unione Europea e dieci governi dell’Africa Orientale, da cui derivano gli accordi bilaterali come quelli firmati da Roma con il Sudan, la Libia, il Gambia, la Nigeria. “Si tratta, in sostanza – rileva l’agenzia Habeshia – di respingimenti anche verso dittature feroci, da tempo messe sotto accusa da organizzazioni come Amnesty o Human Rights Watch e dalle stesse Nazioni Unite, ma di fatto riabilitate proprio da trattati come i Processi di Rabat o di Khartoum e dai successivi accordi di Malta, per non dire dei patti conseguenti con tutta una serie di singole capitali africane”. Il più convinto sostenitore di questa scelta è il ministro dell’interno Angelino Alfano. Anzi, Alfano ritiene che “bisogna calcare ancora di più la mano”. “Dobbiamo affermare il principio – ha infatti dichiarato, come riferisce il Fatto Quotidiano – che più (i profughi) vanno al nord per cercare di varcare la frontiera, più li riconduciamo a sud”. Ecco, appunto, sempre più a sud. Bisogna vedere “quanto” più a sud, perché – sarà magari un caso, ma certamente è un fatto – in contemporanea con il nuovo “indirizzo” italiano, si è registrato un durissimo giro di vite anche nella politica dei Governi africani ai quali, in base agli accordi con la Ue e Roma, è stato affidato il ruolo di “gendarmi”, con l’incarico di bloccare i flussi di immigrazione verso la Fortezza Europa e di rimpatriare di forza i migranti, sia quelli intercettati lungo le vie di fuga, sia quelli rimandati indietro dagli Stati europei. In Sudan il compito di occuparsi dei profughi, su precisa disposizione del dittatore Al Bashir, ce l’hanno proprio le bande di “diavoli a cavallo” janjaweed. Migliaia di richiedenti asilo sono stati fermati a Khartoum, a Cassala e nelle altre città maggiori, oppure alle soglie del confine con la Libia e con l’Egitto. Ora sono nei centri di detenzione o addirittura nelle carceri criminali, in attesa di essere rimpatriati contro la loro volontà. In maggioranza sono eritrei e per loro il rimpatrio forzato equivale alla consegna, con la pesante accusa di diserzione, alle galere del regime di Isaias Afewerki, nelle quali – secondo i rapporti dell’Onu e di varie Ong – maltrattamenti, violenze, torture, uccisioni sono pratiche pressoché quotidiane. Vantano il blocco di migliaia di rifugiati anche la polizia e la Guardia Costiera libiche. La “retata” più recente risale a pochi giorni fa: è stata attuata tra il 16 e il 17 settembre, quando sono stati fermati ben 1.425 tra uomini, donne e bambini: più di mille intercettati su sette battelli salpati da Sabratha; altri 300 su tre gommoni e 75 su due barchini, partiti sempre dal litorale a ovest di Tripoli. Tutti i fermati, una volta ricondotti a terra, sono finiti nei centri di detenzione, veri e propri lager, dove le condizioni di vita sono infernali e dove la violenza è la norma, come hanno provato numerose inchieste giornalistiche e i dossier di Amnesty e di Human Rights Watch. Parlando dell’ultima operazione, condotta con motovedette e mezzi forniti a suo tempo a Tripoli da Roma, il portavoce delle forze di sicurezza navali, Ayoub Qassen, ha vantato che in queste settimane la Libia (ma in realtà la sola Tripolitania del governo Serraj, con il quale l’Italia ha concordato il patto sull’immigrazione) ha rimpatriato oltre 11 mila rifugiati. Non è da meno l’Egitto, l’altro paese di imbarco verso l’Italia. Quasi in contemporanea con l’annuncio fatto da Tripoli, il portavoce militare del Cairo, Mohamed Samir, ha segnalato che la marina egiziana aveva fermato due giorni prima 440 migranti a bordo di due barche da pesca salpate dal litorale di Raas Al Hekma per tentare la traversata del Mediterraneo. Un’operazione, ha specificato, legata all’ordine del comando generale delle forze armate di predisporre un massiccio spiegamento di navi e unità minori “per proteggere e pattugliare le coste”. Ovvero, in concreto, per intercettare e fermare i barconi dei profughi. Blocchi analoghi sono stati organizzati, durante l’estate, nella zona del delta del Nilo, il principale punto d’imbarco utilizzato dai trafficanti, mentre numerosi arresti sono stati effettuati anche a terra, lungo gli itinerari verso Alessandria e la costa dal Cairo ma anche da Assuan e dall’estremo sud. Ed essere arrestati come migranti clandestini, nell’Egitto del dittatore Al Sisi, significa finire in carcere quasi a tempo indeterminato: fino a quando, cioè, non si accetta di pagare le spese del viaggio forzato di ritorno nel proprio paese. Viaggio di ritorno che per molti comporta altra galera, forse addirittura peggiore di quella egiziana. Così il cerchio si chiude: in Africa è sempre più difficile passare; il Mediterraneo è sempre più blindato e militarizzato; dall’Europa aumentano le espulsioni, anche di massa. Ovvero: la Ue, inclusa l’Italia, continua ad alzare “muri”, anche con l’aiuto di alcune delle più feroci dittature. Muri che, oltre tutto, costano cari. “L’Unione Europea – ha fatto notare Celeste Grosso, partendo dai provvedimenti decisi dal Viminale per Como – nel 2015 ha speso il 70 per cento delle risorse destinate agli immigrati per i respingimenti e soltanto il 30 per cento all’accoglienza. Invertendo le proporzioni si avrebbe una situazione dignitosa per i migranti e più sostenibile per tutti, oltre che una notevole riduzione delle spese”. E’ una osservazione ragionevole. Come sarebbe ragionevole, in Italia, organizzare finalmente, con il coinvolgimento attivo dei Comuni, un sistema che elimini l’attuale sproporzione tra i posti disponibili nel circuito Sprar, meno di 25 mila, che prevedono un percorso di integrazione, e i 120 mila dei Cara o dei Cas, i centri di ospitalità straordinaria, che dovrebbero essere “provvisori” ma sono diventati in realtà “stabili” al punto da costituire il cardine del programma di accoglienza, in un clima di emergenza perenne. Ma forse proprio questo si vuole: che l’Italia resti cioè un paese di primo approdo e di transito come è stata finora, impedendo che i profughi che bussano alle sue porte mettano radici. E’ accaduto così per anni, sino alla fine del 2015: anni nei quali Roma ha finto di non vedere i tantissimi “transitanti”, almeno due terzi dei migranti sbarcati, che risalivano la penisola, spingendoli di fatto verso gli altri paesi europei. Accade così ancora adesso, ma con una differenza mortale: dopo che vari governi Ue hanno chiuso le frontiere, vanificando persino il piano di relocation varato da Bruxelles, la “politica delle barriere” voluta anche da Roma spinge i rifugiati “sempre più a sud”, verso l’inferno da cui sono fuggiti.

Tratto da: Diritti e Frontiere

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