La sfida dei profughi ragazzini

Giornalista, già responsabile delle edizioni regionali e vice capo redattore della cronaca di Roma de Il Messaggero, ha approfondito i problemi dell’immigrazione.
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27 settembre 2016

Ha cercato di saltare su un Tir in corsa, alle soglie dell’Eurotunnel, ma è finito sotto le ruote. E’ morto così, a Calais, un ragazzino afghano di appena 14 anni. E’ la più giovane delle decine di vittime del muro eretto per fermare i profughi sul versante francese della Manica. Ma ad ucciderlo, più che il peso terribile di quel camion che l’ha schiacciato, è stato il vuoto che ha incontrato il suo grido d’aiuto. Era scappato dall’Afghanistan sconvolto da una guerra infinita, scoppiata prima ancora che lui nascesse. Sognava di poter raggiungere il fratello, esule a Londra. Ne aveva diritto, come stabiliscono le leggi e le convenzioni internazionali. E, giunto quasi alla fine del suo lunghissimo esodo, si era affidato proprio a queste leggi, con una richiesta di ricongiungimento familiare. Ha atteso per mesi che lo lasciassero passare, vivendo nel caos della “jungla di Calais”, l’enorme campo profughi sorto alle porte della città. Poi non ce l’ha fatta più ad aspettare ed ha tentato la sorte, come aveva visto fare a centinaia, migliaia di disperati come lui, lì a due passi del tunnel che porta in Inghilterra.

Nessuno risponderà di questa giovanissima esistenza spezzata: non la burocrazia ottusa e insensibile, che per mesi ha relegato in una bidonville un quattordicenne già così provato dalla vita; non la politica e le istituzioni europee, che continuano ad alzare muri. E tra un po’ nessuno si ricorderà più di quel ragazzino che nella “jungla” conoscevano in tanti: fragile ma più maturo della sua età, “sempre disponibile e gentile”, nonostante l’inferno che aveva nel cuore.

Ce ne sono migliaia di ragazzini come lui in tutta Europa: afghani, iracheni, siriani, eritrei, gambiani, somali. Soprattutto in Italia, dove ne sbarcano ogni anno di più. Le statistiche li definiscono minori non accompagnati. Una orrenda formula burocratica per dire – o forse non dire – che si tratta di giovanissimi costretti a mettere in gioco la loro stessa vita, affrontando un viaggio pieno di insidie, a un’età in cui si sta appena lasciando la stagione dei giochi. Nel 2015 in Italia ne sono arrivati 12.360. Quest’anno sono molti di più: fino al 31 luglio, come riferisce l’Oxfam, ne sono stati censiti dal ministero dell’Interno ben 13.705. Un incremento di quasi 1.350, in soli sette mesi, rispetto all’intero anno precedente: con questo ritmo, a fine 2016 saranno più di 20 mila.

Ventimila adolescenti, uomini e donne, arrivati da soli, in balia di trafficanti di ogni genere. Ma, assai spesso, in balia di trafficanti e sfruttatori anche dopo lo sbarco: dopo che, cioè, sono stati presi “sotto la tutela dello Stato”. Tantissimi di loro, infatti, sono scomparsi e continuano a scomparire dai centri di prima accoglienza. Non si sa dove siano finiti. Spariti e basta: un numero nelle statistiche del Viminale. Un numero molto alto. Nel 2014 si è persa ogni traccia di ben 3.707 dei 14.243 bambini e ragazzi sbarcati in Sicilia o nella Penisola da soli, senza neanche un familiare o un amico adulto. Più di uno su quattro. L’anno dopo ha confermato questo problema enorme anche un rapporto dell’Europol, segnalando oltre 10 mila adolescenti spariti in tutta Europa. Un allarme analogo lo ha lanciato poco dopo l’Unicef, sollecitando a tutte le istituzioni europee e alle cancellerie nazionali un impegno concreto, immediato, per cercare di chiudere questo buco enorme nel già dissestato sistema di accoglienza per i disperati che bussano alle porte della Fortezza Europa.

A dodici mesi di distanza da quei rapporti e da quegli appelli non è cambiato nulla. Quest’anno, anzi, il fenomeno sembra ancora più in crescita. L’ultimo dossier dell’Oxfam, pubblicato all’inizio di settembre, denuncia che in Italia si sono perse le tracce di almeno 28 minorenni al giorno, quasi sempre giovanissimi. Bambini e ragazzini inghiottiti dal nulla. “Molti saranno magari riusciti a continuare il viaggio da soli, fino a raggiungere familiari e parenti sparsi in Europa. Vogliamo credere, anzi, che questa sia la sorte della maggioranza dei tanti desaparecidos giovanissimi. Ma già questo, che pure sarebbe, per così dire, l’ipotesi più ‘rassicurante’, è del tutto assurdo: è cioè assurdo, inaccettabile che, per raggiungere i propri familiari, dei ragazzini siano costretti a sfidare la sorte e magari, come accade spesso, ad affidarsi a organizzazioni di trafficanti anche in Italia e in Europa” rileva con forza Enrico Calamai, portavoce del Comitato Nuovi Desaparecidos.

Non c’è dubbio, in effetti, che nel sottobosco delle fughe di tanti giovanissimi abbiano messo le mani clan di trafficanti. E’ eloquente, ad esempio, il “giro” scoperto nel 2014 a Catania, dove la polizia ha arrestato una banda di 11 uomini, in maggioranza eritrei, liberando 9 quasi bambini, tenuti segregati in attesa che le famiglie pagassero “le spese di viaggio”. E questo business continua. “Qualcuno mi ha aiutata”, ha risposto tre mesi fa, nei pressi di un centro accoglienza “spontaneo”, una ragazzina eritrea di appena 15 anni, intervistata da una giornalista che, avendola vista appena quattro giorni prima in Sicilia, le aveva chiesto in particolare come avesse fatto ad arrivare a Roma senza un soldo. “Ed ora?”, ha insistito la giornalista. “Ora andrò in Germania”. “E i soldi per il viaggio?”. “Non li ho i soldi, ma ho qualcuno che mi aiuta”. Chi sia questo qualcuno e perché l’aiutasse non lo ha voluto dire. Sta di fatto che ha lasciato Roma o comunque vicino a quel centro accoglienza non si è più vista.

La speranza è che sia arrivata in Germania come voleva: che cioè quel qualcuno l’abbia consegnata ai familiari che hanno pagato le “spese di viaggio”. Tanti seguono questa strada. Ma non tutti. Lo ha segnalato senza mezzi termini anche l’Europol nel rapporto del 2015, rilevando che una larga percentuale di questi giovanissimi rischiano di finire, specialmente le donne ma non solo, in giri di prostituzione minorile, sfruttamento, lavoro obbligatorio, violenza. Quasi schiavi da mettere all’asta. Un mondo di cui emerge pochissimo e, in genere, solo grazie ad episodi occasionali. Come la denuncia – fatta da un gruppo di medici volontari nel marzo scorso – degli stupri subiti, nell’arco di sei mesi, da almeno sette ragazzi tra i 14 e i 16 anni, nella jungla di Calais. O la tratta delle adolescenti nigeriane che, come hanno dimostrato numerose indagini, vengono vendute sui marciapiedi, per otto, dieci ore al giorno, per 15 euro a prestazione.

Forse anche sulla scia di casi di questo genere, finalmente il Viminale sta mettendo in piedi un piano specifico per redistribuire in tutte le regioni i profughi minorenni arrivati da soli (concentrati attualmente soprattutto in Sicilia) e garantire loro una forma di assistenza dignitosa, cercando così anche di arginare le continue “fughe”. Verranno coinvolte, da sud a nord, la Calabria, la Puglia, la Basilicata, la Campania, la Sardegna, le Marche, la Toscana, l’Emilia, la Liguria e il Piemonte. In ogni regione, inoltre, dovrebbero essere potenziate le strutture esistenti per i minori e ne verranno eventualmente cercate di nuove, con l’aiuto dei Comuni. Per il Lazio c’è stata una prima riunione operativa la settimana scorsa a Roma, con la partecipazione dei cinque prefetti e dei sindaci dei Comuni capoluogo. Ma – fa rilevare l’Oxfam – è essenziale che queste strutture di accoglienza cambino fisionomia, diventando centri più attrezzati e dignitosi, perché troppo spesso, oggi, come riferisce Cristina Nadotti in un servizio pubblicato da Repubblica, “nelle voci raccolte tra i ragazzi si coglie la disperazione di voler fuggire da centri che somigliano a prigioni o dai quali non si sentono tutelati”. “I nostri operatori e le organizzazioni partner in Sicilia, come Accoglierete e Borderline – ha confermato infatti Elisa Bacciotti, direttrice delle campagne dell’Oxfam in Italia – incontrano regolarmente ragazzi che raccontano di non essere stati informati della possibilità di presentare richiesta di asilo o del diritto di avere un tutore legale, ossia qualcuno che agisca nei loro migliori interessi e ne tuteli i diritti”.

La notizia di un nuovo programma specifico per i minori, allora, è certamente positiva, ma non è l’unica strada. Forse, anzi, fermo restando che occorre un decentramento e una revisione delle attuali strutture, non è neanche la strada più rapida ed efficace. Basti pensare che a volte passano mesi prima di riuscire ad assegnare un tutore. Allora vanno contemporaneamente pensate e attuate altre soluzioni. A cominciare dai ricongiungimenti familiari e dall’affidamento ai parenti che eventualmente questi ragazzini hanno in Italia e in Europa. Non è una via da “inventare” ex novo: già esiste ed è prevista espressamente sia dalla legislazione italiana sui minori, sia dallo stesso Regolamento di Dublino, che non solo consente ma per certi versi raccomanda che i minorenni non accompagnati siano fatti arrivare in tutta sicurezza presso i loro familiari che già vivono in uno qualsiasi degli Stati dell’Unione.

Ecco il punto. La grande maggioranza dei ragazzini che hanno affrontato da soli la loro fuga per la vita, hanno parenti in Europa. Spesso anzi scappano dagli attuali centri di assistenza proprio perché temono che le procedure di ricongiungimento siano troppo lunghe o che venga loro addirittura impedito di raggiungere il fratello, lo zio, un parente qualsiasi disposto ad accoglierli e ad aiutarli. Basterebbe, allora, organizzare, d’intesa con Bruxelles, dei canali preferenziali per questo tipo di affidamenti e ricongiungimenti. Canali dalle procedure ovviamente meticolose per garantire la massima sicurezza, ma “rapide”. Perché i ragazzi non abbiano la sensazione di un tempo d’attesa infinito e non percepiscano i centri che li ospitano alla stregua di un carcere.

E’ una sfida, questa dei profughi ragazzini, che l’Italia e l’Europa non possono permettersi di perdere. Vincerla è l’unico modo per onorare la memoria dei tanti che, come quel quattordicenne afghano a Calais, sono morti lungo la strada che doveva portarli verso la libertà e un futuro migliore. Perderla sarebbe come perdere se stesse.

Tratto da: Diritti e Frontiere

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