Profughi, confini blindati a raffiche di mitra

Giornalista, già responsabile delle edizioni regionali e vice capo redattore della cronaca di Roma de Il Messaggero, ha approfondito i problemi dell’immigrazione.
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09 ottobre 2016

Per costringere la barca a fermarsi, di solito prendono di mira l’acqua davanti alla prua. Se non basta, cercano di mettere fuori uso il motore fuoribordo, a poppa. Certo è, comunque, che le pattuglie navali di Frontex, l’agenzia europea per il controllo dei confini, hanno la facoltà di sparare contro i battelli dei trafficanti carichi di migranti. Negli ultimi mesi, lo hanno fatto più volte. Anche con estrema decisione. Ferendo qualcuno dei profughi a bordo. Quei profughi che Frontex dovrebbe proteggere e sottrarre ai mercanti di morte.

Sia pure in modo frammentario e confuso, per anni sono filtrate varie segnalazioni di barche prese a raffiche di mitra. Adesso, almeno nell’Egeo, la notizia ha trovato conferma. È vero che, per forza di cose, da quando il flusso di fuggiaschi dalla Turchia verso la Grecia si è quasi interrotto, non risulta che sia accaduto ancora. La “licenza di sparare” però resta e può essere utilizzata in qualsiasi momento. Lo ha rivelato una meticolosa inchiesta giornalistica pubblicata il 22 agosto da The Intercept, un giornale online inglese. I dati e le circostanze riferite sono così precisi e concreti, con tanto di testimonianze dirette, che Barbara Spinelli ed altri 40 europarlamentari ne hanno chiesto conto a Bruxelles, chiamando in causa il direttore esecutivo di Frontex, Fabrice Leggeri, e il commissario per i diritti umani del Consiglio d’Europa, Nils Muiznieks: sollecitano chiarimenti sugli incidenti registrati, con diversi feriti, in prossimità delle isole egee, e chiedono, in buona sostanza, la revoca della disposizione.

Nel mirino dei 41 parlamentari è in particolare la Guardia Costiera greca. Il caso più clamoroso riferito da The Intercept, si è verificato poco lontano dall’isola di Chios circa due anni fa: almeno tre profughi siriani sono rimasti seriamente feriti su una piccola barca da pesca che, proveniente dalla Turchia, è stata presa a colpi di mitra quando ha cercato di fuggire, eludendo l’alt intimato dall’equipaggio di una motovedetta, intervenuto con le armi spianate. Adnan Akil e Rawan, la sua giovane nuora, due dei feriti, ricordano tutto perfettamente. Rintracciati in Germania da un inviato del giornale circa tre mesi fa, hanno raccontato che quando il loro “driver”, dopo aver finto di obbedire all’alt, ha ridato gas al motore per tentare la fuga verso la Turchia, dall’unità militare hanno sparato contro la barca, costringendola a fermarsi. Poi alcuni marinai sono saliti a bordo, facendo rotta verso Chios, dove il “driver” è stato arrestato, i feriti ricoverati in ospedale e gli altri profughi condotti in un albergo a disposizione della polizia per essere interrogati. Conficcati nel legno dello scafo sono stati trovati 16 proiettili.

È seguita un’inchiesta promossa dalla magistratura greca, che ha portato all’arresto di un ufficiale del guardacoste. Contrariamente alla versione accreditata dalla Guardia Costiera, i tre feriti hanno testimoniato fin dall’inizio che il loro “driver” non era armato e non poteva dunque aver sparato per primo, specificando tra l’altro che non si trattava di un trafficante ma di un semplice pescatore, “un poveraccio che stava cercando di mettere insieme un po’ di denaro”, offrendo a qualche profugo il passaggio dalla Turchia alla Grecia. In udienza, poi, rispondendo alle domande dei giudici, l’ufficiale incriminato è stato costretto ad ammettere di aver svuotato un intero caricatore da 30 colpi. Benché “a bordo della barca non ci fossero armi” – tanto che il pescatore è stato messo sotto accusa come trafficante ma non per aver sparato o, peggio, per tentato omicidio – il Tribunale ha assolto l’ufficiale e gli altri membri dell’equipaggio, asserendo che, facendo fuoco per fermare un sospetto trafficante, avevano agito secondo il “mandato” ricevuto.

A prescindere dalla sentenza, il processo ha avuto il merito di scoperchiare tutta una situazione rimasta fino ad allora praticamente semi segreta o della quale, comunque, nessuno parlava. E, su questa scia, un capitano della Marina greca ha accettato di riferire a The Intercept, sia pure in forma anonima, come ha funzionato per anni e funziona tuttora nell’Egeo il sistema di Frontex per fermare le barche dei rifugiati. I battelli minori o i battelli pneumatici con piccoli motori fuoribordo, pilotati dagli stessi profughi, per lo più vengono lasciati passare. L’ordine è di concentrarsi sui natanti più veloci, in legno o fibra di vetro, con al timone uno scafista, come quello dei tre feriti a Chios. In caso di fuga o resistenza, si può far uso delle armi, secondo le regole d’ingaggio stabilite non direttamente da Frontex ma dalla Grecia, Stato competente per “territorialità”, a tutela delle acque nazionali. E la Grecia prevede in proposito una escalation con quattro diverse opzioni via via più “pesanti”: sparare come intimidazione, sparare contro oggetti, sparare per immobilizzare, sparare per uccidere. In base a queste regole – secondo quanto ha riferito quel capitano – è legale, per gli ufficiali della Guardia Costiera greca al servizio di Frontex, usare le armi per immobilizzare una barca che ha violato lo spazio territoriale: ogni volta che un battello viene fermato, occorre mettersi in contatto diretto con il comando di zona, ma la decisione finale spetta al capo dell’unità militare sul posto.

In questo contesto, la decisione di sparare contro le barche dei profughi pare sia stata presa abbastanza spesso. Almeno dai primi mesi del 2014 alla fine del 2015. È quanto emergerebbe in un documento della stessa agenzia Frontex, di cui The Intercept dice di essere venuto a conoscenza. E una ulteriore, importante conferma verrebbe da Giorgios Pagoudis, un cronista greco che, riferisce il giornale inglese, oltre ad aver scritto sull’incidente di Chios e su altri simili, “sostiene che questo tipo di sparatorie magari non accadono ogni settimana, ma non sono infrequenti”. “Normalmente – avrebbe riferito Pagoudis ai colleghi britannici – sparano per mettere fuori uso il motore, ma vicino al motore ci sono molti rifugiati”.

L’autorizzazione a sparare è ancora in vigore, anche se, da quando l’Egeo è stato blindato con il patto firmato nel marzo scorso tra l’Unione Europea e la Turchia, l’enorme flusso di battelli carichi di profughi dalle spiagge dell’Anatolia alle isole greche si è ridotto fortemente. Nella sua risposta a Barbara Spinelli e agli altri 40 europarlamentari che hanno sollevato il caso, lo ha confermato lo stesso Fabrice Leggeri, specificando anche lui che si agisce in base alle regole d’ingaggio della Marina e della polizia greche. Scendendo più nei dettagli, inoltre, il direttore esecutivo di Frontex ha detto che nel 50 per cento degli incidenti segnalati si è sparato in aria, a scopo intimidatorio, senza mettere in pericolo la vita di nessuno mentre, negli altri casi, si è fatto uso delle armi come reazione ai tentativi di speronamento da parte dei battelli dei trafficanti, che avrebbero messo a rischio anche la vita dei profughi a bordo.

Leggeri, dunque, non aggiunge molto a quanto ha dichiarato il capitano della Marina intervistato da The Intercept. Semmai tende a sminuire. Mancano ancora, però, risposte essenziali. I tre feriti di Chios e i 16 proiettili trovati conficcati nel fasciame della barca su cui viaggiavano, sono la prova evidente che si è sparato direttamente contro il battello: magari mirando al motore per bloccarlo, ma comunque contro il battello. Per di più sembrerebbe che quello di Chios non sia un caso isolato, almeno a giudicare dalle dichiarazioni del cronista che, seguendo da anni questi episodi, ha tenuto a specificare che si sparerà magari contro il motore, “ma vicino al motore ci sono i rifugiati”. E le pallottole non fanno molta distinzione.

Ecco il punto. La cosa grave, come denunciano i 41 europarlamentari, è il fatto in sé che “tra le regole d’ingaggio per fermare le imbarcazioni in mare sia previsto l’uso delle armi”. Quanto è accaduto evidenzia, infatti, che in questo modo non si tutelano i migranti, ma si rischia invece di metterne a rischio la vita stessa. Tutto il contrario di quanto sostiene Frontex. A meno che il vero obiettivo non sia quello di blindare ad ogni costo l’Egeo e il Mediterraneo, alzando l’ennesima barriera, stavolta in mezzo al mare. E’ un dubbio che esige una risposta. Specie alla luce dell’istituzione della nuova Guardia Costiera e di Frontiera Europea, il primo embrione di una forza armata Ue multinazionale che ha appena cominciato ad operare tra la Bulgaria e la Turchia. Il commissario all’immigrazione Dimitris Avramopoulos ha specificato che avrà il compito primario di “controllare i confini”. Ma controllare i confini come? A colpi di fucile e a raffiche di mitra? Fanno così la polizia turca alla frontiera con la Siria o quella eritrea alla frontiera sudanese. E i “diavoli a cavallo”, la milizia del dittatore Al Bashir, in Sudan.

Tratto da Diritti e Frontiere

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