I guardacoste libici nuovi gendarmi della Fortezza Europa

Giornalista, già responsabile delle edizioni regionali e vice capo redattore della cronaca di Roma de Il Messaggero, ha approfondito i problemi dell’immigrazione.
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31 ottobre 2016

Un abbordaggio al gommone stracarico di profughi. Che è affondato, trascinando in mare quasi 150 tra uomini, donne e bambini. Quattro sono morti e di almeno 15, ma forse addirittura di quasi 25, si è persa ogni traccia: desaparecidos, vittime che non lasciano a familiari ed amici neanche un corpo su cui pregare. L’assalto, accusa l’equipaggio della Sea Watch 2, una delle unità della Ong tedesca Jugend Rettet impegnata nelle operazioni di soccorso nel Mediterraneo, è stato condotto, al largo di Sabratha, da una motovedetta della Guardia Costiera libica, con a bordo numerosi uomini armati ed estremamente determinati. Quella Guardia Costiera che è stata scelta come partner dall’Unione Europea per controllare le rotte dei migranti nel Mediterraneo centrale e alla quale, in questo contesto, è dedicato in maniera specifica il piano di addestramento scattato proprio in questi giorni, nell’ambito del programma Sophia di Enunavfor Med.

La sequenza dei fatti ricostruita dall’equipaggio della Sea Watch 2 è drammatica. Era ancora buio, la notte del 21 ottobre scorso. A bordo della nave si stavano già preparando alle operazioni di salvataggio, avvicinando il gommone in difficoltà, con i giubbotti salvagente pronti, per distribuirli al momento del trasbordo. Secondo gli strumenti in plancia, erano a 14 miglia dalla costa africana, in acque internazionali, due miglia buone fuori da quelle di Tripoli. Nessun appiglio per un’eventuale azione delle forze di sicurezza libiche, dunque. Ma la motovedetta è intervenuta ugualmente: è arrivata in velocità, bloccando ogni soccorso e puntando decisamente verso il battello dei profughi, presumibilmente con l’intenzione di costringerlo a invertire la rotta. Non si è limitata, come altre volte, a girare intorno, con cerchi sempre più stretti, per tagliare ogni possibilità di fuga: ha accostato il gommone e almeno un uomo vi è saltato dentro, prendendo il comando del motore. Lui stesso e forse altri marinai avrebbero ripetutamente colpito i profughi con mazze e bastoni. Nel mucchio. A bordo si è scatenato il panico. In più, nell’urto dell’abbordaggio, il tubolare stagno ha ceduto e il gommone ha cominciato rapidamente ad afflosciarsi e ad affondare. Tutti i profughi sono finiti in mare. L’equipaggio della Sea Watch 2 è riuscito a trarne in salvo 120, portandoli a bordo. Poco dopo ha recuperato 4 corpi senza vita. Gli altri naufraghi sono spariti nel buio. E nel buio è sparita anche la motovedetta, a quanto pare senza fermarsi a prestare aiuto.

Il brigadiere generale Ayoub Qasim, portavoce della Marina di Tripoli, ha respinto le accuse dell’attacco al gommone, insistendo che nessuna motovedetta libica ha sparato contro i migranti o comunque fatto uso di armi da fuoco (ma la Ong tedesca non ha mai detto questo) e che comunque anche il comando di Eunavfor Med non aveva ricevuto notizie dell’incidente. L’equipaggio della Sea Watch 2, però, ha ribadito la sua versione, mettendo a disposizione anche una serie di foto delle fasi più drammatiche del naufragio: immagini nelle quali, tra l’altro si vedono chiaramente militari in divisa da combattimento. E, partendo proprio dalla conferma delle accuse, la Jugend Rettet ha sollecitato l’Unione Europea a un “ripensamento” sull’accordo rivolto a fare della Guardia Costiera libica una delle principali forze di controllo e blocco dei flussi migratori nel Canale di Sicilia.

Questa richiesta ha destato grande scalpore in Libia: ne hanno parlato con evidenza, in particolare, alcuni dei principali media (come il Libya Herald, il Libya Observer o il Libyan Express), ponendo in risalto i possibili contraccolpi. Molta meno eco ha avuto in Italia, sia sulla stampa che, ancora di più, nella politica. E meno di cinque giorni dopo quel naufragio quanto meno oscuro, con una ventina di vittime come minimo, il programma, affidato all’Italia, è regolarmente iniziato, senza “clamori”: mercoledì 26 ottobre un primo gruppo di un centinaio tra ufficiali e marinai libici è partito da Misurata sulla nave San Giorgio, della nostra Marina Militare, per iniziare un corso di almeno quattro mesi, con l’assistenza della Guardia Costiera italiana, per l’addestramento a operazioni di intercettazione e recupero in mare delle imbarcazioni “illegali”.

Nessuno sembra essersi ricordato che quanto è accaduto la notte del 21 ottobre di fronte a Sabratha non è un episodio isolato. Non si è quasi mai riusciti a stabilire, di volta in volta, se a bordo ci fossero marinai o miliziani di qualcuna delle fazioni armate in lotta nel paese, ma gli esempi dell’estrema determinazione con cui agiscono le motovedette libiche sono molteplici. E’ stata presa di mira anche la Bourbon Argos, una delle navi di Medici Senza Frontiere impegnate nel soccorso ai profughi, assalita a colpi di mitraglia, il 17 agosto scorso, da un motoscafo che si è avvicinato velocemente, sventagliando alcune raffiche contro il ponte di comando. Subito dopo, alcuni uomini si sono arrampicati a bordo: hanno ispezionato rapidamente la nave e poi sono ritornati sul loro battello, che si è allontanato. Profughi tratti in salvo ancora non ce n’erano. E l’equipaggio è rimasto illeso: ai primi spari si era riparato in un rifugio allestito proprio per le evenienze più pericolose. Non si è mai saputo da chi sia stato ordinato l’arrembaggio. “Dalla ricostruzione dei fatti – ha però rilevato Stefano Argenziano, coordinatore delle operazioni in mare di Msf, riteniamo che fossero professionisti e ben addestrati”. Proprio come, si potrebbe aggiungere, nel caso denunciato dalla Sea Watch 2.

L’uso facile delle armi direttamente contro le imbarcazioni, anche se stracariche di migranti, è stato testimoniato almeno in un’altra, drammatica circostanza. In questo caso con un bilancio di morte terribile: il naufragio, avvenuto l’11 ottobre 2013, a poco più di cento chilometri da Lampedusa e a circa 200 da Malta, di un barcone carico di profughi siriani. Ci furono ben 260 vittime, perché ci vollero più di tre ore per organizzare i soccorsi, mentre il battello, un vecchio peschereccio, stava lentamente affondando. Sulle responsabilità di questo assurdo ritardo, è stata aperta di recente un’inchiesta da parte della Procura di Roma. In base alle testimonianze di alcuni dei superstiti, però, venne subito fuori che il barcone sarebbe colato a picco a causa dei danni provocati al fasciame in legno dalle raffiche sparate da una motovedetta libica che l’aveva intercettato, intimando l’alt, probabilmente nel corso di una delle missioni di pattugliamento, stabilite d’intesa con l’Italia, per fermare il flusso dei migranti dall’Africa. Anzi, fu avanzato il sospetto che la motovedetta fosse una di quelle fornite da Roma a Tripoli.

Si potrebbe obiettare che l’addestramento concordato con l’Unione Europea magari servirà proprio a limitare questa “aggressività”. Può darsi. Ma questa aggressività non sembra un fatto “tecnico”. Dipende piuttosto, in primo luogo, dalle “regole d’ingaggio” e dalle disposizioni impartite agli equipaggi e, più in generale, alle forze di polizia incaricate dei controlli, in mare o a terra. E, allora, è soprattutto una questione del Governo di Tripoli. C’è da credere che Tripoli difficilmente accetterà interferenze nelle sue scelte. Sempre che, del resto, l’Unione Europea e l’Italia vogliano “interferire”. Finora, infatti, tutta la politica Ue sull’immigrazione ha puntato essenzialmente a blindare come una fortezza le frontiere, sia quelle naturali sia quelle “esternalizzate” sulla sponda sud del Mediterraneo o addirittura al di là del Sahara, attraverso una serie di intese strette con vari Stati africani: i Processi di Rabat e Khartoum, ad esempio, o gli accordi di Malta, ma anche, appunto, il patto con la Libia che comprende il “training” per la Guardia Costiera. Ed è una blindatura che non tiene minimamente conto della sorte a cui espone i profughi. Basti ricordare gli accordi raggiunti con il Sudan e con l’Eritrea, accompagnati, in base al Processo di Khartoum, da milioni di euro di finanziamenti che, giustificati con l’obiettivo di “migliorare la sicurezza” dei confini, sarebbero andati di fatto alle forze di polizia dei due paesi. Non risulta che Bruxelles, Roma e le altre cancellerie europee si siano preoccupate finora di controllare come vengano attuate queste intese. Ma in Sudan il dittatore Al Bashir ha affidato il “problema migranti” ai “diavoli a cavallo”, la famigerata milizia che ha commesso ogni genere di violenze nel Darfur e che sta riempiendo le carceri di profughi, migliaia di giovani, soprattutto eritrei, che rischiano ora di essere riconsegnati alla dittatura da cui sono fuggiti. E in Eritrea la polizia di Isaias Afewerki ha l’ordine di sparare a vista, mirando a uccidere, contro chiunque tenti di passare il confine. Mentre già adesso in Libia i migranti bloccati in mare o prima dell’imbarco, vengono arrestati e rinchiusi in centri di detenzione simili, spesso, ad autentici lager, come hanno documentato numerose inchieste giornalistiche e i dossier di organizzazioni come Amnesty International o Human Rights Watch.

Allora, forse, non va sottovalutato l’ammonimento lanciato dall’equipaggio della Sea Watch 2 dopo la tragedia della notte del 21 ottobre: ha senso questo ulteriore patto con la Libia per la Guardia Costiera? E, soprattutto, risponde ai valori di rispetto dei diritti umani che dovrebbero essere alla base dell’idea stessa di Europa?

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