La Corte Europea dei Diritti dell’Uomo e la prescrizione degli abusi edilizi

(Roma 1942) ha lavorato presso il Ministero della sanità come funzionario e poi alla Regione Lazio in qualità di responsabile della programmazione sanitaria.
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07 novembre 2016

È stata pubblicata il 27 ottobre 2016 la sentenza n. 45428/2016 della Sezione III Penale della Corte di Cassazione con la quale è stato esaminato il ricorso avverso l’Ordinanza del GIP del Tribunale di Bari con la quale a seguito dell’archiviazione di un procedimento penale a carico di tal *** per estinzione del reato di abuso edilizio per prescrizione, era stato disposto il dissequestro ai fini della riduzione in pristino e quindi la contestuale demolizione e confisca dei beni. L’interessato aveva presentato ricorso lamentando, per un verso, l’esercizio da parte del giudice di una potestà riservata dalla legge ad organi amministrativi (art. 606 c.p.p.) e, per altro verso, la pretermissione del principio della presunzione d’innocenza oggetto di alcune sentenze della Corte Europea dei Diritti dell’Uomo (Corte EDU). In particolare il collegio ha ritenuto che in “…mancanza di qualunque motivazione che consenta di capire se il provvedimento ablatorio sia stato disposto legittimamente oppure no - ossia in conformità ai canoni, già espressi dal diritto vivente sul tema della confiscabilità dei terreni abusivamente lottizzati e delle opere abusivamente costruite, anche quando non si pervenga alla condanna o alla irrogazione della pena – l’ordinanza dovrebbe essere annullata. Nella specie, a maggior ragione, in presenza di un’archiviazione per prescrizione, il GIP non avrebbe potuto disporre né la confisca, non essendo un compito a lui spettante, né tantomeno la demolizione, stante la coeva declaratoria di prescrizione”.

Si tratta di una sentenza che ribalta completamente la giurisprudenza della Corte Suprema di Cassazione e che potrebbe rappresentare un vero e proprio cambio di rotta che rischia di ripercuotersi a cascata su tutti i procedimenti pendenti e addirittura di offrire la possibilità di riaprirne altri già chiusi. In buona sostanza, secondo la richiamata sentenza l’ordine di demolizione dovrebbe essere considerato una pena accessoria e quindi essere assoggettato ai termini di prescrizione fissati per le sanzioni penali (pertanto dopo cinque anni non potrebbe essere eseguito). Una miriade di abusi in attesa di demolizione da parte dei Comuni rischia di essere salvata. D’altra parte molti cittadini che hanno agito in stato di necessità non è giusto che debbano trovarsi per anni sotto la spada di Damocle della demolizione nell’incertezza del loro futuro.

L’assunto “assorbimento” delle sanzioni amministrative inflitte a quelle previste dal diritto penale sarebbe giustificato dagli autori di questa tesi dalla loro natura repressiva e mirerebbe ad evitare quelle che ad avviso di alcuni appaiono sanzioni anche più gravi di quelle applicate dal giudice penale, come appunto è la demolizione con la conseguente acquisizione del suolo al patrimonio comunale.

Per comprendere meglio la questione occorre fare un passo indietro.

L’abuso edilizio è un illecito penale che consiste nella realizzazione di un intervento edilizio senza permesso di costruire o senza Segnalazione Certificata di Inizio Attività (SCIA); si tratta di un fenomeno pressoché sconosciuto negli altri Paesi europei. L’art. 44 del DPR 380/2001, T.U. delle disposizioni legislative e regolamentari in materia di edilizia prevede quattro ipotesi di reato di natura contravvenzionale (punite quindi con l’ammenda e/o con l’arresto):

1. inosservanza delle norme, prescrizioni e modalità esecutive previste dal testo unico, nonché dai regolamenti edilizi, dagli strumenti urbanistici e dal permesso di costruire;

2. esecuzione dei lavori in totale difformità o assenza del permesso o di prosecuzione degli stessi nonostante l’ordine di sospensione;

3.lottizzazione abusiva di terreni a scopo edilizio;

4.interventi edilizi nelle zone sottoposte a vincolo storico, artistico, archeologico, paesistico, ambientale, in variazione essenziale, in totale difformità o in assenza del permesso.

Pertanto ogni qualvolta una costruzione venga edificata senza permesso a costruire, dà luogo sia all’illecito amministrativo sia al relativo reato, che può essere posto in essere dal titolare del permesso di costruire, dal committente o dal costruttore.

Può capitare che tale reato urbanistico, proprio perché si tratta di reato contravvenzionale, si prescriva quando ancora il processo è in corso, essendo soggetto a termini di prescrizione brevi (quattro anni o cinque anni se inizia un procedimento penale).

In base ad una giurisprudenza, fin ad ora costante, l’esercizio dei poteri amministrativi repressivi in materia di abusi edilizi non incontra invece alcun termine di prescrizione o di decadenza; pertanto il giudice penale anche quando sia intervenuta la prescrizione del reato, se accerta l’esistenza dell’opera abusiva, deve dichiarare estinto il reato, ma può comunque disporre la demolizione o la confisca dell’immobile abusivo, ritenendo sempre legittima l’adozione del relativo provvedimento sanzionatorio. Infatti l’interpretazione della Corte di Cassazione italiana sull’istituto della confisca urbanistica (disciplinato all’art. 44, 2 del DPR. n. 380/2001) è rimasta (almeno fino ad ora) legata alla nozione di sanzione amministrativa, nonché alla possibilità di una sua applicazione anche in presenza di sentenza di proscioglimento per estinzione del reato, purché quest’ultimo sia stato in concreto accertato.

Di diverso parere è la giurisprudenza della Corte EDU che ha contestato l’inquadramento della confisca urbanistica nel novero delle misure di sicurezza, considerandola piuttosto una vera e propria sanzione penale. Conseguentemente ha giudicato incompatibile con l’art. 7 (nulla poena sine lege) della Convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo (CEDU) la mancata applicazione nell’ordinamento italiano delle garanzie derivanti dai principi di legalità e di irretroattività delle pene anche alla confisca in parola.

Così la Corte EDU con la pronuncia del 29 ottobre 2013 n. 17475/09 (Varvara vs. Italia) ha riconosciuto il carattere afflittivo della sanzione in parola, a prescindere dall’eventuale nomen iuris o dalle interpretazioni elaborate dai giudici nazionali, e ne ha determinato la soggezione al principio di cui all’art. 7 CEDU.

In particolare, attesa l’asserita natura penale della sanzione, la Corte EDU ha escluso che possa essere irrogata la confisca di cui all’art. 44 D.P.R. 380/2001 nel caso di sentenza di non doversi procedere per prescrizione, giacché la sanzione penale può essere giustificata solo nel caso di un giudizio di colpevolezza discendente da una valutazione, incompatibile con una pronuncia “assolutoria”, sia pur per estinzione del reato.

A seguito di tale decisione, con una ordinanza di rimessione del 30 aprile 2014 alla Corte Costituzionale, la Terza Sezione penale della Suprema Corte di Cassazione ha ritenuto rilevante e non manifestamente infondata la questione di legittimità costituzionale dell’art. 44, comma 2, del D.P.R. n. 3802/2001, come interpretato dalla Corte EDU nella citata sentenza Varvara c. Italia, nel senso che la confisca ivi prevista non potesse applicarsi nel caso di declaratoria di prescrizione del reato urbanistico, anche qualora la responsabilità penale sia stata incidentalmente accertata in tutti i suoi elementi, il che si sarebbe posto in contrasto, secondo il giudice a quo, con gli artt. 2, 9, 32, 41, 42 e 117 Cost. Nella predetta ordinanza la Suprema Corte ha osservato come, con la sentenza Varvara, la Corte EDU avesse dato esclusiva preminenza al diritto di proprietà privata, a scapito di numerosi altri interessi costituzionalmente garantiti.

La Corte Costituzionale, con sentenza n. 49 in data 14 gennaio 2015, avendo riunito oltre al citato giudizio di legittimità promosso dalla Corte di Cassazione Sez. III Penale, anche uno promosso dal tribunale di Teramo, ha dichiarato inammissibili le questioni di legittimità costituzionale del DPR n.380/2001, art. 44, comma 2, sollevate. In particolare la Corte Costituzionale ha tenuto a confermare che il carattere della CEDU impone un raffronto tra le regole da essa ricavate e la Costituzione, e che l’eventuale dubbio di costituzionalità da ciò derivato deve venire prospettato con riferimento alla legge nazionale di adattamento (sentenze n. 348 e n. 349 del 2007 secondo cui le norme della CEDU, pur rivestendo grande rilevanza, sono pur sempre norme internazionali pattizie, che vincolano lo Stato, ma non producono effetti diretti nell’ordinamento interno, tali da affermare la competenza dei giudici nazionali a darvi applicazione nelle controversie ad essi sottoposte, non applicando nello stesso tempo le norme interne in eventuale contrasto).

Nelle motivazioni della sentenza la Corte Costituzionale ha ritenuto che l’interpretazione dell’art. 44, comma 2, del DPR n. 380/2001 data dalla Corte di Strasburgo è errata in quanto presupporrebbe che competa alla Corte EDU determinare il significato della legge nazionale, affermando che il dovere del giudice comune di interpretare il diritto interno in senso conforme alla CEDU è, ovviamente, subordinato al prioritario compito di adottare una lettura conforme alla Costituzione, nel rispetto del predominio di quest’ultima sulla CEDU.

La Corte Costituzionale, nella sentenza citata ha così concluso che “nell’ordinamento giuridico italiano la sentenza che accerta la prescrizione di un reato non denuncia alcuna incompatibilità logica o giuridica con un pieno accertamento di responsabilità, dichiarando inammissibile la questione di legittimità costituzionale dell’art. 44 del DPR 380/2001”.

All’epoca la pronuncia è stata oggetto di numerosi interventi da parte di giuristi che in gran parte hanno evidenziato come la Corte Costituzionale abbia voluto sottolineare la superficialità dei giudici di primo grado che hanno scelto di rimettere la decisione senza assumersi responsabilità, per cui la Corte ha risposto giudicando in maniera anche dura l’inammissibilità delle questioni poste.

Dopo la decisione della Consulta è proseguito l’orientamento giurisprudenziale tradizionale per cui con la sentenza n. 36387 del 7 luglio 2015 è stato confermato dalla Sezione III Penale della Suprema Corte di Cassazione che “l’ordine di demolizione del manufatto abusivo non è soggetto né alla prescrizione stabilita dall'art. 173 cod. penale per le sanzioni penali, in quanto sanzione amministrativa, né alla prescrizione stabilita dall'art. 28 legge n. 689 del 1981 riguardante, infatti, unicamente le sanzioni pecuniarie con finalità punitiva…”.

Successivamente la Sezione III Penale della medesima Corte con la sentenza n. 49331 del 10 novembre 2015 ha affermato il seguente principio di diritto: “…la demolizione del manufatto abusivo, anche se disposta dal giudice penale ai sensi dell'art. 31, comma 9, qualora non sia stata altrimenti eseguita, ha natura di sanzione amministrativa che assolve ad un’autonoma funzione ripristinatoria del bene giuridico leso, configura un obbligo di fare, imposto per ragioni di tutela del territorio, non ha finalità punitive ed ha carattere reale, producendo effetti sul soggetto che è in rapporto con il bene, indipendentemente dall'essere stato o meno quest’ultimo l’autore dell’abuso. Per tali sue caratteristiche la demolizione non può ritenersi una «pena» nel senso individuato dalla giurisprudenza della Corte EDU e non è soggetta alla prescrizione stabilita dall'art. 173 cod. pen.”.

Ancora la III Sezione Penale della Cassazione con sentenza n. 9949 del 20 gennaio 2016 ha confermato il principio già stabilito con la precedente sentenza n. 49331/2015.

Nuovamente la III Sezione Penale della Cassazione è tornata sull’argomento con la sentenza n. 17204 del 6 aprile 2016 riconfermando il principio già ricordato.

A questo punto è stata pubblicata il 27 ottobre 2016 la Sentenza n. 45428 di cui ho parlato all’inizio, che sembra ignorare la citata sentenza della Corte Costituzionale; ma stranamente lo stesso giorno sempre la III Sezione Penale della Cassazione (nella stessa composizione di quella precedente) con una nuova sentenza n. 45433 ha stabilito che:“…l’esecuzione dell’ordine di demolizione, impartito dal giudice a seguito dell’accertata edificazione in violazione di norme urbanistiche, non è escluso dall’alienazione del manufatto abusivo a terzi, anche se intervenuta anteriormente all’ordine medesimo perché l’ordine di demolizione, avendo carattere reale, ricade direttamente sul soggetto che è in rapporto con il bene a prescindere dagli atti traslativi intercorsi, con la sola conseguenza che l’avente causa, se estraneo all’abuso, potrà rivalersi nei confronti del dante causa, o dei suoi eredi, a seguito dell’avvenuta demolizione”.

Una sentenza che sembra riaprire il dibattito dottrinario.

In ogni caso le Sentenze 348 e 349 del 2007 e la Sentenza n. 49/2015 della Corte Costituzionale a mio avviso rappresentano un punto fermo che dovrebbero sostenere anche per l’avvenire le decisioni dei giudici su questa delicata materia riprendendo quella che era e deve essere una giurisprudenza costante, a meno di sollecitare una nuova pronuncia della Corte Costituzionale.

Comunque è evidente che occorre al più presto affrontare i seguenti problemi:

  • Il potere esecutivo dovrà affrontare al più presto il problema di fondo che è rappresentato dalla eccessiva durata dei processi; qualcosa è stato fatto per stanare e colpire i giudici “fannulloni” ma occorre molto di più;
  • Il Parlamento deve provvedere a modificare la normativa sulla prescrizione che, così come è strutturata adesso è assolutamente inadeguata. È all’esame dell’Aula del Senato il disegno di legge 1844 d’iniziativa dei deputati Ferranti, Verini, Mattiello ed altri che dovrebbe risolvere alla radice il problema, ma che incontra resistenze per completare il proprio iter;
  • I Comuni devono accelerare le procedure per l’abbattimento degli abusi edilizi che, vuoi per ricorsi, vuoi per mancanza di fondi, vuoi con altre scuse, troppo spesso si fanno attendere troppo, creando con il decorso del tempo, ingiustificate aspettative negli interessati, talora anche valutate positivamente nel corso dei giudizi.

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