Yemen: una strage “dimenticata”, ma buona per fare affari con le armi

Giornalista, già responsabile delle edizioni regionali e vice capo redattore della cronaca di Roma de Il Messaggero, ha approfondito i problemi dell’immigrazione.
Condividi
13 novembre 2016

La notizia non ha “bucato lo schermo”. Se ne parla poco, insomma. Ma pesanti rapporti di organizzazioni umanitarie e alcuni (pochi, in verità) reportage giornalistici denunciano nello Yemen una escalation di probabili, ripetuti, gravi crimini di guerra e contro l’umanità. Crimini che – secondo quanto riferisce il quotidiano francese Le Monde – avrebbero cominciato a mettere in guardia gli Stati Uniti, per il timore di essere chiamati a rispondere di una possibile corresponsabilità indiretta o quanto meno morale, per la fornitura di armi, munizioni, logistica e intelligence all’Arabia Saudita, una delle parti in lotta: un “affare” da miliardi di dollari. Ma lo stesso timore, sia pure in maniera più sfumata, potrebbe riguardare anche l’Italia.

E’ l’aspetto forse più drammatico della tragedia dello Yemen, sconvolto da oltre due anni da un conflitto devastante che, iniziato con una serie di violenti scontri tra le forze governative e le tribù sciite degli Houti, è esploso nel 2014 e da allora ha segnato di mese in mese, di anno in anno, una escalation costante di morte e distruzione. Si fronteggiano, in una partita che riguarda gli equilibri geopolitici di tutta la regione, in parallelo con la guerra in Siria e in Iraq, sciiti e sunniti. Da una parte, con il sostegno dell’Iran, il governo e l’esercito rivoluzionari houti, che alla vigilia dell’estate di due anni fa hanno preso il controllo di Sana’a, costringendo il presidente Abd Rabbuh Mansour Hadi a rifugiarsi ad Aden, la grande città portuale del sud. Al loro fianco, anche l’ex presidente Ali Abdallah Saleh, destituito, dopo 33 anni di potere, dal “terremoto” provocato dalle “primavere arabe” nel 2011 e sostituito, appunto, da Mansour Hadi, il suo ex vicepresidente. Sull’altro fronte, con base ad Aden, le forze politiche e militari rimaste fedeli a Mansour Hadi, che dal marzo del 2015 possono contare sull’aiuto determinante di una grande coalizione di Stati sunniti guidata dall’Arabia Saudita ma con ruoli di primo piano anche dell’Egitto, del Qatar e degli Emirati e con il supporto logistico e tecnico degli Stati Uniti. Un aiuto che, oltre ad assicurare contingenti di militari “a terra” e cospicui forniture di armi, si concretizza in continui, pesanti bombardamenti aerei, condotti, partendo dagli aeroporti situati a sud di Riyad ma anche da due grandi basi militari offerte dall’Eritrea sul Mar Rosso, a pochi minuti di volo dallo Yemen.

Al fuoco e alle bombe dei due eserciti, si aggiungono gli attacchi e gli attentati terroristici sia di Al Qaeda Penisola Arabica (Aqpa), una delle branche più forti e combattive del gruppo jihadista creato da Osama Bin Laden, sia dell’Isis, nato da alcune formazioni fondamentaliste che si sono allontanate nel 2014 da Al Qaeda ed hanno proclamato fedeltà e sottomissione al Califfato di Al Baghdadi. Nemici o quanto meno ostili tra di loro, hanno però come bersaglio comune gli sciiti houti. Il più determinato è l’Isis, che “si è presentato” con gli attentati messi a segno il 20 marzo 2015, un venerdì, giorno di preghiera, contro due moschee, a Sana’a e a Sa’dah, che hanno provocato 152 vittime.

Le conseguenze sulla popolazione sono pesantissime. Secondo le stime delle Nazioni Unite, a fine settembre 2016 si è superata la soglia dei 10 mila morti. Oltre 3 milioni gli sfollati e i profughi, in massima parte intrappolati all’interno del paese perché sono spesso così privi di tutto da non avere neanche i mezzi per cercare di rifugiarsi oltreconfine. Non solo: si calcola che su 24 milioni di abitanti, quasi la metà, più di 10 milioni, non sia ormai in grado di soddisfare i bisogni primari, incluso procurarsi il cibo ma spesso persino l’acqua. E i danni al patrimonio culturale sono immensi, a cominciare dai magnifici centri storici di Sana’a, Zabid, Shibam e delle altre antiche città, considerate patrimonio dell’umanità dall’Unesco e il cui fascino ha conquistato artisti e uomini di cultura in tutto il mondo: basti ricordare come le ha “cantate” Pier Paolo Pasolini.

Le distruzioni provocate dai combattimenti, dai raid aerei e dagli attentati hanno messo definitivamente in ginocchio un paese che già prima del conflitto era il più povero del Medio Oriente e uno dei più poveri del pianeta. Ma non basta, ci sarebbe anche tutta una tragica catena di crimini di guerra o contro l’umanità, evidenziati da bombardamenti e attacchi indiscriminati anche contro obiettivi civili: scuole, campi profughi, ospedali (compresi, in più occasioni, quelli gestiti da Medici Senza Frontiere) e persino innocui assembramenti di persone riunite per cerimonie, matrimoni, funerali. Sotto accusa per queste azioni è soprattutto l’Arabia. Un rapporto di Human Rights Watch pubblicato nel settembre 2015 parla dell’uso diffuso di cluster bombs, messe al bando dalla comunità internazionale. E un successivo rapporto, sempre di Human Rights Watch (fine ottobre 2015), ha elencato oltre 30 pesanti attacchi aerei, condotti dalla coalizione sunnita, che sarebbero configurabili, appunto, come “criminali”. Casi analoghi, sia pure in misura minore, sono attribuiti anche alle milizie houti, per azioni di guerra che hanno messo a grave rischio la popolazione inerme.

Quei rapporti non hanno avuto l’attenzione che era lecito aspettarsi da parte della comunità internazionale. Anzi, se non sono stati “silenziati”, poco ci è mancato. E nel 2016 la situazione è peggiorata. Il 9 gennaio, ad esempio, un missile ha centrato in pieno un ospedale di Medici Senza Frontiere a Razeh Rajeh, nel nord del paese, provocando tre morti e 10 feriti. Il 16 marzo, almeno 41 civili sono stati massacrati da un raid aereo contro un mercato, nella provincia di Haajja. A fine marzo un rapporto dell’Oxfam ha evidenziato che la distruzione di acquedotti, strutture produttive, servizi essenziali, accompagnata da bombardamenti pressoché sistematici anche contro i mercati, ha ridotto milioni di persone alla fame, creando una delle più gravi emergenze umanitarie del pianeta. Il 14 agosto è stata colpita una scuola ad Aydan, nella provincia di Saada controllata dagli Houti: 10 studenti sono rimasti uccisi e 28 feriti. La coalizione araba si è giustificata asserendo che si sarebbe trattato di un centro di reclutamento di bambini-soldato, ma il portavoce di Medici Senza Frontiere ha dichiarato che era solo un istituto di studi islamici frequentato, durante le vacanze, da bambini di età compresa tra i 6 e i 15 anni. Due giorni dopo, il 16 agosto, di nuovo nel mirino Medici Senza Frontiere: un raid aereo della coalizione a guida saudita ha distrutto l’ospedale di Abs, nella provincia di Haajja, con il tragico bilancio di 19 morti e 24 feriti, tra personale sanitario e pazienti. Un attacco indiscriminato che ai più non è apparso casuale: certamente non è apparso tale ai vertici di Msf, che infatti hanno deciso di ritirare i proprio staff dal nord dello Yemen, evacuando gli ospedali aperti nei governatorati di Saada e Haajja.

E’ attraverso questa autentica escalation del terrore che si è arrivati, infine, l’otto di ottobre, a una vera e propria mattanza di uomini e donne inermi: il bombardamento “a freddo” di una grande sala, nel cuore di Sana’a, la capitale, dove erano riunite più di duemila persone per partecipare ai funerali del padre del ministro dell’interno del governo Houti ribelle. Dalle macerie sono stati estratti 155 morti e 527 feriti. E la strage si è ripetuta tre settimane dopo, il 30 ottobre, quando un attacco aereo ha distrutto il carcere di Hodeida, uccidendo 43 persone, tra guardie e detenuti.

I vertici della coalizione sunnita hanno parlato sempre di “tragici errori”. E gli alleati occidentali non sembrano aver mai messo in discussione più di tanto questa “giustificazione”. Dopo il massacro di Sanaa’a – ha scritto Le Monde citando una documentazione consultata dall’agenzia Reuters e testimonianze di personaggi vicini al Dipartimento di Stato – gli Usa hanno cominciato però a porsi il problema di un loro eventuale coinvolgimento, dal punto di vista legale, nelle responsabilità per le azioni condotte dalla campagna aerea saudita, tanto da incaricare alcuni giuristi di studiare la situazione. “Se si dovesse stabilire che gli Stati Uniti sono da considerarsi cobelligeranti in base al diritto internazionale – si legge su Le Monde – Washington dovrebbe interrogarsi sulle accuse di crimini di guerra che gravano sull’Arabia Saudita. I responsabili militari potrebbero, teoricamente, correre il rischio di procedimenti giudiziari”. I precedenti non mancano. I documenti consultati dalla Reuters citano la condanna pronunciata da una Corte speciale, istituita dopo la guerra in Sierra Leone, contro Charles Taylor, il presidente della Liberia. La sentenza di questa Corte, sostenuta dall’Onu, precisa che “l’aiuto pratico, l’incoraggiamento e il sostegno morale” sono sufficienti per essere considerati responsabili di un crimine di guerra. E che, per di più, il procuratore non ha bisogno di provare la “complicità” in un fatto criminoso specifico.

Washington in realtà – emerge sempre dai documenti consultati dalla Reuters e citati da Le Monde – fin dall’agosto 2015 ha tentato di convincere i Sauditi ad evitare di colpire vittime e obiettivi civili, inviando un “esperto di strategia” in Arabia e consegnando una serie di liste dettagliate di obiettivi da risparmiare. “Una di queste liste, comunicata nell’autunno 2015, include le centrali elettriche e le infrastrutture essenziali per la distribuzione di aiuti umanitari”. Solo che, a quanto pare, gli americani avrebbero saputo in partenza o comunque scoperto in breve tempo che i sauditi non hanno le “capacità tecniche” per una selezione di questo genere. Uno specialista in protezione civile del Dipartimento di Stato, ad esempio, in una riunione tenuta nell’ottobre 2015 ha affermato – scrive sempre Le Monde – che gli attacchi sauditi non sarebbero “volontariamente indiscriminati” ma che la mancata distinzione tra obiettivi militari e civili sarebbe dovuta a “scarsa esperienza sullo sganciamento delle bombe e il lancio dei missili”. Errori, dunque. Come ha detto a più riprese anche l’Arabia a proposito della distruzione di scuole e ospedali. Errori prevedibili, però. E, prima ancora del bombardamento dell’otto ottobre, un portavoce del Consiglio per la sicurezza nazionale Usa ha ribadito che “la cooperazione degli Stati Uniti con l’Arabia Saudita non è un assegno in bianco”, ricordando che Washington ha espresso più volte “profonda preoccupazione” per le vittime civili dei raid aerei. Forse nasce proprio da qui l’opposizione espressa da 60 deputati del Congresso a una nuova vendita di armi all’Arabia. Solo che il 21 settembre – come ricorda Le Monde – al Senato “è fallito un tentativo di bloccare la vendita”.

Preoccupazioni analoghe a quelle che si starebbero affacciando negli Stati Uniti farebbe bene, forse, a nutrirle anche l’Italia, che fornisce all’Arabia una buona parte delle bombe usate nei raid aerei, nel “totale silenzio” del Governo. Anche di fronte alle continue stragi che hanno portato alle accuse di crimini di guerra e contro l’umanità. Si tratta di ordigni “made in Italy”, prodotti o assemblati dalla Rwm, che vengono spediti periodicamente dalla Sardegna, nel massimo segreto possibile, con navi e voli speciali. Finora, secondo la Rete per il Disarmo, almeno sei grossi “stock”. E che uso ne faccia la Royal Saudi Air Force lo dicono le sigle trovate sui resti degli ordigni che stanno massacrando uomini, donne e bambini nello Yemen. La questione è stata sollevata a più riprese, oltre che dalla Rete per il Disarmo, da Amnesty International e dall’Osservatorio sulle Armi Leggere (Opal), mentre in Parlamento si sono accumulate almeno quattro o cinque interrogazioni presentate al ministro degli Esteri. L’unico tentativo di risposta è venuto dal ministro della Difesa, Roberta Pinotti: “Per quanto riguarda le autorizzazioni – ha detto in varie occasioni – è tutto regolare, il Governo italiano opera nel rispetto della legge”. Un’affermazione subito contestata da Francesco Vignarca, della Rete Disarmo: “Non è vero: la legge 185 del 1990 vieta espressamente le esportazioni di tutti i materiali militari e loro componenti verso i paesi in stato di conflitto armato”.

E l’Arabia è, appunto, nel pieno di un conflitto sanguinosissimo e devastante. Anzi, secondo Human Rights Watch, decine dei suoi raid aerei potrebbero configurare crimini di guerra e contro l’umanità e, all’inizio di ottobre, si è giunti a un passo da una istruttoria: il Consiglio dell’Onu per i diritti umani, piegandosi alle pressioni di Riyad, ha respinto solo in extremis la proposta, formulata dall’Alto Commissariato, di istituire una commissione internazionale d’inchiesta sulle violazioni del diritto umanitario nello Yemen. L’Unione Europea (tra cui l’Italia), inizialmente favorevole, ha ritirato il suo sostegno, senza motivare l’inatteso cambiamento di rotta. Mentre nello Yemen si continua a morire e si moltiplicano i profughi. Che però restano lontani, “invisibili”, perché non ce la fanno ad arrivare fino alle porte della Fortezza Europa. E allora è come se non esistessero: fantasmi di cui nessuno ascolta la voce.

Tratto da: Diritti e Frontiere

Leggi anche