Migranti, a Cona l’ennesimo naufragio del sistema Italia

Giornalista, già responsabile delle edizioni regionali e vice capo redattore della cronaca di Roma de Il Messaggero, ha approfondito i problemi dell’immigrazione.
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06 gennaio 2017

La protesta esplosa nel centro accoglienza di Cona, dopo la morte di una giovane ivoriana, ha di nuovo scoperchiato la realtà del “sistema Italia” per i migranti. “Di nuovo” perché la situazione era ormai fin troppo chiara, specie dopo quanto è emerso con Mafia Capitale, l’indagine promossa dalla Procura di Roma che ha investito diverse strutture di ospitalità romane e si è poi estesa a casi analoghi in altre parti del Paese, incluso il Cara di Mineo, in Sicilia, il più grande d’Europa, dando origine anche a una commissione parlamentare d’inchiesta. Prima ancora di Mafia Capitale, anzi, a mettere sotto accusa il sistema erano stati tutta una serie di dossier roventi presentati da Ong come Medici per i Diritti Umani, Amnesty, Habeshia, l’Asgi, Lasciatecientrare. Roventi ma rimasti inascoltati. Così come, a ben vedere, è stata di fatto “dimenticata”, dalle istituzioni e dalla politica, anche la stessa Mafia Capitale: altrimenti non si sarebbe arrivati a una vicenda come quella di Cona.

Sembra trattarsi ancora una volta, a Cona, di un “caso di scuola”, con una gestione piena di ombre dell’accoglienza da parte della Ecofficina Edeco di Padova, leader nel settore in Veneto. Ombre, in particolare, nel centro dove è maturata la protesta: 1.500 giovani stipati in una ex base militare, che ne potrebbe ospitare al massimo, in condizioni dignitose, poche centinaia. C’è da stupirsi, anzi, che la protesta non sia scoppiata prima. Negli ultimi mesi, infatti la cooperativa è stata coinvolta in ben tre inchieste, con l’ipotesi di truffa, falso e maltrattamenti. Non solo. A parte le indagini di carabinieri e magistratura, la coop (che in breve tempo, secondo quanto riferisce il Fatto Quotidiano, citando fonti di stampa locali, avrebbe decuplicato il fatturato) lo scorso settembre è stata allontanata dalla Confcooperative perché faceva “troppo business”. Come dire: sarebbe venuta meno al modo di agire, al sistema, allo spirito proprio delle cooperative. A spiegare nei dettagli i motivi del provvedimento al Fatto è stato Ugo Campagnaro, presidente regionale Confcoop: “Non esiste – ha detto – una legge che impedisce di ospitare e gestire centinaia di profughi in un’unica struttura. Questo però è un sistema che non risponde alle logiche della buona accoglienza, della qualità dell’intervento, dell’integrazione e della relazione. Si tratta invece di un modello che guarda soprattutto al business. Per tutte queste ragioni vogliamo prendere le distanze da questo soggetto e dalla maniera in cui opera”.

C’è da chiedersi come mai la stessa attenzione della Confcooperative non l’abbia manifestata la Prefettura di Venezia, che si è accordata con la Ecofficina per il centro di Cona, con ispezioni e controlli sulle condizioni di vita degli ospiti, sugli alloggi, sui servizi effettivamente prestati, ecc., facendosi magari venire dei dubbi sulla opportunità della scelta fatta e “richiamando all’ordine” i responsabili. Specie a fronte, in particolare, dell’indagine sui presunti maltrattamenti aperta nell’aprile 2016 sulla scia di una segnalazione che denunciava “cibo di scarsa qualità distribuito agli ospiti delle strutture gestite dalla coop, angherie, soprusi e nessun corso di alfabetizzazione organizzato per far studiare l’italiano ai migranti”. Denunciava, cioè, la pressoché totale inadempienza degli impegni assunti di fronte allo Stato. Senza esito, del resto, è rimasta anche l’interrogazione parlamentare presentata da Giovanni Paglia, deputato di Sinistra Italiana, e che ha anticipato ampiamente quanto è venuto ora alla luce: “Condizioni di alloggio, limitate di fatto a tende di diverse dimensioni, caratterizzate da sovraffollamento e condizioni ambientali estremamente disagiate… Difficoltà di garantire assistenza sanitaria adeguata… Rischio che la situazione possa degenerare in qualsiasi momento”. Non risulta che l’allora ministro dell’interno Alfano abbia risposto o preso qualche provvedimento. Ed ora si è arrivati alla sommossa di cui tutti parlano.

Cona, però, è tutt’altro che un episodio isolato. Segnalazioni analoghe, ad esempio, continuano ad arrivare all’agenzia Habeshia da tutta Italia. Il contenuto delle denunce è sempre lo stesso: alloggi inadeguati, cibo scadente ma, soprattutto, la costrizione in un limbo infinito e pieno di incertezza, senza alcuna informazione sulle procedure da seguire o sullo “stato” delle richieste di asilo o relocation in un altro Stato europeo, per la mancanza pressoché sistematica di mediatori culturali e linguistici in grado di esprimere le esigenze dei profughi ai gestori dei centri e alle stesse istituzioni, a cominciare dalle prefetture e dalle questure. Accade a Roma e a Latina nel Lazio; in varie località della Sicilia; a Crotone e Cosenza in Calabria; a Taranto in Puglia; a Napoli, Caserta e Salerno in Campania; a Bergamo in Lombardia. O, ancora, a Cagliari, dove si è dovuta registrare anche la morte di un giovane eritreo in circostanze mai chiarite sino in fondo: trovato agonizzante ai piedi di un albero, accanto all’edificio del Cas dove era ospite, secondo i carabinieri è rimasto vittima di un incidente mentre tentava di rientrare nella sua stanza dalla finestra, dopo l’orario di chiusura, ma altri profughi sono convinti che si tratti di un suicidio, provocato dallo stato di depressione in cui il ragazzo era sprofondato a causa dei lunghi tempi di attesa per i documenti di esule e per le condizioni di vita nel centro.

E’ l’immagine di un disastro, perché queste strutture allo sbando, i Cas, centri di assistenza straordinaria, sono il cardine del sistema di accoglienza italiano. Con quasi 145 mila posti disponibili (75 mila in più rispetto al dicembre 2015) coprono l’80 per cento dell’offerta messa in campo dallo Stato. Offerta che sale addirittura all’86 per cento se si aggiungono i Cara (i centri per richiedenti asilo) contro appena il 14 per cento della rete Sprar organizzata in collaborazione con i Comuni, che è l’unica a garantire o almeno tentare un percorso adeguato di inserimento sociale. La spesa, assorbita dalle cooperative e dalle altre organizzazioni che gestiscono le strutture, è ripartita di conseguenza. Dei 1.162 milioni di euro stanziati complessivamente nel 2015, 918,5 milioni sono andati appunto ai Cas e ai Cara mentre 243,5 sono stati destinati allo Sprar. La ripartizione dei 1.200 milioni investiti nel 2016 (una media di 100 al mese) ricalca grossomodo la stessa proporzione.

Già queste cifre evidenziano le falle del sistema Italia. L’accoglienza si basa essenzialmente su strutture “straordinarie”, cioè temporanee e precarie, adatte al massimo per un soggiorno di poche settimane, non di mesi e di anni interi. Il compito di trovarle, nelle varie province, è affidato ai prefetti, senza alcuna programmazione a monte, con il risultato che viene in pratica utilizzato qualsiasi tipo di alloggio, purché reperibile rapidamente. “Con i profughi già sull’uscio”, ha detto sagacemente un operatore volontario. Così nella “mappa” è finito di tutto: caserme chiuse e in disuso da anni, appartamenti o addirittura interi edifici sfitti, scuole ed altri edifici pubblici inutilizzati, casolari di campagna, stanze d’albergo, pensioni, sistemazioni presso affittacamere. Catapultando i migranti dove capita e quasi sempre senza neanche preoccuparsi di informare preventivamente i sindaci e le popolazioni locali, di cui invece è assolutamente necessario avere la collaborazione e la comprensione. Anche questo – al di là delle numerose, fin troppe contestazioni strumentali di certe parti politiche – ha contribuito a suscitare molte proteste e un clima diffuso di incomprensione o addirittura di rifiuto.

Non solo. Proprio questa improvvisazione e questo criterio costantemente “precario” di affrontare il problema hanno impedito controlli e trasparenza, favorendo spesso gravi, lucrose, inaccettabili speculazioni. Oltre che un livello medio di trattamento e ospitalità assolutamente inaccettabile, come ha denunciato fin dal febbraio 2016 una meticolosa indagine condotta da Cittadinanzattiva, dal gruppo Lasciatecientrare e dall’associazione Libera, presentata presso la sede della Federazione della Stampa a Roma e rimasta però pressoché inascoltata: dalla “politica” e dalle istituzioni ma anche dai principali media.

Non risulta che, da allora, ci sia stato un cambiamento di rotta. Semmai, come dimostrano Cona e numerose altre situazioni analoghe, la piaga si è allargata. Il punto è che il Governo ha sempre affrontato e continua ad affrontare il problema dei migranti come una “emergenza” e non come un problema strutturale, da risolvere con un programma organico, basato su punti di riferimento certi e provvedimenti stabili. Dopo l’arrivo dei 170 mila migranti del 2014, non si può dire in alcun modo che flussi analoghi non fossero prevedibili per il 2015 e poi per il 2016. Specialmente per il 2016, dopo l’accordo tra l’Unione Europea e la Turchia che ha enormemente ridotto il flusso verso la Grecia, crollato dagli 850 mila arrivi del 2015 ai poco più di 173 mila di quest’anno, trasferendo dall’Egeo al Mediterraneo Centrale la principale via di fuga dall’Africa e dal Medio Oriente. Eppure si è continuato a improvvisare. E non sembra destinato a cambiare molto le cose nemmeno il recente accordo tra il Viminale e l’Anci per incrementare la rete dello Sprar, con l’impegno di assegnare ai Comuni una quota di 2,5/3 profughi ogni mille abitanti. Non, almeno, fino a quando l’auspicabile “accoglienza diffusa” non si baserà su quote obbligatorie, regione per regione e comune per comune, organizzate con indicazioni “dal basso”, tenendo conto delle diverse situazioni locali.

C’è da chiedersi quale sia il motivo di questa inerzia. Viene da pensare che nei piani del Governo, più che l’intenzione di razionalizzare e migliorare il sistema di asilo e accoglienza, portandolo al livello dei paesi più avanzati (Germania, Svezia, Olanda, Norvegia), ci sia quella di rilanciare la scelta del respingimento adottata ormai da anni e da attuare ora attraverso accordi internazionali come il Processo di Khartoum, i trattati di Malta e tutti i patti bilaterali che ne sono seguiti tra l’Italia e vari paesi africani. Patti spesso di polizia e dunque mantenuti segreti, come è accaduto per quello firmato il 3 agosto 2016 con il Sudan, del quale si è avuta notizia solo quando è stato effettuato il primo rimpatrio di massa forzato dall’Italia, nei confronti di 40 profughi fermati a Ventimiglia. Va esattamente in questa direzione la prima, importante decisione presa dal ministro dell’interno Marco Minniti, appena insediato al Viminale, di riaprire i Cie e di moltiplicare i rimpatri dei migranti “irregolari”, senza specificare quali siano i criteri per definire “irregolare” un migrante. E non si discosta granché da questa linea Deborah Serracchiani, vicesegretaria del Pd e presidente del Friuli, la quale, pur dichiarandosi contraria alla riapertura dei Cie, ha chiesto a sua volta di incrementare le espulsioni.

Tratto da: Diritti e Frontiere

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