Ricatto turco alla Grecia e alla Ue, con l’arma dei profughi

Giornalista, già responsabile delle edizioni regionali e vice capo redattore della cronaca di Roma de Il Messaggero, ha approfondito i problemi dell’immigrazione.
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29 gennaio 2017

“Se non estradate i militari golpisti dovremo prendere dei provvedimenti, incluso l’annullamento dell’accordo sull’immigrazione”: è il senso dell’ultimatum che, senza usare mezzi termini, Ankara ha inviato ad Atene. In sostanza, i profughi, indesiderati in Europa, vengono usati come arma di ricatto, sulla base del trattato che, entrato in vigore nel marzo del 2016 tra l’Unione Europea e la Turchia, prevede che, in cambio di 6 miliardi di euro, i migranti in fuga verso le isole greche dell’Egeo vengano bloccati dalla polizia di frontiera sulle coste dell’Anatolia o siano riconsegnati alle autorità turche quando riescono comunque a passare.

C’era da metterlo nel conto, un ricatto di questo genere (nel quale i profughi sono doppiamente vittime), fin dal momento della firma del patto. Molti lo avevano previsto e denunciato esplicitamente. Ad esempio, l’agenzia Habeshia o il Comitato Nuovi Desaparecidos, numerose Ong spagnole, Amnesty. E adesso, forse prima ancora di quanto si pensasse, arriva appunto il conto che il presidente Recep Erdogan chiede di pagare, di fatto, non solo ad Atene, ma al Consiglio Ue di Bruxelles e a tutte le cancellerie europee.

Al centro della questione c’è la sorte di otto militari riparati in Grecia dopo il fallito colpo di stato del 15 luglio 2016 a Istanbul: due maggiori, quattro capitani e due sergenti che prestavano servizio nella stessa base e che sono fuggiti insieme, con un elicottero dell’esercito, quando stavano iniziando le purghe decise da Erdogan, con migliaia di epurazioni e di arresti indiscriminati nei confronti di tutti gli oppositori del regime, a prescindere dalle prove sulla loro effettiva partecipazione o meno al golpe. Dopo essere atterrati in territorio greco ad Alessandropoli, la città portuale della Macedonia orientale, a due passi dal confine turco, gli otto fuggiaschi si sono subito affidati ad Atene, presentando la richiesta di asilo e negando ogni coinvolgimento, a qualsiasi titolo, nella rivolta abortita nel giro di 24 ore. Fermati e condannati a due mesi di detenzione per ingresso illegale in Grecia, verso la fine di luglio si sono visti anche negare lo status di rifugiati politici ma, a fronte del loro ricorso in appello, la Corte di Alessandropoli ha sospeso l’istanza di estradizione “urgente” fatta pervenire da Ankara al ministero degli esteri greco già all’indomani della fuga. Gli otto esuli, affidati in custodia alla polizia, sono stati così trasferiti ad Atene, in attesa del giudizio di secondo grado sulla domanda di asilo.

Da allora si sono moltiplicate le pressioni di Ankara su Atene, nonostante il Governo greco abbia fatto presente che la decisione finale spettava alla magistratura e non al potere politico. E la magistratura si è espressa di nuovo giovedì 26 gennaio con la Suprema Corte di Giustizia, la quale, ribaltando il primo giudizio di Alessandropoli, ha negato l’estradizione, accogliendo in sostanza gli argomenti della difesa: l’incertezza del diritto in Turchia dopo il giro da vite voluto da Erdogan all’indomani del golpe e, dunque, il rischio che gli otto fuggiaschi, una volta rimpatriati contro la loro volontà, non siano sottoposti a un “giusto processo” e che anzi venga messa in pericolo la loro stessa vita.

Non sono passate neanche 24 ore dalla sentenza che Ankara si è sentita in diritto di “fare la voce grossa”, con minacce esplicite. A una nuova richiesta di estradizione subito presentata dal ministero della giustizia turco, infatti, il ministro degli esteri Mevlut Cavusoglu ha aggiunto un avvertimento sibillino, asserendo che, “lo si volesse o no”, la sentenza avrebbe potuto avere effetti sulle relazioni tra i due paesi. E cosa intendesse lo ha esplicitato di lì a poco in una dichiarazione fatta venerdì 27 gennaio alla rete radiotelevisiva Trt e ripresa da Al Jazeera: “Noi chiediamo che gli otto soldati siano processati di nuovo. Quella adottata è una decisione politica. La Grecia sta proteggendo e ospitando dei golpisti”, ha detto. Poi ha aggiunto: “Stiamo valutando che cosa fare a questo punto. C’è un accordo sull’immigrazione, da noi firmato, che include anche un patto con la Grecia ‘di riconsegna’ (dei migranti alla Turchia: ndr). Ecco, ora stiamo valutando che cosa possiamo fare, compresa la cancellazione di questo patto di riconsegna sottoscritto con la Grecia”.

Non solo. Il giorno dopo il verdetto pronunciato dalla Suprema Corte di Giustizia di Atene, è intervenuto anche il presidente Erdogan il quale – riferisce il quotidiano Ekathimerini – non solo ha sostenuto che la mancata estradizione degli otto militari, definiti “terroristi”, può compromettere i rapporti bilaterali tra la Turchia e la Grecia, ma ha chiamato in causa direttamente il primo ministro Alexis Tsipras. Nei suoi commenti – scrive infatti Ehathimerini – Erdogan ha sottolineato che Tsipras gli avrebbe promesso che gli otto ufficiali e sottufficiali sarebbero stati rimpatriati: “La prima notte (dopo il tentato golpe) l’ho chiamato. Lui mi ha detto che la questione si sarebbe risolta nel giro di 15 o 20 giorni”: queste, secondo il quotidiano, le parole precise dette dal presidente turco riferendosi a Tsipras.

Qualunque sia stato il tono e il contenuto dei colloqui intercorsi tra i due premier dalle prime ore dopo il mancato colpo di stato fino ad oggi, appare evidente che Tsipras e il suo governo non possono, in realtà, che rispettare una sentenza della Suprema Corte di Giustizia: magari non funziona così nei sultanati e nelle dittature, ma sicuramente così funziona in una democrazia, dove la magistratura è libera e indipendente dal potere politico. Proprio per questo, però, appaiono particolarmente gravi e pesanti le dichiarazioni sia di Erdogan che del ministro degli esteri Mevlut Cavusoglu. Più che di dichiarazioni, anzi, si tratta di una minaccia esplicita. Atene ha replicato con il ministro della difesa Panos Kammeno, il quale ha ammonito Ankara che, nella democrazia greca, l’indipendenza dei giudici è un valore che il Governo deve e intende rispettare. Dall’Europa, invece, finora non sono arrivate reazioni, tranne una tiepida dichiarazione (di cui riferisce Al Jazeera), nella quale si dice di confidare che la cooperazione con la Turchia sul controllo dei migranti possa continuare. Eppure il caso investe non solo Atene ma anche Bruxelles e tutte le cancellerie dei singoli Stati membri della Ue. A meno che la volontà di “disfarsi dei profughi”, respingendoli a priori e senza tener conto delle norme di tutela previste dal diritto internazionale, non sia così forte a Bruxelles e nella altre capitali europee da giustificare o comunque da non reagire persino davanti a una prepotente ingerenza esterna, come quella turca, nella politica, nelle scelte e nella vita stessa della Grecia, un paese sovrano, membro dell’Unione. Una ingerenza che mette a rischio uno dei principi basilari di ogni democrazia.

E’ qui il punto. Con il ricatto del blocco della “riconsegna” e magari, in prospettiva, l’ombra del via libera ai milioni di profughi arrivati in Turchia – della cui sorte evidentemente non interessa nulla né ai governi europei né a quello di Ankara – Erdogan sta addirittura pretendendo di indicare a un altro Stato, la Grecia, e indirettamente all’intera Unione Europea, quale politica seguire. Una politica “alla sua maniera”, che ha decapitato la magistratura epurandola dei giudici “sgraditi”. Ma se la Ue cede o solo resta inerte e, in particolare, se continua a insistere nella politica dei “muri ad ogni costo” contro i migranti e i richiedenti asilo, chiusa come in una fortezza e sorda ai principi da cui è nata l’idea stessa di Europa, si rischia di creare un precedente dalle conseguenze imprevedibili. Dopo quello di Erdogan, cioè, sono da attendersi ricatti analoghi da tutti gli Stati di dubbia democrazia o dai tanti regimi dittatoriali coinvolti negli accordi firmati in questi anni per “gestire l’immigrazione”: i processi di Rabat e di Khartoum, i trattati di Malta, i patti bilaterali – spesso segreti e di polizia – siglati con alcuni singoli Governi, come ha fatto in particolare l’Italia, ad esempio, con la Nigeria sconvolta nel nord est dagli attacchi jihadisti di Boko Haram e da una carestia spaventosa; il Mali, dove la rivolta esplosa nel 2012 non è mai finita, nonostante l’intervento armato francese; il Gambia del deposto dittatore Yahya Jammeh; il Sudan di Omar al Bashir, condannato per crimini contro l’umanità; la Libia dei centri di detenzione lager, dove è norma quotidiana ogni forma di violenza. Perché queste sono, in generale, le mani in cui la Ue ha messo e continua a mettere i migranti e i richiedenti asilo.

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