Ritorno alla comunità: quando il territorio è bene comune

PhD in sociologia, presidente della coop. In Migrazione e di Tempi Moderni a.p.s.. Si occupa di studi e ricerche sui servizi sociali, sulle migrazioni e sulla criminalità organizzata.
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03 febbraio 2017

Articolo di Chiara Buda

Uno dei concetti più resilienti della tradizione sociologica è quello di comunità. Si tratta di un concetto che ha assunto nel tempo una vasta gamma di significati, definizioni e connotazioni correlati al contesto storico e mutati con il passare del tempo. Nella sociologia classica, per esempio, il termine comunità tende a definire un tipo particolare di relazioni sociali che potremmo definire calde; invece, nella sociologia contemporanea è sinonimo di comunità locale.

È un concetto che è stato oggetto di un importante dibattito teorico nella sociologia urbana che si è espresso nella dialettica tra due opposte argomentazioni, quella della “perdita” (loss community) e della “persistenza” della comunità (community saved argument). Dibattito in parte superato da una terza posizione (community liberated) che ha introdotto un concetto di comunità deterritorializzata. Del resto, i legami comunitari non sono del tutto incompatibili con la vita urbana, perché la città di per sé non pregiudica la possibilità di avere legami interpersonali “caldi” in grado di fornire sostegno quotidiano nei quali condividere valori e atteggiamenti e costruire identità.

Ha senso dunque parlare ancora oggi di comunità, ma risulta necessario abbandonare la sua versione classica connessa all’immagine di un “gruppo sociale omogeneo, legato ad uno spazio specifico e dotato di caratteri organici” (Mela 2016, pag. 71). Sembra più opportuno far riferimento ad una immagine di comunità intesa come “insieme di relazioni sociali fondate sul riconoscimento della differenza culturale, in quanto elemento unificatore ma allo stesso tempo non esclusivo, capace di produrre legame sociale senza impedire i legami edificabili lungo altre dimensioni” (Spreafico 2005, pag. 9).

Il ritorno alla comunità serve allora per proporre un nuovo contratto sociale che riporta in luce concetti come il dono, la reciprocità, le nuove forme di solidarietà capaci di contribuire al funzionamento di una società sempre più globale, dove lo stato nazionale perde la sua legittimità e la sua centralità e dove il rapporto con gli altri deve essere reinventato (Aymard 2005, pag. 8).

La crisi economica ha lanciato nuove sfide che inducono ad un ripensamento sia del modello economico sia della concezione individualistica del vivere associato. Le ristrettezze e le difficoltà, che questa crisi genera, incentivano il recupero del senso di comunità e di solidarietà. Dinnanzi alla frammentazione dei rapporti sociali, emerge il bisogno di costruire legami più stretti e relazioni più solidali fra le persone, emerge cioè una “voglia di comunità”.

Ma come si fa comunità? Come si rende possibile il passaggio dall’Io moderno al Noi comunitario? Una possibile strada da percorrere per costruire comunità è quella della cura dei beni comuni, perché, così come suggerisce Laura Pennacchi, i beni comuni ricostruiscono i legami sociali (Pennacchi 2015, pag. 40).

Secondo la Carta della Sussidiarietà, presentata da Labsus, “sono beni comuni quei beni, materiali ed immateriali, il cui arricchimento arricchisce tutti ed il cui impoverimento impoverisce tutti” (Carta della sussidiarietà 2004, punto 5). Sono beni rivali, ma non escludibili: rivali perché il maggior uso del bene da parte di qualcuno determina una riduzione della possibilità per altri di fruire di quel bene e di quella risorsa; non escludibili perché non è possibile impedire l’accesso al bene o alla risorsa a chi non soddisfi le condizioni richieste per aver titolo ad usarlo. I beni comuni sono un insieme di beni necessariamente condivisi. Sono beni in quanto permettono il dispiegarsi della vita sociale, la soluzione di problemi collettivi, la sussistenza dell’uomo nel suo rapporto con gli ecosistemi di cui è parte. Sono condivisi, in quanto, sebbene l’esclusione di qualcuno o di qualche gruppo dalla loro agibilità sia spesso possibile ed anche una realtà fin troppo frequente, essi stanno meglio e forniscono le loro migliori qualità quando siano trattati e quindi anche governati e regolati come beni “in comune”, a tutti accessibili almeno in via di principio (Arena 2012, pag. 17).

Ora, “i cittadini attraverso la cura dei beni comuni creano le condizioni per il pieno sviluppo di ciascun essere umano e in primo luogo di se stessi, attuando insieme con le istituzioni il principio costituzionale di uguaglianza delle opportunità per tutti” (Carta della sussidiarietà 2004, punto 6).

Del resto, come sottolinea Cacciari in La società dei beni comuni (2010):…….

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