In Tribunale il patto con la Turchia: sotto accusa il sistema Ue, Libia inclusa

Giornalista, già responsabile delle edizioni regionali e vice capo redattore della cronaca di Roma de Il Messaggero, ha approfondito i problemi dell’immigrazione.
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13 febbraio 2017

Il trattato tra Europa e Turchia per il blocco dell’immigrazione è “sotto accusa” di fronte alla Corte di Giustizia Europea. Il Tribunale, riunito l’otto febbraio, ha giudicato ammissibile e dunque “incardinato” un ricorso arrivato dalla Spagna il 30 novembre 2016, dando al Consiglio Ue due mesi di tempo (estensibili in caso di eventuali “circostanze eccezionali”) per presentare le sue controdeduzioni all’esposto che ha sollevato dubbi sulla legalità delle decisioni prese da Bruxelles. Non avendo i giudici ritenuto di accettare anche la richiesta di sospensione immediata della sua applicazione pratica, nelle more del “processo” il trattato resta operativo. “Ma è già significativo – sostiene l’agenzia Habeshia di don Mussie Zerai – che per la prima volta venga messa in discussione, di fronte a una corte di giustizia, la legittimità della politica che ha portato alla firma dell’accordo con Ankara, entrato in vigore il 20 marzo 2016, alzando l’ennesima barriera contro i richiedenti asilo, per impedire persino che possano bussare alle porte della Fortezza Europa. Quella stessa politica che è alla base anche del trattato di respingimento che l’Italia ha firmato con la Libia il 2 febbraio, ampliato poi con il programma adottato l’indomani, nel secondo vertice di Malta, da tutti gli Stati dell’Unione, per blindare il Mediterraneo e fermare i migranti in Africa, a qualsiasi costo, contro la loro volontà e a prescindere dalla sorte che li aspetta”.

La denuncia arrivata alla Corte di Giustizia prende le mosse da un caso particolare: la vicenda di un giovane pachistano, Shamir, uno delle migliaia di profughi approdati in Grecia nel 2016, al quale è stato negato il diritto di asilo, nonostante sia dovuto fuggire da Islamabad (perdendo il padre durante il lungo viaggio verso l’Europa) per aver difeso un amico cristiano perseguitato da gruppi fondamentalisti islamici. Ed è quella di Shamir, appunto, la firma sull’esposto. Al suo fianco, però, si sono schierati numerosi giuristi e consolidate istituzioni per la difesa dei diritti umani di Barcellona. In particolare, l’Associazione Catalana Giuristi Democratici (Acjd) e la fondazione Congresso Catalano di Salute Mentale (Ccsm), oltre a un centinaio di Ong. “Questo accordo Europa-Turchia lo contestiamo – ha spiegato il procuratore anticorruzione Carlos Jimenez Villarejo – perché rappresenta una violazione delle norme e dei trattati europei e, soprattutto, di diritti fondamentali come la vita stessa, la dignità o la libera circolazione”. L’obiettivo è quello di arrivare a una sentenza che dichiari il trattato voluto dalla Ue “nullo e senza alcun valore né effetto” e revochi dunque il respingimento in Turchia dei rifugiasti che raggiungono le coste greche, trattandosi di persone che hanno il diritto di asilo nell’Unione Europea. Tutto ciò in base alla considerazione che quel trattato – perfezionato nel marzo 2016 con un “compenso” di 6 miliardi di euro per Ankara, sulla scia della politica di chiusura nei confronti dei migranti stabilita dagli Stati Ue nel primo vertice di Malta (novembre 2015) – è in contrasto con i valori democratici fondativi dell’Europa, con la Carta dei Diritti Fondamentali e con “le libertà individuali e i diritti derivanti dai principi di solidarietà ed eguaglianza di fronte alla legge”.

“Si tratta – ha aggiunto il procuratore Villarejo in una dichiarazione rilasciata al quotidiano spagnolo El Diario – di un abuso di potere da parte delle istituzioni comunitarie, che hanno usato le proprie competenze non in favore dei cittadini ma al servizio degli interessi del Governo turco”. Il Governo di un paese al quale va evidentemente la fiducia di Bruxelles nonostante le pesanti epurazioni che, in seguito al tentato colpo di stato del luglio 2016, hanno colpito i più diversi settori della società, inclusa la magistratura. Argomenti di questo genere sono stati usati a fine agosto 2016, tre mesi prima dell’esposto sottoscritto da Shamir, anche dal Consiglio Nazionale dell’Avvocatura Spagnola, per sollecitare a sua volta la revoca o la soppressione dell’accordo tra Unione Europea e Turchia. Alla base della richiesta – inviata dalla presidente Victoria Ortega al presidente della Commissione Europea, Jean Claude Junker – c‘è la constatazione delle “purghe” sistematiche che Erdogan ha attuato, dopo il fallito golpe, contro tutte le libertà democratiche e contro ogni forma di dissenso, procedendo all’arresto o alla sospensione di migliaia di giudici, giornalisti, docenti universitari, professori di liceo, funzionari e impiegati statali. Particolarmente preso di mira risulta proprio il potere giudiziario, di cui sono state minate l’autonomia e l’indipendenza, con la destituzione oppure l’arresto di circa 2.800 magistrati, pari a un quarto del personale dell’intero sistema. “In questo contesto non può considerarsi garantito l’adempimento, da parte della Turchia, dei suoi obblighi legali in materia di rifugiati. Di conseguenza, inviare nel paese rifugiati dalla Grecia può comportare un pericolo per la loro libertà e integrità e per la loro stessa vita”, ha sottolineato Victoria Ortega, facendo notare che, oltre tutto, proprio in quei giorni Ankara stava annunciando anche la sospensione, sia pure temporanea, della Convenzione Europea per i Diritti Umani. “Appare evidente – conclude dunque l’esposto del Consiglio dell’Avvocatura – che in queste condizioni la Turchia non può considerarsi una paese sicuro”.

Ecco, le condizioni del paese. Lo stesso può dirsi, a maggior ragione, per gli Stati africani dove l’Europa vuole bloccare o rimandare indietro i profughi. In particolare la Libia. Il problema, proprio alla vigilia dell’incontro del 3 febbraio a Malta, è stato sollevato dalla cancelliere tedesca Angela Merkel, citando il pesantissimo dossier che le ha fatto pervenire proprio sulla Libia l’ambasciatore di Berlino in Nigeria. Subito dopo, all’indomani del vertice, lo ha ribadito anche Martin Kobler, l’inviato speciale delle Nazioni Unite a Tripoli, segnalando senza mezzi termini al Consiglio di Sicurezza che “i migranti non possono essere rimpatriati in Libia”. “Non ce ne sono le condizioni – ha specificato – Le cause profonde della crisi sono nelle situazioni che spingono i popoli subsahariani ad abbandonare il proprio paese e a raggiungere la Libia, per cercare poi di arrivare in Europa. E la Libia è vittima di questa crisi molto più dell’Europa”. Senza contare le contestazioni mosse da tutte le principali Ong e agenzie umanitarie internazionali, che fin dall’inizio hanno sottolineato l’estremo pericolo, le torture, i soprusi, i sequestri, gli stupri, le uccisioni, la mancanza totale di rispetto dei diritti umani a cui vengono esposti i migranti in Libia ma anche in altri paesi, come il Sudan, il Sud Sudan, l’Egitto, il Marocco.

L’Unione Europea, però, non sembra disposta a fermarsi. Non si ferma l’Italia, in particolare. Dopo quello con Tripoli e a supporto, appunto, del blocco dei migranti in Libia o comunque sulla sponda africana del Mediterraneo, il 9 febbraio il ministro Angelino Alfano ha perfezionato con la Tunisia il patto già in vigore dal 2011, in linea con le dichiarazioni fatte la sera stessa del suo giuramento al Quirinale dopo il cambio di governo: “C’è una continuità tra il lavoro che ho svolto al Viminale e quello che andrò a fare alla Farnesina: come ministro dell’interno ho cercato di bloccare gli sbarchi in Italia, come ministro degli esteri farò in modo che dall’Africa non partano migranti”. Tra i punti base discussi a Tunisi, infatti, a parte una rafforzata vigilanza in mare, figura la blindatura dei confini con l’Algeria e la Libia, evidentemente per prevenire la deviazione verso un “percorso tunisino” innanzi tutto dell’attuale via di fuga con imbarchi in Tripolitania, la più battuta sulla rotta del Mediterraneo centrale, ma anche della “via” che dal Niger arriva in Algeria e da qui in Sardegna, anche con barche medio-piccole, finora rimasta in ombra, nonostante abbia registrato un flusso crescente nell’arco del 2016.

Proprio per questa ostinazione ad alzare barriere e a chiudere gli occhi di fronte alla tragedia di migliaia di disperati, può essere importante il procedimento aperto presso la Corte di Giustizia europea dal ricorso di Barcellona. E’ quello che pensa Enrico Calamai, del Comitato Nuovi Desaparecidos: “E’ importante e anzi va sostenuta con forza l’azione promossa dai giuristi e dalle Ong spagnole. Sostenuta, intendo, con solide argomentazioni giuridiche, testimonianze, documenti, ma anche con una vasta mobilitazione delle coscienze, facendo leva sui valori di libertà e solidarietà che sono alla base dell’idea stessa di Europa e che non a caso sono l’ossatura portante dell’esposto messo a punto a Barcellona. Se la Corte accoglierà il ricorso, può crollare l’intero sistema: non è un mistero che il patto con Ankara è stato preso a modello per l’Africa, sulla scia del programma concordato nel primo incontro di La Valletta, per tutti i trattati successivi. Pur sapendo bene che le condizioni in cui i migranti resteranno intrappolati negli Stati africani coinvolti nel patto, sono molto peggiori persino di quelle della Turchia. In particolare quelle della Libia, scelta come partner ‘dimenticando’, tra l’altro, che Tripoli non ha mai voluto aderire nemmeno alla Convenzione di Ginevra sui diritti dei rifugiati e coprendo di una pesante coltre di silenzio e indifferenza i numerosi, terribili rapporti sull’inferno a cui sono condannati i migranti nei cosiddetti centri accoglienza libici, autentici lager dove la violenza è prassi quotidiana. L’ultimo di questi dossier, quello dell’Onu, è stato presentato poco più di un mese prima della firma del patto Italia-Libia: a Roma non lo ha letto nessuno?”.

Tratto da: Diritti e Frontiere

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