Deportazioni in Sudan, Italia alla sbarra in Europa: è la nona volta

Giornalista, già responsabile delle edizioni regionali e vice capo redattore della cronaca di Roma de Il Messaggero, ha approfondito i problemi dell’immigrazione.
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20 febbraio 2017

Li hanno bloccati a Ventimiglia nel centro accoglienza della Croce Rossa, portati a Torino dopo un accertamento sommario, caricati sotto scorta su un aereo e rimpatriati, contro al loro volontà, in Sudan, il paese da cui erano scappati per sottrarsi al regime di Omar Al Bashir, il dittatore colpito da un ordine di cattura internazionale per crimini di guerra e contro l’umanità in seguito ai massacri nella martoriata regione del Darfur. Erano in 40, quasi tutti in fuga proprio dal Darfur. Di molti di loro si sono perse le tracce dopo lo sbarco a Khartoum. Almeno cinque, però, non si sono arresi ed hanno deciso di trascinare l’Italia di fronte alla Corte Europea per i Diritti Umani. Al loro fianco si è schierato il Tavolo Nazionale Asilo, di cui fanno parte organizzazioni come il Centro Astalli, l’Asgi, la Caritas, l’Arci, la Federazione delle Chiese Evangeliche, Amnesty. Il procedimento è seguito dagli avvocati Salvatore Fachile e Dario Belluccio, che il 13 febbraio hanno depositato un esposto presso la cancelleria della Corte, a Strasburgo.

Il ricorso, al di là del fatto specifico, mette sotto accusa tutta la politica italiana ed europea di respingimento nei confronti di richiedenti asilo e migranti. In particolare, anzi, è nel mirino il patto di polizia tra Italia e Sudan firmato in segreto a Roma il 3 agosto 2016 e utilizzato dal Viminale per procedere al rimpatrio forzato il 28 agosto successivo. Un patto che, come numerosi altri analoghi, è uno dei “pilastri” delle barriere che l’Italia e l’Unione Europea stanno erigendo per bloccare e rimandare indietro i profughi a qualsiasi costo e a prescindere dalla sorte che li attende. Pur essendo ben a conoscenza che questa procedura – come rilevano numerose sentenze – è in contrasto con il diritto internazionale e con la stessa Costituzione della Repubblica.

L’avvocato Salvatore Fachile non ha dubbi che si tratti di una violazione voluta. “Il provvedimento – ha dichiarato a Repubblica – si inserisce in un piano preciso dell’Unione Europea, che chiede a Italia e Grecia di violare i trattati internazionali per fermare l’arrivo di persone via mare, trasformando il nostro paese in una enorme frontiera, dotata di centri di espulsione”. Ora si ha fiducia che il percorso a Strasburgo sia spedito. Anche per la sicurezza dei cinque giovani che hanno avuto il coraggio di uscire allo scoperto. “Siamo stati costretti a lavorare in condizioni difficili per noi e pericolose per i nostri assistiti”, ha sottolineato infatti Fachile. Non ha aggiunto altri particolari, salvo che il mandato per rivolgersi alla Corte Europea è stato raccolto durante la visita fatta in Sudan, nel dicembre 2016, da una delegazione di parlamentari Ue, del gruppo Sinistra Unitaria (Sue). Una visita ufficiale di rappresentanti di Bruxelles. Eppure le conversazioni fra gli avvocati e i ricorrenti sarebbero state ascoltate dai servizi segreti del regime e gli stessi avvocati sono stati poi interrogati a lungo dalla polizia. “Possiamo solo dire – hanno spiegato Salvatore Fachile e Dario Bellucci – che ai nostri assistiti è stato intimato un divieto di espatrio per cinque anni e che ora vivono nascosti da qualche parte, nei dintorni di Khartoum: non vogliono e non possono ritornare nel Darfur, dove rischiano di subire le persecuzioni dalle quali sono fuggiti”.

In caso di condanna, per l’Italia non sarebbe la prima volta. Negli ultimi sei anni è finita alla sbarra ed è stata poi condannata per ben otto volte dal “tribunale” di Strasburgo o da altre corti di giustizia europee. La sentenza più clamorosa è stata quella per i respingimenti in mare verso la Libia, nel febbraio 2012, ma non sono meno significative, anche se meno note, le altre sette.

Bruxelles, 28 aprile 2011. Bocciato il reato di clandestinità

Bocciate dalla Corte di Giustizia dell’Unione Europea la norme sul reato di clandestinità introdotto nell’ordinamento italiano nel 2008 con il “pacchetto sicurezza” deciso dal Governo Berlusconi. Punire la clandestinità con la reclusione, secondo i giudici, era in contrasto con la direttiva europea sui rimpatri dei migranti irregolari. Roberto Maroni, allora ministro dell’interno e autore del “pacchetto sicurezza”, ha contestato il verdetto come “discriminatorio” nei confronti dell’Italia, dimenticando però che già la Corte Costituzionale italiana aveva dichiarato illegittima la condizione di clandestinità come “aggravante” di altri reati (tanto da determinare un aumento di pena fino a un terzo), introdotta nel 2008 con un altro “decreto sicurezza”.

Berlino, 20 novembre 2011. Italia accusata da 41 Tribunali tedeschi

Roma viene messa sotto accusa da 41 Tribunali tedeschi, che bloccano l’ordine di espulsione verso l’Italia deciso nei confronti di numerosi profughi incappati nel regolamento di Dublino (i cosiddetti “dubliners”), per non esporli al rischio di precipitarli di nuovo nelle condizioni estreme, senza servizi né forme di assistenza adeguate, che li avevano spinti a varcare clandestinamente la frontiera delle Alpi per cercare rifugio in Germania. A portare di fatto “alla sbarra” il Governo italiano sono stati due avvocati tedeschi (difensori di alcuni “dubliners”), che per convincere i giudici di Berlino a sospendere il rimpatrio hanno presentato un dossier sulle condizioni di vita dei loro assistiti in Italia. Un dossier raccolto “sul campo” dai due legali, dopo un lungo viaggio nella penisola per rendersi conto della situazione e mettere insieme tutta una serie di testimonianze e documenti. Le prove prodotte non solo hanno convinto i giudici e scandalizzato l’opinione pubblica, ma indotto anche altri tribunali, fino a un totale di 41, tra i principali della Germania, a sospendere temporaneamente le espulsioni verso l’Italia. Tra gli altri, i tribunali di Francoforte, Weimar, Dresda, Friburgo, Colonia, Darmstadt, Hannover, Gelsekirchen.

Strasburgo, 22 febbraio 2012. Respingimenti in mare: Italia condannata

La Corte di Strasburgo condanna la politica dei respingimenti in mare adottata dal governo Berlusconi. I giudici contestano all’Italia di aver violato la Convenzione sui diritti umani: in particolare l’articolo 3, quello sui trattamenti degradanti e la tortura. La sentenza riguarda la vicenda di 200 profughi, in maggioranza eritrei e somali, intercettati il 6 maggio 2009 su un barcone alla deriva nel Canale di Sicilia, in acque internazionali, da una unità della Marina italiana, che li ha presi a bordo e riportati in Libia, nonostante le loro proteste, senza identificarli e senza verificare se avessero i requisiti per ottenere l’asilo o un’altra forma di tutela internazionale. Consegnati alla polizia di Tripoli, sono finiti in centri di detenzione, dove molti hanno poi subito maltrattamenti e violenze. A sollevare il caso di fronte alla Corte per i diritti umani, sono stati 24 di loro (rintracciati dal Consiglio italiano per i rifugiati) con un ricorso che ha dato voce a tutte le centinaia di migranti respinti in mare dalla Marina italiana o catturati dalla Guardia Costiera e dalla polizia libiche, mettendo così sotto accusa la politica di Roma sull’immigrazione, per la violazione sistematica, tra l’altro, del protocollo 4 della Convenzione di Ginevra, in base al quale sono proibiti i respingimenti collettivi.

Strasburgo, 29 marzo 2012. Strage su un gommone: “colpevole” l’Italia

Il Consiglio d’Europa pronuncia una sentenza di condanna contro l’Italia ritenendola la maggiore responsabile della tragica morte di 63 dei 72 migranti abbandonati per due settimane su un gommone alla deriva nel Canale di Sicilia. Si tratta di uno degli episodi più drammatici dell’esodo dei profughi in fuga dalla Libia, durante la rivoluzione contro Gheddafi. Risale alle settimane a cavallo tra i mesi di marzo e aprile 2011 e oltre all’Italia ha coinvolto Malta e tutte le forze Nato schierate in mare a sostegno delle milizie anti Gheddafi. Le vittime sono giovani eritrei e somali, incluse alcune donne e due bambini piccolissimi.

L’inchiesta e la sentenza del Consiglio d’Europa sono nate dalla denuncia formulata da don Mussie Zerai, presidente dell’agenzia Habeshia, e diventata un caso internazionale dopo essere stata ripresa dal Guardian di Londra e dalla Tv Svizzera con una approfondita indagine giornalistica. La ricostruzione dei fatti è sconvolgente. Il gommone, partito dalla Libia, è rimasto in balia del mare per un guasto al motore. Il primo a ricevere un Sos è stato don Zerai, che ha allertato la Guardia Costiera italiana. Scattate le ricerche su iniziativa dell’Italia, il battello è stato avvistato da un elicottero, probabilmente maltese, che ne ha segnalato la posizione esatta ed ha anzi gettato dell’acqua ai migranti. Sembrava la premessa per un rapido intervento di recupero. Invece, da quel momento quei disperati sono stati abbandonati a se stessi: nessuno è andato a salvarli, fino a che il battello è stato sospinto dalle correnti di nuovo in Libia. Ma a quel punto, dopo 15 giorni, 61 dei migranti a bordo erano morti e altri due sono spirati poco dopo aver toccato terra. I nove superstiti, inizialmente arrestati dalla polizia libica, appena liberi si sono rivolti a don Zerai. L’Italia è stata ritenuta la principale responsabile perché, avendo ricevuto per prima la richiesta di aiuto, avrebbe dovuto, se non intervenire direttamente, almeno verificare che i soccorsi venissero organizzati e condotti a termine, tanto più che era evidente che non si poteva fare affidamento sulla Libia, travolta dalla guerra civile, pur essendo lo Stato più vicino alla posizione del natante in difficoltà.

Strasburgo, 21 ottobre 2014. Respingimenti: nuova condanna per l’Italia

La Corte di Strasburgo condanna l’Italia per una serie di respingimenti di profughi (33 afghani, 2 sudanesi e un eritreo) avvenuti nel 2009 da tre porti dell’Adriatico (Ancona, Venezia e Bari) verso la Grecia, lo Stato da cui erano arrivati su traghetti di linea. I magistrati hanno rilevato nel comportamento dell’Italia una palese violazione dei diritti dell’uomo, essendo ben noto che la Grecia, travolta in quei mesi da forti sconvolgimenti politici, non era in grado di garantire a quei profughi, tutti richiedenti asilo, forme di tutela adeguate al loro status, tanto più che si respirava nel paese, nei confronti degli stranieri, un diffuso senso di ostilità che ne metteva a rischio in molti casi la sicurezza e l’incolumità. Senza contare i duri trattamenti denunciati nei campi di raccolta (in particolare quello di Patrasso, dove erano rinchiusi in buona parte i 35 sbarcati di cui si è occupata la Corte) e soprattutto il rischio di essere rimpatriati da Atene nei paesi d’origine, venendo così esposti ai pericoli estremi dai quali erano fuggiti. Per il trattamento riservato a quei profughi è stata condannata anche la Grecia.

Quattro novembre 2014. “L’Italia non rispetta i diritti dei rifugiati”

La Corte di Strasburgo contesta all’Italia di non rispettare i diritti dei rifugiati: un atto d’accusa scaturito dalla sentenza pronunciata sul caso di una famiglia di profughi afghani arrivata in Svizzera dopo essere sbarcata a Bari e che Berna voleva espellere verso l’Italia, in applicazione del regolamento di Dublino. La Corte ha affermato che, nel caso specifico, le norme di Dublino non potevano essere applicate perché in Italia non ci sarebbero state sufficienti garanzie sui diritti umani: in particolare, garanzie sul diritto a un alloggio dignitoso e sicuro, specie in presenza di bambini piccoli, com’era il caso di quella famiglia. In base a questo principio, l’ordine di espulsione di Berna è stato bloccato. Lo stesso principio, in sostanza, adottato nel 2011 da 41 Tribunali tedeschi.

Bruxelles, 15 dicembre 2016. “Violati i diritti di 13 nigeriane”

Il Comitato per la Prevenzione della Tortura (Cpt) condanna l’Italia per l’espulsione collettiva di 13 giovani nigeriane detenute nel Cie di Ponte Galeria a Roma, rimpatriate contro la loro volontà tra il 16 e il 18 dicembre 2015. Secondo la sentenza, non sono stati rispettati i diritti fondamentali, perché il provvedimento è stato reso esecutivo nonostante la magistratura lo avesse sospeso. L’inchiesta è nata in seguito a una visita fatta nella Penisola da una delegazione del Comitato per monitorare i cosiddetti return flights, organizzati dall’Italia in collaborazione con l’agenzia Frontex. Tra l’altro il Comitato ha verificato che le migranti hanno ricevuto la notifica del rimpatrio il giorno stesso della partenza, senza dunque avere la possibilità di opporsi in sede giurisdizionale.

Bruxelles, 15 dicembre 2016. Lampedusa, arresti arbitrari: Italia condannata

La Grande Camera della Corte per i diritti dell’Uomo contesta all’Italia di aver violato, con una serie di arresti arbitrari, l’articolo 5 della Convenzione europea sui diritti umani, che disciplina i casi in cui può avvenire la privazione della libertà. Il principio è che non si può essere privati della libertà personale come esito di una prassi della polizia e senza una decisione giurisdizionale: senza cioè la supervisione e la decisione di un giudice. L’inchiesta è nata dalla vicenda di un gruppo di migranti detenuti nel centro di prima accoglienza di Lampedusa, sollevata di fronte alla Corte dall’avvocatessa Francesca Cancellaro.

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