Massacrati 22 profughi a Sabratha ma per l’Italia la Libia è uno Stato “sicuro”

Giornalista, già responsabile delle edizioni regionali e vice capo redattore della cronaca di Roma de Il Messaggero, ha approfondito i problemi dell’immigrazione.
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09 marzo 2017

Una strage. Non se ne è saputo nulla fino a quando i 22 corpi senza vita non sono stati scoperti vicino a Sabratha, uno dei porti clandestini d’imbarco dalla Libia verso l’Italia, circa 70 chilometri a ovest di Tripoli e meno di 100 dal confine con la Tunisia. Le vittime sono migranti subsahariani, ragazzi poco più che ventenni. C’è da credere che siano stati uccisi per rappresaglia: una “punizione esemplare” dopo un tentativo di protesta.

A riferire la notizia del massacro è stato il quotidiano online Libya Observer che, informato da “fonti confidenziali”, il 5 marzo ha pubblicato anche alcune terribili foto che documentano la ferocia dell’eccidio. I 22 cadaveri, tutti con ferite mortali da arma da fuoco, sono stati trovati in fondo a un terrapieno nella macchia di Fanar, alla periferia di Sabratha, poco lontano dal mare. E’ proprio in quel punto che è avvenuta la strage: presi a raffiche di mitra, quei 22 giovani sono caduti uno sull’altro, senza poter tentare la fuga. Secondo il Libya Observer (servizio di Abdullah Ben Ibrahim) facevano parte di un gruppo di circa 160 migranti che avrebbero dovuto imbarcarsi per l’Italia la sera di venerdì 3 marzo o il giorno successivo, sabato 4. Al momento di salire sul gommone, però, la maggior parte, a quanto pare, si è rifiutata, contestando che il mare era troppo mosso e dunque che la traversata sarebbe stata troppo rischiosa. Una protesta sempre più ferma e decisa, nonostante le minacce dei trafficanti i quali, per riprendere il controllo della situazione, non hanno esitato a sparare, mirando a uccidere, contro l’intero gruppo e in particolare contro i più risoluti, lasciando 22 cadaveri sulla sabbia. Si ignora la sorte dei superstiti. Molti – ha riferito un rapporto dell’Oim diramato da Ginevra il 7 marzo – sono rimasti feriti: decine, forse quasi cento. Qualcuno, nel caos scatenato dalla sparatoria, magari è riuscito a fuggire; una parte potrebbe essere ancora nelle mani dei mercanti di uomini mentre i feriti più gravi forse sono stati abbandonati sul posto dagli stessi trafficanti. Di certo, il massacro ha posto fine a ogni forma di resistenza.

Notizie ugualmente drammatiche arrivano da Sabha, la capitale del Fezzan dove, rileva il rapporto mensile della polizia locale, nell’arco dei 28 giorni di febbraio, 10 immigrati risultano vittime di morte violenta: 4 chadiani, 2 nigeriani, un senegalese e tre non identificati ma presumibilmente subsahariani. Tre dei migranti uccisi – un chadiano, un senegalese e un nigeriano – erano prigionieri di bande di trafficanti che, dopo averli sequestrati per chiedere un riscatto, li hanno torturati e poi uccisi, forse anche come “monito” per altri prigionieri, perché non erano in grado o non intendevano pagare, piegandosi al ricatto. I loro corpi presentavano segni evidenti delle prolungate sevizie subite. La polizia non specifica le circostanze della morte degli altri 7, ma Sabha è uno dei punti più pericolosi, in Libia, per i profughi in transito, snodo obbligato di buona parte delle “piste dell’immigrazione” provenienti dal Sudan e dal Niger attraverso il Sahara, fitto di posti di blocco gestiti non solo dalla polizia ma da miliziani di varie fazioni e anche da bande armate: check point nei quali non si esita a sparare contro chiunque non si fermi e tenti di scappare, come testimoniano numerosi, gravi episodi avvenuti negli ultimi anni, con morti e feriti, ad esempio, all’interno dei container o a bordo dei camion chiusi su cui i trafficanti trasportavano di nascosto decine di migranti. E proprio per il controllo di questo nodo viario cruciale sono frequenti, tra i diversi gruppi armati rivali, scontri a fuoco nei quali spesso rischiano di restare coinvolti loro malgrado i profughi.

Nel rapporto della polizia di Sabha sono riferiti anche i sequestri di persona per estorsione: 12 le persone rapite, di cui 6 libici e 6 migranti, inclusi i tre torturati e uccisi di cui è stato trovato il corpo martoriato. Degli altri tre non si è avuta più notizia: non si sa se siano ancora in balia dei rapitori o se siano stati anch’essi uccisi. Quella dei rapimenti è diventata in Libia quasi un’attività “normale”, quotidiana. Ne può restare vittima chiunque sia ritenuto in grado di pagare un riscatto: i migranti in transito sono l’obiettivo più facile ma sono nel mirino anche i libici, specie delle classi sociali più elevate. Un “business” da milioni di dollari, gestito sia da gruppi jihadisti, come fonte di autofinanziamento, sia da bande criminali, con complici all’interno delle istituzioni. Emblematico un episodio atroce sviluppatosi a Surman, 70 chilometri a ovest di Tripoli, tra il dicembre del 2015 e il maggio del 2016, vittime tre bambini di dieci, otto e sei anni, strappati alla madre mentre li stava accompagnando a scuola. All’indomani del sequestro il padre, un uomo d’affari, ha ricevuto una richiesta di riscatto di 4 milioni di dollari. Le trattative sono andate avanti per cinque mesi, quando la polizia ha catturato due dei rapitori, scoprendo che erano membri non di una banda criminale ma di una delle milizie ausiliarie che si contendono il potere. Di più: uno era consulente della locale Corte di Giustizia. Dei tre bambini non si è più trovata traccia. Nella stessa Tripoli, la capitale, solo nel mese di novembre 2016, sono stati segnalati almeno 8 rapimenti di personaggi libici, sempre a scopo di estorsione. Ma i sequestri alimentano anche il “mercato” dei bambini soldato: lo ha denunciato il rapporto reso noto nel dicembre 2016 dalla missione Onu, che parla di decine di ragazzi, sia libici che migranti, rapiti e reclutati per combattere nelle fila dell’Isis e di altri gruppi jihadisti o tra le milizie armate dei capi tribali, praticamente in tutta la Libia ma in particolare nel distretto di Bengasi ad est e di Sirte nel centro del paese.

La mancanza di sicurezza è assoluta, specie per persone di per sé indifese come i migranti. Né potrebbe essere altrimenti. Il governo di Tripoli, oltre ad avere scarsissimo seguito tra la popolazione ed essere anzi considerato una imposizione straniera, non dispone di una struttura di polizia e di un esercito organizzato su cui contare per esercitare la propria sovranità e un reale controllo del territorio: deve affidarsi a milizie legate a gruppi di potere e capi locali prima e molto di più che all’autorità dello Stato. Milizie spesso in contrasto con formazioni analoghe ma agli ordini di clan e interessi diversi, creando così una situazione di rivalità e tensione costante, che sfocia in frequenti scontri armati o addirittura in vere e proprie battaglie, con l’impiego di blindati, carri armati e artiglieria, come sta avvenendo in queste settimane nella stessa Tripoli per l’egemonia su alcuni quartieri chiave, quali Abu Sleem, nella zona dell’aeroporto internazionale, o il sobborgo orientale di Tajoura, la principale base d’imbarco usata dai trafficanti sulla costa a ridosso della capitale. Il 20 febbraio si è trovato al centro di una sparatoria persino il convoglio su cui viaggiava il presidente Fayez Serraj, attaccato a colpi di mitra nel cuore della città, mentre passava accanto all’hotel Rixos, l’albergo dove ha sede uno dei gruppi di miliziani ribelli che fanno capo all’ex premier islamista Khalifa Ghwel, autore di ben due tentati colpi di stato nell’arco degli ultimi cinque mesi.

E’ il quadro di una situazione totalmente fuori controllo. Uno Stato fallito, con le istituzioni del tutto impotenti ad arginare la deriva verso il caos. Eppure a questo fallimento il Governo italiano ha voluto consegnare la sorte e la vita di migliaia di profughi e richiedenti asilo, attraverso il memorandum sottoscritto il 2 febbraio a Roma, che fa di Tripoli un partner privilegiato, assegnandogli finanziamenti, naviglio e automezzi speciali per il controllo dell’immigrazione verso l’Europa, con il compito di blindare le frontiere terrestri al sud, in pieno deserto, e di bloccare le barche dei “viaggi della speranza” prima ancora che salpino o comunque all’interno delle acque territoriali. Si tratta – d’intesa con la Ue, che ha avallato il patto di Roma nel vertice generale tenuto a Malta 24 ore dopo la firma – dell’ultimo capitolo del programma che, fingendo la Libia un “paese sicuro”, mira a impedire ai migranti persino di giungere a bussare alle porte della Fortezza Europa, confinandoli in Africa, sulla sponda sud del Mediterraneo o, peggio ancora, al di là del Sahara.

Poco importa, evidentemente, che questa barriera – perché di questo si tratta – non tenga minimamente conto della volontà e della libertà di migliaia di disperati, ai quali viene negato di fatto anche il diritto di presentare la richiesta di asilo, in aperta violazione delle convenzioni internazionali e della stessa Costituzione italiana. E poco importa, ancora, che questa scelta, creando le condizioni perché i profughi restino intrappolati in una terra di nessuno come la Libia di oggi, comporti una pesante responsabilità politica e morale per le sofferenze, le torture, le uccisioni che si registrano ogni giorno nei campi di detenzione, ampiamente documentate dall’Onu e dalle più qualificate organizzazioni umanitarie, senza che Tripoli si sia mai dimostrata né in grado, né seriamente intenzionata a intervenire in maniera concreta. Responsabilità estensibili anche a episodi come il massacro scoperto il 5 marzo a Sabratha o la “morte violenta” dei dieci giovani migranti segnalata nel rapporto di febbraio della polizia di Sabha.

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