Profughi, completato il piano di chiusura, espulsione e deportazione

Giornalista, già responsabile delle edizioni regionali e vice capo redattore della cronaca di Roma de Il Messaggero, ha approfondito i problemi dell’immigrazione.
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07 aprile 2017

L’ultimo atto è stato l’accordo “top secret” con circa 60 tribù libiche. Ora il piano di chiusura e respingimento deciso a Roma nei confronti dei profughi è completo. Il primo passo è stato il trattato firmato con la Libia di Fayez Serraj il 2 febbraio: il patto con le tribù ne è il completamento. Il secondo è il decreto del ministro Marco Minniti, che ha ottenuto la fiducia del Senato il 29 marzo. Così la tenaglia è chiusa: blocco in Africa dei migranti entro le acque territoriali libiche oppure prima ancora che si imbarchino o addirittura al confine meridionale, in pieno Sahara e, nello stesso tempo, espulsioni più rapide per quelli che sono riusciti o riusciranno in futuro ad arrivare in Italia, per “consegnarli” a uno qualunque dei paesi africani con i quali si è già raggiunta o si sta raggiungendo una intesa. Ovviamente dietro compenso: milioni di euro mascherati da “contributi allo sviluppo”. La sanzione definitiva si avrà al G-7 di Taormina, in maggio, quando l’Italia rilancerà il Migration Compact, il piano già presentato a Bruxelles nell’aprile 2016 ma rimasto in sospeso, che istituzionalizza il patto “soldi in cambio di uomini” sperimentato con la Turchia.

Il trattato con Tripoli è, in effetti, la fotocopia “ampliata” di quello con Ankara. “Ampliata” perché affonda le radici nell’accordo bilaterale con la Libia varato con il governo Berlusconi ai tempi di Gheddafi (2008/2009) e prorogato con i governi Monti (2012) e Letta (2013). Patti che, oltre a “contributi per lo sviluppo” in denaro come i 6 miliardi dati ad Erdogan, prevedevano grosse forniture di mezzi e materiali. Il 21 marzo scorso a Roma, nell’incontro europeo che ha sancito il trattato del 2 febbraio, sono state promesse a Serraj attrezzature massicce per riorganizzare l’intera Guardia Costiera e la polizia di frontiera. Si tratta di 10 pattugliatori o comunque navi per la ricerca e il soccorso, 10 motovedette, 24 gommoni veloci, 4 elicotteri, 10 ambulanze, 30 jeep, 15 auto fuoristrada, 30 telefoni satellitari Turaya, mute da sub, bombole di ossigeno, binocoli diurni e notturni.

Corsi speciali di addestramento per i marinai dei guardacoste dovrebbero completare la capacità di intercettare i barconi dei migranti entro poche miglia. L’accordo con le circa 60 tribù firmato a Roma il primo aprile mira invece a rendere più capillare il controllo della frontiera a terra con il Sudan, il Ciad e l’Algeria, oltre 5 mila chilometri nel deserto del Fezzan. E’ un patto – secondo il Viminale – che porterà a una pacificazione dell’intera regione, ponendo fine ai contrasti tra i clan, i quali, a loro volta, si sono impegnati a bloccare i migranti. Non è stato specificato come e dove avverrà questo “blocco”: se dopo che i profughi avranno superato il confine o al di là. E, soprattutto, non si sa che fine faranno le donne e gli uomini intercettati: se verranno cioè consegnati agli attuali, terribile centri di detenzione o costretti a tornare indietro, in pieno Sahara, come è già accaduto in passato. Né si sa chi garantirà la loro sicurezza, il rispetto dei diritti e della vita stessa.

E’ trapelato solo che il patto coinvolge alcune delle tribù più forti e autorevoli: i Toubou e gli Awlad Sulaiman, con il sostegno anche dei Tuareg. Solo che i principali clan tribali in Libia sono quasi 140, senza contare i sottogruppi, ciascuno con propri capi, propri interessi e sfere di potere e, naturalmente, proprie milizie. E nessuno sembra aver fatto caso che meno di un anno fa, nel maggio 2016, insieme a dignitari di altre tribù (i Warfalah e i Gaddafah, l’ex clan di Muammar Gheddafi), esponenti di spicco degli Awlad Sulaiman hanno proclamato “la propria affiliazione alla provincia di Tripoli dello Stato Islamico”, fedeli al Califfato di Al Baghdadi, come ha scritto il sito di monitoraggio sull’estremismo islamico ed ha poi rilanciato l’Agenzia Ansa. Secondo alcuni osservatori, come Emanuele Rossi, giornalista, l’Isis avrebbe anzi mostrato un particolare interesse proprio per gli Awlad Sulaiman, perché “controllano le rotte del Fezzan e un loro lasciapassare rappresenterebbe l’apertura di vie di collegamento più consistenti con il Sud, dove si materializzano i contatti tra le province libiche dell’Isis e quelle nigeriane”. E l’Isis, benché abbia perso la città di Sirte, è ancora ben presente e radicato nel sud della Libia.

Ora, è vero che nelle linee di condotta delle tribù libiche contano in primo luogo gli interessi familiari e clanici e che – come ha rilevato Cristiano Tinazzi, reporter freelance esperto di Libia, in una intervista rilasciata nel maggio 2016 a Formiche.net – “la presenza di alcuni notabili tribali a incontri con leader dell’Isis non significa che l’intera tribù abbia giurato fedeltà al califfo”, ma resta pur sempre, questa “presenza”, un fatto di cui bisogna tener conto. Del resto se, come ha spiegato ancora Tinazzi, “gli elders tribali libici hanno la possibilità di portare avanti trattative ma non hanno il potere di prendere decisioni univoche che coinvolgano in toto il clan”, questo potrebbe valere sia per l’accordo con l’Isis che per quello con l’Italia. Tanto più che il traffico di migranti e il giro di sequestri, ricatti e lavoro schiavo che ne è derivato, hanno fruttato finora un business enorme anche per i vari clan etnici. Secondo alcune inchieste giornalistiche, anzi, certe tribù controllerebbero, più o meno direttamente, persino alcuni campi di detenzione e addirittura interi reparti e comandi della stessa Guardia Costiera. Varrà allora di più il patto firmato al Viminale o questo giro d’affari? Forse è il caso di chiederselo.

Infine, il decreto Minniti, passato al Senato il 29 marzo con il voto di fiducia ed ora trasmesso alla Camera. “L’obiettivo strategico – ha affermato il premier Paolo Gentiloni – non è chiudere le nostre porte ma trasformare sempre di più i flussi migratori da fenomeno irregolare a fenomeno regolare, in cui non si mette a rischio la vita ma si arriva in modo sicuro nei nostri Paesi e in misura controllata”. Solo che, a leggere il testo, emerge una estrema determinazione per accelerare le espulsioni ma non si fa quasi parola di vie legali di immigrazione, corridoi umanitari, quote d’ingresso, e via dicendo. I punti cardine sono due: la rivalutazione/riapertura dei contestatissimi Centri di identificazione ed espulsione (Cie) e un percorso giudiziario particolare per le richieste di asilo e i respingimenti.

I Cie – sia pure definiti con una denominazione diversa, Centri di permanenza e rimpatrio (Cpr) – verranno quasi quintuplicati: dai 4/5 attuali si passerà ad almeno 18, uno per regione, con una capienza complessiva di 1.800 posti (una media di 100 ciascuno) e con la possibilità di allungare i tempi di detenzione dagli attuali 90 fino a 135 giorni. “Detenzione” perché di questo in realtà si tratta. Carceri di fatto, dove si viene rinchiusi senza essere accusati di alcun reato e senza il pronunciamento di un magistrato. Come dire, una prigione speciale, dove non sono garantiti, come nei vecchi Cie, neanche i diritti dei detenuti.

E’ del tutto “speciale”, d’altra parte, anche il procedimento giudiziario concordato tra il Viminale e il Ministero della Giustizia. Per le richieste di asilo, infatti, il decreto abolisce la possibilità di ricorrere in appello in caso di diniego, riducendo a due soltanto i gradi di giudizio: quello di prima istanza e la Cassazione. Ecco perché in tanti parlano di “giustizia speciale”. “E’ stato fatto osservare da molti e con ottimi argomenti – ha spiegato Gianfranco Schiavone, avvocato dell’Asgi, in una intervista a Fanpage Italia – che il doppio grado di giudizio non ha una esplicita copertura costituzionale, ma per capire se è una misura legittima ed equa dobbiamo vedere come si inserisce nel complesso dell’ordinamento. E nessuno può obiettare che si tratta dell’unico caso, in tutto l’ordinamento italiano, nel quale, in materia di diritti della persona, non abbiamo un doppio grado di ricorso. Insomma, quello che viene previsto anche per situazioni di controversie civili minime, non ci sarà più nel caso si debba stabilire se una persona è esposta nel suo paese a trattamenti inumani e degradanti”. Ancora più esplicito il senatore Luigi Manconi, che ha scelto di non votare il decreto nonostante l’esecutivo abbia posto la fiducia: “Nel primo grado di giudizio non c’è la regola del contraddittorio, dunque può accadere che il richiedente asilo non incontri mai il suo giudice. Non può andare a esporre le sue ragioni. Il giudice si limita a osservare il materiale videoregistrato e quello scritto in precedenza dalla commissione amministrativa. Poi può anche decidere di sentire il richiedente asilo, ma non è la regola…”. E dopo questo “giudizio senza neanche vedere il giudice”, in caso di respingimento resta solo la Cassazione.

Tutto lascia credere, insomma, che il principio guida che ha ispirato il decreto sia stato unicamente quello di sveltire, a prescindere da tutto, le procedure d’esame, come hanno dichiarato sia il ministro della giustizia Andrea Orlando che quello dell’interno Marco Minniti. Con il risultato di introdurre una anomalia assai probabilmente in contrasto con la stessa Costituzione Repubblicana. Così come a rischio di incostituzionalità potrebbe essere la decisione di istituire nei tribunali 26 sezioni formate da magistrati esperti del fenomeno migratorio e “specializzate” nell’esame dei ricorsi contro il diniego delle richieste di asilo e di quelli contro i provvedimenti di espulsione. Alcuni giuristi hanno già eccepito, infatti, che questa decisione non sarebbe in linea con l’articolo 102, che proibisce qualsiasi sistema di “giudici straordinari e giudici speciali”. Non a caso queste misure, del resto, sono state contestate anche dall’Associazione nazionale magistrati (Anm) e dal Consiglio Superiore della Magistratura, denunciando senza mezzi termini al ministro Orlando il rischio di una “diffusa compressione delle garanzie del richiedente”.

Ma tant’è. Con questi nuovi “strumenti”, in linea con il Processo di Khartoum (novembre 2014) e con i trattati di Malta (novembre 2015), l’Italia sta blindando la rotta del Mediterraneo Centrale, come è già avvenuto per quella del Mediterraneo Occidentale con il Processo di Rabat (2006) e per quella orientale, grazie all’accordo con la Turchia. Senza considerare minimamente la volontà, la libertà, i diritti, spesso la vita stessa di profughi e migranti. Sta sbarrando, cioè, l’ultima porta della Fortezza Europa rimasta aperta. Minniti, secondo quanto riferisce il quotidiano Libya Herald, lo avrebbe detto apertamente, proprio in occasione dell’accordo con le tribù del Fezzan: “Sigillare la frontiera meridionale della Libia significa sigillare la frontiera meridionale dell’Europa”.

Tratto da: Diritti e Frontiere

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