Catturati 500 profughi dalla Guardia Costiera libica. “Violato il diritto internazionale”

Giornalista, già responsabile delle edizioni regionali e vice capo redattore della cronaca di Roma de Il Messaggero, ha approfondito i problemi dell’immigrazione.
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14 maggio 2017
L’obiettivo sembra ormai essere uno soltanto: intrappolare e abbandonare i profughi in Libia o comunque in Africa. A prescindere dalla loro volontà, dalla loro storia, dai loro diritti. Con qualsiasi mezzo e senza curarsi della sorte che li attende in un paese precipitato nel caos di una guerra civile che dura da sei anni. Anche quando sono nella condizione di ottenere l’asilo politico o un’altra forma di protezione internazionale. Che sia questa ormai la politica italiana sull’immigrazione, con il plauso di Bruxelles, lo ha confermato l’intervento della Guardia Costiera libica che ha bloccato al largo e riportato indietro un vecchio barcone con a bordo 493 migranti, impedendo l’operazione di soccorso già iniziata da una nave della Ong tedesca (Sea Watch). Un intervento di forza, che ha rischiato di provocare un grave incidente o addirittura un pauroso naufragio in mare aperto, ma che per il Viminale è stato invece “la dimostrazione che comincia a funzionare l’accordo siglato a febbraio”, a Roma, auspice il ministro Marco Minniti, tra il presidente del Consiglio Paolo Gentiloni e Fayez Serrai, premier del governo-Quisling di Tripoli, insediato dall’Onu ma ritenuto illegittimo dalla maggioranza della popolazione libica. La stesso tono soddisfatto e trionfalista del Viminale lo ha usato il portavoce della marina di Tripoli, il generale Ayoub Qassim, che ha minimizzato l’incidente, prendendone anzi lo spunto per mettere sotto accusa Sea Watch: “La Ong – ha dichiarato al Libya Herald – ha cercato di interferire con la nostra operazione di recupero, tentando di sottrarre i migranti alla Guardia Costiera nonostante il barcone fosse all’interno delle acque territoriali libiche”. La ricostruzione di Sea Watch è tutt’altra. E, a differenza di quella del generale Qassim fatta propria dalle autorità italiane, è sostenuta da elementi di prova sulle fasi preliminari dell’operazione di soccorso e sulla posizione esatta del barcone ma, soprattutto, si basa su un filmato che mostra nei particolari le drammatiche fasi essenziali dell’intervento del guardacoste armato libico. Il barcone, un vecchio peschereccio in legno da cui sono state tolte le infrastrutture di coperta per guadagnare spazio, era partito da Sabratha la mattina del 10 maggio, molto probabilmente prima dell’alba. Quando la Sea Watch 2, la seconda unità della Ong tedesca, lo ha intercettato, secondo i calcoli del comandante Ruben Lampart era a 20 miglia dalla costa, ovvero fuori e non – come ha dichiarato il generale Qassim – all’interno delle acque territoriali, che arrivano fino a 12 miglia. Era cioè nella cosiddetta “zona contigua”, una fascia compresa tra le 12 e le 24 miglia, che fa parte a tutti gli effetti delle acque internazionali. Lo stesso Lampart, come primo atto, si è messo in contatto con il Coordinamento della Guardia Costiera italiana a Roma, segnalando la sua posizione precisa e avvertendo che si apprestava alle operazioni di salvataggio. “Da Roma – ha riferito il portavoce della Ong, Ruben Neugebauer – hanno risposto che il comando dell’intervento sarebbe stato assunto dalla Guardia Costiera libica e allora la nostra nave si è fermata in attesa di ulteriori istruzioni”. Il barcone, infatti, era stato notato anche da un aereo da ricognizione e alla centrale di soccorso italiana si era deciso di affidarsi alle motovedette libiche. “Per obbligare gli scafisti a fare marcia indietro”, ha scritto il Corriere della Sera. Senza pensare minimamente alla sorte dei migranti, costretti in questo modo a tornare in Libia contro la loro volontà. La Sea Watch 2 stava ancora controllando a distanza il peschereccio, con i motori a bassa forza, quando è arrivata a tutta velocità una motovedetta libica, contrassegnata dal numero 206, che le ha tagliato la rotta, sfiorandone la prua e rischiando una collisione disastrosa: la scena è documentata da una breve ma significativa ripresa televisiva che la Ong si è premurata di mettere in rete sul web. “Il comandante di quella motovedetta – ha denunciato il capitano Ruben Lampart – sembrava non aver idea di cosa stesse facendo. Ha messo in grave pericolo la mia e la sua stessa nave. Ci è passato vicinissimo e siamo stati fortunati che non ci sia stata una collisione”. “È stata una manovra spericolata – ha aggiunto il capo missione di Sea Watch, Reiner Boere – che ha esposto a un grave pericolo non solo la vita del nostro equipaggio ma anche quella di centinaia di migranti. Non è la prima volta che la marina libica interviene in maniera spregiudicata durante le operazioni di soccorso: il 21 ottobre 2016, ad esempio, sono annegate decine di persone a causa di un abbordaggio condotto dalla Guardia Costiera. Il loro obiettivo, nonostante fossimo in acque internazionali, era evidentemente quello di riportare in Libia quei migranti. Ma questa decisione è illegale per almeno due motivi. Prima di tutto perché, in base al diritto internazionale, i migranti intercettati in mare devono essere accompagnati nel più vicino porto ‘sicuro’. E la Libia, dove è in corso in pratica una guerra civile, non è certamente un paese sicuro, al punto che la stessa Germania non vi ha una rappresentanza diplomatica e anche gran parte delle Ong si sono ritirate. In secondo luogo, il rientro forzato del barcone carico di migranti viola il divieto dei respingimenti di massa indiscriminati sancito dalle leggi internazionali”. Ma chi c’era a bordo di quel barcone? Secondo il rapporto del generale Qassim, la maggior parte erano nordafricani. In particolare, quasi 300 marocchini, poi 145 bangladesi, 23 tunisini e il resto subsahariani o siriani. Colpisce in particolare la storia di una giovane donna siriana, intervistata dall’agenzia Reuters: per arrivare fino in Libia a cercare un imbarco, ha viaggiato attraverso sei paesi, sei frontiere da varcare pagando ogni volta almeno mille dollari. All’inizio della fuga erano con lei anche i suoi due bambini, di 12 e 13 anni. “Dopo essere scappata con loro dalla Siria – ha detto – ho dovuto lasciarli in Giordania da alcuni familiari. Io speravo di poter raggiungere l’Europa per potermi ricostruire una vita e riunire la mia famiglia. Sfortunatamente non ci sono riuscita…”. Ecco, questa giovane mamma avrebbe certamente ottenuto in Europa una forma di protezione ma le è stato impedito con la violenza: è stata respinta, scacciata indietro, prima ancora di poter chiedere aiuto. Ora è stata portata in un centro di detenzione: l’unica speranza è che possa trovare ascolto presso l’Unhcr o l’Oim. Un altro di quei 493 migranti, un marocchino di 28 anni, ha raccontato di essere arrivato in Libia per lavoro quattro anni fa. È rimasto finché ha potuto, poi il caos in cui è precipito il paese e la situazione di estremo pericolo che si è creata lo hanno indotto ad andarsene. Si potrebbe obiettare che, anziché puntare sull’Europa, sarebbe potuto tornare in Marocco, “dove non c’è la guerra”. Lo stesso vale per tutti gli altri numerosi marocchini che erano su quel barcone. Ma anche in Marocco, in realtà, ci sono pesanti situazioni di tensione: nel sud, ad esempio, si trascina da anni la lotta del popolo saharawi per l’indipendenza, che ha portato alla militarizzazione di una intera regione e che sfocia non di rado in scontri armati. E guerra o no, in ogni caso, c’è stato un respingimento di massa quando invece la Convenzione di Ginevra e il diritto internazionale impongono di ascoltare una per una le storie dei richiedenti asilo, con istruttorie individuali, a prescindere dal paese d’origine o di provenienza. Eppure, tant’è. Per l’Italia evidentemente va bene così, pur avendo già subito una pesante condanna proprio per aver adottato, con il pacchetto sicurezza voluto a suo tempo dal governo Berlusconi, una politica di respingimenti indiscriminato in mare. L’unica differenza è che ora questo lavoro sporco di bloccare nel Mediterraneo e intrappolare in Africa i migranti lo svolgono, materialmente, la marina e la polizia libiche, su incarico e per conto di Roma e di Bruxelles. Sea Watch non manca di sollevare questo aspetto del problema: “Occorre verificare – denuncia a proposito della sorte dei 500 migranti riportati in Libia – se e in che misura le autorità europee siano coinvolte in questa azione di respingimento. Chiediamo trasparenza, inoltre, sulla preparazione della Guardia Costiera libica in relazione al diritto internazionale e alla legge del mare. L’alto commissario europeo per la politica estera e la sicurezza, Federica Mogherini, dovrebbe pretendere il pieno rispetto dei diritti fondamentali su cui si basa l’Europa e schierarsi contro questi respingimenti che, appunto, violano sia il diritto internazionale sia la legge del mare”. Ecco, i diritti che sono il fondamento stesso dell’Unione Europea. Insieme alla vita e alla sorte dei migranti, c’è proprio questo in gioco: il rischio di smantellare i principi su cui si basa la nostra democrazia. I valori del nostro “stare insieme”.

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