Libia. Altolà di Haftar al memorandum di Roma e nuova denuncia Oim sul mercato degli schiavi

Giornalista, già responsabile delle edizioni regionali e vice capo redattore della cronaca di Roma de Il Messaggero, ha approfondito i problemi dell’immigrazione.
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20 maggio 2017
A ben vedere, ha tutta l’aria di un pesante altolà. Nei confronti della politica italiana ed europea in Libia. A lanciarlo è stato il generale Khalifa Haftar, l’attuale “uomo forte” della Libia, capo dell’esercito nazionale e sostenuto dal Parlamento di Tobruk. L’occasione gliel’ha offerta l’incontro che ha avuto ad Abu Dabhi, negli Emirati, con Fayez Serraj, il leader del governo di Tripoli insediato dall’Onu e riconosciuto da tutte le cancellerie occidentali, ma considerato illegittimo dalla maggioranza della popolazione libica. Al termine del faccia a faccia, il primo tra i due, Haftar ha costretto Serraj ad accettare tre punti chiave: la Libia non deve diventare a nessuna condizione un grande hub dove bloccare i migranti diretti verso l’Italia e dare così una risposta alla crisi dell’immigrazione, che è invece un problema prima di tutto europeo; non vanno tollerate interferenze di alcun genere nella politica per la sicurezza e la difesa; va respinto ogni pur minimo tentativo, da parte di altri Stati, di entrare nelle acque territoriali. Eccolo, allora, l’altolà all’Italia e, di riflesso, all’Europa: sulla base di questi tre punti crollano almeno due aspetti fondamentali del memorandum firmato tra Roma e Tripoli il 2 febbraio scorso: quello che, in buona sostanza, prevede di fermare in Libia i profughi e i migranti prima dell’imbarco, concentrandoli eventualmente in centri di accoglienza posti sotto il controllo dell’Unhcr e dell’Oim, in attesa di varare una operazione analoga in Niger; e poi – secondo aspetto – la regia della Guardia Costiera italiana anche per le operazioni condotte nel Mediterraneo dalla Guardia Costiera libica, attrezzata con le 10 motovedette che il Viminale sta consegnando a Tripoli insieme a elicotteri, blindati, fuoristrada ed altro materiale per i controlli a terra. Il primo esempio di questa nuova strategia in mare concertata tra Roma e Tripoli si è avuto il 10 maggio, quando proprio la centrale operativa in Italia ha allertato e coordinato l’intervento della motovedetta libica che ha quasi speronato la nave umanitaria di Sea Watch in procinto di prestare soccorso a un barcone con 500 migranti. Probabilmente non a caso, quattro giorni dopo, una motovedetta partita da Tobruk ha sequestrato in acque internazionali, 25 miglia dalla costa, un peschereccio italiano, il Ghibli di Mazara del Vallo, costringendolo a fare rotta verso l’Africa, fino al porto di Ras al Hilal. Si è risolto tutto nel giro di 48 ore, ma il messaggio all’Italia e all’Europa appare chiaro: il governo di Tripoli non rappresenta la Libia e i patti che sottoscrive non hanno alcun valore. Ovvero: anche se l’Europa non la riconosce, la Libia “vera” è un’altra, con un suo governo e potenti forze armate, di terra e di mare, con cui bisogna fare i conti. Non solo. Meno di due settimane dopo il confronto di Abu Dabhi e all’indomani di un nuovo incontro in Libia tra il ministro dell’interno Marco Minniti e il premier Serraj per la consegna di 4 motovedette, Haftar, prendendo a pretesto il terzo anniversario dell’operazione militare che lo ha portato a controllare gran parte del Paese, ha reiterato la minaccia di attaccare e occupare Tripoli: “Non possiamo consentire che la nostra capitale resti un rifugio sicuro per i terroristi: il nostro popolo si fermerà solo quando la sua capitale sarà restituita alla patria”, ha detto, come riferisce il Libya Observer. Lasciando intendere, evidentemente, che la “patria vera” è rappresentata da Tobruk e non dal Governo di Alleanza Nazionale (Gna) guidato da Serraj, accusato di essere un esecutivo fantoccio, imposto dalle cancellerie occidentali. Un’accusa largamente condivisa nel Paese. E' eloquente, ad esempio, l’intervista rilasciata a un giornale londinese da Abdul Basil Al Badri, ambasciatore di Tobruk in Arabia Saudita, il quale – come riporta sempre il Libya Observer – non solo ha criticato il ruolo dell’Italia, asserendo che sta tentando di imporre un proprio governo alla Libia, ma ha sparato a zero contro il generale Paolo Serra, capo della missione militare dell’Onu in Libia, dipingendolo addirittura come una sorta di “nipote del generale Graziani”, il comandante delle operazioni di riconquista della Cirenaica durante il fascismo, al quale vengono imputati migliaia di morti innocenti e, in particolare, l’impiccagione di Omar Al Muktar, il leader senusso della resistenza libica, venerato nel paese come uno dei più grandi eroi nazionali. Un’accusa magari iperbolica ma che sottintende come il ruolo che sta giocando l’Italia venga percepito o comunque presentato quale una presenza neocoloniale. E un giudizio identico, sulla politica di Roma, è stato espresso anche dal terzo protagonista politico della Libia attuale, Khalifa Ghwell, il leader del deposto governo islamico di Tripoli, che ha ancora un vasto seguito in Tripolitania e non perde occasione per presentarsi come l’esponente dell’unico esecutivo legittimo del paese. Se si aggiunge che il memorandum di Roma è stato ritenuto nullo dalla Corte di Tripoli perché firmato da un governo definito “illegittimo” e dunque privo dei poteri necessari per sottoscrivere accordi internazionali e che il patto sull’immigrazione voluto dal Viminale con alcune tribù beduine e tuareg è stato rigettato dall’assemblea proprio di una delle tribù principali, i Tebu, il quadro appare tutt’altro che incoraggiante. Ma di tutti questi siluri che continuano ad arrivare dalla Libia a quanto pare a Roma non si parla né tanto meno si tiene conto. Il Governo procede spedito nelle sue scelte e tutto lascia credere che voglia fare della Libia e del problema immigrazione nel Mediterraneo uno dei temi centrali del G-7 previsto a Taormina nell’ultimo week end di maggio, esattamente nella visione e con gli obiettivi dell’accordo sottoscritto con Serraj e formalmente sostenuto anche dall’Europa. Non per niente nei giorni scorsi, sull’esempio di quanto ha ottenuto dall’Italia, Tripoli ha sollecitato all’intera Unione Europea la fornitura di mezzi navali armati ed elicotteri, sempre con il pretesto di rafforzare la vigilanza in mare e contrastare l’immigrazione illegale nel Canale di Sicilia. Una fornitura enorme: secondo l’emittente tedesca Ard – ha riferito l’agenzia Associated Press – ammonterebbe a ben 130 tra battelli veloci, motoscafi e naviglio minore. Non risulta finora che il Consiglio europeo abbia rigettato la richiesta. È come se, in Europa, ci fosse insomma una sorta di “corsa alla Libia”. A prescindere dal caos in cui è sprofondato il paese. Un caos che trova continue conferme. Si è parlato a lungo della battaglia per la liberazione di Sirte dall’Isis. Dopo mesi di durissimi combattimenti le milizie jihadiste hanno lasciato la città ma non sono state sconfitte: si sono attestate nel deserto una cinquantina di chilometri più a sud, in contatto con i gruppi che operano nel Sahel del Mali e del Niger. Dalla caduta di Gheddafi in poi, inoltre, non sono mai terminati gli scontri tra le varie milizie tribali per il controllo del territorio e di tutta una serie di interessi, incluso il traffico di esseri umani e il contrabbando di petrolio. Si contano centinaia di morti: a Tarhouna, nel Gebel Nafuda orientale, circa 40 chilometri dalla costa, in un solo giorno, verso la fine di aprile, si sono avute 15 vittime, tra cui tre bambini. Ancora, Sabha, la capitale del Fezzan, è sotto attacco da mesi da parte delle truppe di Haftar, per la supremazia nel Sud: i bombardamenti non hanno risparmiato neanche l’ospedale. Sanguinosi combattimenti pressoché quotidiani si registrano nella stessa Tripoli, a Misurata, a Bengasi. Di fronte a questa situazione, come riferisce l’agenzia Reuters, il ministro degli esteri tedesco, Sigmar Gabriel, contraddicendo la posizione ufficiale del suo stesso Governo, ha dichiarato che un accordo che preveda campi per migranti in Libia “ignora la catastrofe del paese” e non porrà un freno al fenomeno dell’immigrazione. “Nei campi già esistenti – ha aggiunto – ci sono condizioni durissime, orribili. L’idea di organizzarne altri significa ignorare totalmente la realtà”. Appare evidente il riferimento ai maltrattamenti, ai soprusi, alle torture, gli stupri, la riduzione in schiavitù, le uccisioni denunciate da Ong come Amnesty, Human Rights Watch, Medici Senza Frontiere o dai dossier delle stesse Nazioni Unite, ma ignorate di fatto dalla politica che ha portato alla firma del memorandum tra Roma e Tripoli, con l’avallo dell’Unione Europea. A rafforzare questa pesante contestazione del ministro Sigmar Gabriel è intervenuta dieci giorni dopo l’Organizzazione mondiale per l’immigrazione, che ha rilanciato la denuncia fatta meno di due mesi fa sull’esistenza di un vero e proprio mercato degli schiavi a Sabha, nel Fezzan, condotto direttamente in piazza, alla luce del sole, senza che nessuno intervenga. “Centinaia di migranti – rileva ancora una volta l’Oim – vengono catturati e venduti”. Ne sono vittime centinaia di giovani provenienti dalla Nigeria, dal Ghana, dal Gambia, dal Senegal ed altri paesi subsahariani, sottoposti peraltro ad ogni genere di violenze dai loro aguzzini prima di essere messi all’asta. Le organizzazioni che gestiscono questo traffico agiscono sia in Libia che in Niger, con base ad Agadez, la città del Sahel diventata uno dei principali hub di transito dei migranti verso il Fezzan. Funzionari dell’Oim hanno raccolto decine di testimonianze a supporto del loro dossier. Un giovane senegalese, ad esempio, ha raccontato che dopo aver pagato 320 dollari per superare la frontiera libica partendo da Agadez, una volta arrivato a Sabha l’autista del pick-up con cui aveva attraversato il Sahara lo ha sequestrato e consegnato ai mercanti di schiavi, insieme a numerosi altri migranti, col pretesto che non era stato pagato per il trasporto. L’organizzazione sarebbe gestita da clan libici, con il supporto di complici nigeriani e ghaniani. Il rapporto è stato inviato dall’Oim alla Corte Internazionale di Giustizia, che sta ora esaminando la possibilità di aprire un’inchiesta. Nessuna reazione da parte dell’Unione Europea e delle cancellerie dei singoli Stati membri, a cominciare dall’Italia. Anzi, proprio nei giorni in cui il Libyan Express ha dato notizia di questo secondo rapporto dell’Oim e dell’interessamento della Corte dell’Aia, il ministro Minniti è volato a Tripoli per portare a sei le motovedette donate dall’Italia alla Guardia Costiera libica e ribadire l’impegno che la flotta di dieci promessa verrà completata entro giugno. Tratto da: Diritti e Frontiere

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