Gendarmi anti-immigrazione nel Mediterraneo, con il mitra facile

Giornalista, già responsabile delle edizioni regionali e vice capo redattore della cronaca di Roma de Il Messaggero, ha approfondito i problemi dell’immigrazione.
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25 maggio 2017
Il 10 maggio la nave Sea Watch è stata quasi speronata da una motovedetta libica, mentre si accingeva a soccorrere un barcone con 493 migranti, a circa 20 miglia dalla costa, in acque internazionali. Due settimane dopo, il 23 maggio, uomini armati in divisa hanno scatenato il panico, a raffiche di mitra, mentre erano in corso le operazioni per recuperare diversi battelli, sempre in acque internazionali: molti profughi si sono gettati in mare per sottrarsi alle minacce, mentre due gommoni sono stati assaltati, catturati e fatti rientrare di forza in Libia, contro la volontà delle circa 300 persone che erano a bordo e contro il più elementare rispetto delle leggi internazionali e dei diritti umani. È così che la Marina di Tripoli – addestrata, equipaggiata, rifornita di nuove motovedette e armata dall’Italia – intende svolgere, evidentemente, il ruolo di gendarme dell’immigrazione nel Mediterraneo che l’Europa le ha di fatto assegnato. Senza curarsi se mette a grave rischio la vita dei soccorritori e quella dei migranti che dovrebbe salvare. Il generale Ayoub Qassim, portavoce della Guardia Costiera libica, ha negato che i suoi uomini abbiano fatto uso delle armi. Aveva negato tutto anche a proposito dello speronamento sfiorato ai danni della Sea Watch, asserendo tra l’altro che l’incidente si era verificato all’interno delle acque territoriali libiche. Gli è andata male la prima volta, smentito dalle prove fotografiche e dalle coordinate del “punto mare” pubblicate dalla Ong. Gli va anche peggio per la sparatoria, perché i testimoni dei fatti del 23 maggio sono di più. Il primo a dare la notizia è stato l’equipaggio della nave Juventa, della Ong tedesca Jugend Rettet: prima con una serie di tweet quasi minuto per minuto, corredati da foto nelle quali si vede un militare con il mitra spianato su un gommone appena bloccato; e poi con un rapporto del capitano dell’unità e dei responsabili della Ong. “La nostra unità – denuncia Jugend Rettet – stava partecipando, insieme ad altre navi, a una operazione di salvataggio di 14 barche di rifugiati a circa 14 miglia nautiche dalla costa, in acque internazionali. Sono intervenuti anche numerosi motoscafi con i simboli della Guardia Costiera libica e con uomini dell’equipaggio armati, che hanno sparato inizialmente verso una barca da pesca in legno e poi verso altre imbarcazioni dei migranti. Questi equipaggi armati sono riusciti a impossessarsi di due battelli carichi di migranti, che sono poi stati ricondotti nelle acque libiche”. Ancora più esplicito il racconto diretto del capitano della Juventa, il comandante Jonas: “Diverse barche della Guardia Costiera libica hanno condotto un’azione di disturbo durante il nostro intervento di soccorso. Il mio equipaggio mi ha informato che alcuni libici hanno iniziato a picchiare e a sparare, una volta saliti sulle imbarcazioni dei rifugiati. Circa cento persone, prese dal panico, si sono gettate in acqua, ma fortunatamente indossavano tutte il giubbotto di salvataggio che avevamo fornito loro pochi minuti prima. Le due barche sono state riportate in Libia. Anche per noi la situazione è stata estremamente dura: noi siamo in mare per salvare le persone in fuga, ma siamo stati costretti a restare fermi per paura di essere colpiti”. Quasi contemporaneamente al rapporto della Jugend Rettet è arrivato quello di Medici Senza Frontiere e Sos Mediterranee, a loro volta presenti con la nave Aquarius in quel tratto di mare affollato di battelli da soccorrere. “Si è avvicinata un’imbarcazione armata della Guardia Costiera libica – racconta Annemarie Loof, di Msf – Due marinai, in uniforme e armati, sono saliti su uno dei gommoni. Hanno preso i telefoni, i soldi, altri oggetti che le persone portavano con sé. Tutti a bordo si sono sentiti minacciati, terrorizzati dal comportamento aggressivo dei guardacoste. Si è scatenato il panico e molti migranti si sono buttati in mare, spinti dalla paura. Le nostre equipe ne hanno recuperati 67, mentre venivano sparati in aria colpi di arma da fuoco. E’ un miracolo che nessuno sia annegato o sia rimasto ferito”. Nonostante il caos e la paura, alla fine Medici Senza Frontiere e Sos Mediterranee sono riusciti a portare in salvo, a bordo della nave Aquarius, 1.004 tra uomini, donne e bambini, incluso un piccolino di appena due settimane. Tra quelli che si erano gettati in mare dopo i primi spari c’è anche un giovane proveniente dal Gambia. Il suo racconto agli operatori di Sos Mediterranee è più che eloquente: “Quando i libici ci hanno puntato le armi contro, chiedendoci di consegnare tutti i nostri soldi e i cellulari e intimandoci di saltare in acqua, abbiamo subito obbedito: molti di noi si sono buttati. Io non avevo paura: preferivo morire in mare piuttosto che in Libia”. Se non la morte, certamente un lungo, terribile periodo di prigionia attende ora i circa 300 migranti catturati sui due gommoni costretti a rientrare in Libia: sbarcati nel porto di Zawija, sono stati fermati come “migranti illegali” e consegnati al centro di Al Nasr. Uno dei tanti “campi per immigrati” esistenti in Libia, messi sotto accusa anche in questi giorni, per le durissime condizioni di vita e di trattamento, dai rapporti dell’Unhcr e dell’Oim. Secondo quanto riferisce Al Jazeera, Filippo Grandi, che ha guidato l’ispezione della missione Onu conclusasi la scorsa settimana, appena rientrato a Ginevra non ha usato mezze parole: “Sono scioccato per come i rifugiati e i migranti vengono detenuti. Bambini, donne e uomini che hanno già sofferto così tanto non dovrebbero essere sottoposti ad altre, pesanti sofferenze”. Parole dure che nascono da una situazione altrettanto dura ma che non hanno trovato grande eco in Italia e in Europa. C’è da sospettare che evidentemente va bene così, purché la Libia svolga sino in fondo il ruolo di “gendarme dell’immigrazione”, anche se, tra l’altro, non ha mai firmato la Convenzione di Ginevra sui diritti dei rifugiati. Probabilmente per lo stesso motivo non sembra suscitare reazioni il comportamento a dir poco aggressivo della Guardia Costiera libica. Medici Senza Frontiere non ha mancato di lanciare una sfida su questo punto a Roma e a Bruxelles, dopo la sparatoria del 23 maggio: “Sapere che la Guardia Costiera libica ha ricevuto formazione e supporto dall’Unione Europea rende l’incidente ancora più detestabile – ha dichiarato Annemarie Loof – Crediamo che le autorità italiane ed europee non dovrebbero fornire questo supporto, né direttamente né indirettamente. Questo supporto sta mettendo ancora più in pericolo la vita delle persone”. Federica Mogherini, commissario Ue per la politica estera, di fronte ai rapporti delle Ong, si è limitata a dire – come riferisce Il Fatto Quotidiano – di “non avere informazioni dirette” su quanto è accaduto ed ha aggiunto che Bruxelles ha sempre raccomandato alla Guardia Costiera libica “di attenersi ai più alti standard di rispetto dei diritti umani”, senza specificare, però, chi e come deve vigilare e assicurarsi, nel caos della Libia, che questo “rispetto” venga davvero garantito e come intervenire in caso contrario. Quanto al Governo italiano, silenzio completo. Il ministro Minniti è appena stato in Libia per confermare che le ultime 4 delle 10 motovedette promesse verranno consegnate entro giugno e subito dopo ha firmato al Viminale altri patti bilaterali con il Ciad e con il Niger per fermare i profughi prima ancora che entrino in Libia, in pieno deserto, lungo i 5 mila chilometri del confine meridionale, da sbarrare con i mezzi forniti dall’Italia, come prevede il memorandum sottoscritto a Roma, il 2 febbraio scorso, dal premier Paolo Gentiloni e dal capo del governo di Tripoli, Fayez Serraj: blindati, fuoristrada, elicotteri, sistemi radar e sensori elettronici, binocoli notturni. È un altro passo verso l’attuazione piena del Processo di Khartoum, il programma per il controllo dell’immigrazione nel versante orientale dell’Africa, fotocopia del Processo di Rabat in vigore dal 2006 per l’Africa occidentale, che ad esempio sta bloccando da alcune settimane, nella terra di nessuno tra Algeria e Marocco, abbandonati da tutti e nel silenzio generale, oltre 40 profughi siriani. È una tortura legata alla militarizzazione delle frontiere che si ripete sempre più spesso, proprio in virtù degli accordi sottoscritti dall’Europa con numerosi Stati africani per esternalizzare i suoi confini il più a sud possibile. Nel recente passato hanno subito la stessa sorte di quei 40 siriani, sempre tra l’Algeria e il Marocco, 47 profughi in gran parte subsahariani, ed altri gruppi più piccoli, quasi sempre con bambini, donne, talvolta malati. A terra, in pieno deserto, queste tragedie si svolgono senza testimoni: solo raramente se ne ha notizia. In mare, gli equipaggi delle Ong raccontano nei minimi dettagli quello che vedono tutti i giorni e che sentono dalle testimonianze dei migranti tratti in salvo. Sono diventati, cioè, questi equipaggi, gli occhi e gli orecchi per sapere cosa accade non solo nel Mediterraneo ma anche in Libia, in Egitto, in Sudan… In Africa. Un ruolo importante come quello del salvataggio di migliaia di vite umane. Forse proprio per questo le Ong sono state messe sotto accusa da certa “politica” e si cerca di allontanarle. Magari anche con l’aiuto della Guardia Costiera libica.

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