Navi militari italiane per innalzare un altro muro anti migranti in Libia

Giornalista, già responsabile delle edizioni regionali e vice capo redattore della cronaca di Roma de Il Messaggero, ha approfondito i problemi dell’immigrazione.
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28 luglio 2017
“Stiamo valutando un sostegno tecnico alla Libia con nostre unità navali, in acque libiche, contro il traffico di esseri umani. La richiesta formulata dal presidente Fayez Serraj è ora all’esame del nostro ministero della difesa”: lo ha dichiarato il premier Paolo Gentiloni all’indomani dell’incontro organizzato in Francia dal presidente Macron tra lo stesso Serraj e il generale Khalifa Aftar, capo dell’esercito di Tobruk, quasi a rilanciare il ruolo di Roma a Tripoli, “oscurato” dalla mossa a sorpresa di Parigi. In sostanza, torna l’opzione militare prospettata già oltre due anni fa. Secondo quanto scrive Cristiana Mangani su Il Messaggero, infatti, è previsto l’impiego di droni, almeno sei navi e mille soldati. Una grossa task force che, secondo le dichiarazioni ufficiali, dovrebbe occuparsi della “lotta ai trafficanti” ma che, in realtà, rischia di servire solo a controllare i flussi dei migranti, bloccandoli prima che lascino le acque territoriali africane. Come strategia non è neanche una novità. E’ nata con questo tipo di mandato anche l’operazione Triton. Ma – come è stato già rilevato più volte quando si è prospettato un intervento militare in mare per combattere il mercato di esseri umani – intercettare, fermare e controllare i gommoni che arrancano nel Mediterraneo verso le coste europee, non muove una virgola nella lotta contro i clan criminali che organizzano queste lucrose, spesso mortali spedizioni di disperati. A bordo, al massimo, si trova qualche scafista. L’ultimo anello della catena del malaffare. Anzi, talvolta non si tratta nemmeno di “manovalanza” organica ai clan, ma di giovani migranti che si prestano a pilotare occasionalmente quel solo battello per pagarsi la traversata o addirittura costretti dai trafficanti a mettersi al timone al momento dell’imbarco. Arrestarli e processarli non scalfisce la struttura reale del traffico e meno che mai i vertici e i grossi interessi che ci sono dietro. In compenso, i migranti vengono fermati e costretti a rientrare verso le coste africane. Riconsegnati alle terribili realtà da cui sono fuggiti. Si profila, in altri termini, non un progetto efficace contro il “contrabbando di uomini” ma una manovra che servirà soltanto a perpetuare ed anzi a potenziare la politica delle barriere nel Mediterraneo. Con un’unica differenza: questa volta il “muro” verrà eretto direttamente nelle acque libiche, rendendo più rapidi e facili i rientri forzati verso l’Africa e soffocando sul nascere la speranza di libertà e di futuro di migliaia di giovani. C’è da credere che proprio questo sia il vero obiettivo: mettere in condizione Serraj di bloccare i migranti ad ogni costo, perché non arrivino più in Europa, a prescindere dalla loro volontà, dai loro diritti, dalla sorte che li attende una volta riportati in Libia. Ma tant’è: il premier Gentiloni ha manifestato ottimismo e soddisfazione parlando di questa nuova opzione militare ed ha raccolto consensi tra quasi tutte le forze politiche presenti in Parlamento. Senza tener conto che si pongono almeno tre grossi problemi. Il primo è che si profilano dei respingimenti di massa indiscriminati, in contrasto con il diritto internazionale e la Convenzione di Ginevra. Respingimenti effettuati con la forza, in mare aperto, identici a quelli che sono già costati all’Italia diverse condanne da parte della Corte Europea per i Diritti Umani. La sentenza più clamorosa è quella pronunciata nel febbraio 2012, quando a Strasburgo è stata messa sotto accusa e bocciata la politica varata, d’intesa con Gheddafi, dall’allora “capo” del Viminale Roberto Maroni. I giudici presero spunto dai profughi di un barcone intercettati nel Canale di Sicilia e riportati in Libia da una nave italiana, senza essere neanche identificati e in contrasto con le procedure che prevedono di esaminare le domande di asilo una per una, ascoltando e ricostruendo la storia personale di ciascun richiedente. L’abuso – stabilì la Corte – era più che evidente. Ecco: ora il Governo Gentiloni sta copiando e ampliando proprio questa politica. Magari cercando degli escamotage formali per evitare altre condanne. Ma la sostanza non cambia: adottare sotto qualsiasi forma respingimenti di massa implica una violazione del diritto, con pesanti responsabilità morali, politiche e giuridiche. Il secondo problema riguarda la presenza stessa di navi da guerra e di militari italiani nelle acque libiche. E’ vero che c’è una richiesta del capo del governo di Tripoli, Fayez Serraj. Ma Serraj non è la Libia. Anzi, probabilmente, nonostante sia sostenuto dall’Onu e dalla comunità occidentale, è l’anello più debole del sistema di potere che gestisce il paese. Contro “ingerenze straniere” di questo genere si sono sempre espressi sia il capo dell’ex governo islamico di Tripoli, Khalifa Ghwell, destituito ma tutt’altro che finito, e soprattutto il generale Khalifa Haftar, il vero uomo forte della situazione. L’ultima presa di posizione in proposito, da parte di Haftar, risale ad appena due mesi fa. E non si tratta di una semplice dichiarazione: è un punto fermo “inderogabile”, imposto a Serraj nell’incontro che, con risultati molto più precisi e concreti di quello appena concluso a Parigi, si è tenuto nel maggio scorso ad Abu Dhabi. Mal si concilia, infatti, l’accesso della Marina italiana nelle acque libiche con il rigetto di ogni interferenza da parte di altre “potenze” nei programmi di sicurezza e difesa, che fa parte delle cinque prescrizioni finali del confronto, insieme alla convocazione delle elezioni presidenziali nel marzo 2018; la formazione di un nuovo Consiglio di Presidenza nel quale dovrebbero entrare il presidente del Parlamento, l’House of Representatives, di Tobruk e lo stesso Haftar; lo scioglimento di tutte le milizie; il rifiuto di accettare insediamenti e campi di migranti in Libia. Il terzo “punto” nasce proprio da quest’ultima prescrizione. I migranti bloccati a poche miglia dalla costa verranno ovviamente riportati in Libia. In Libia però non li vogliono. Haftar e Ghwell lo dicono da sempre: la Libia non intende diventare, di fatto o ufficialmente, un grande hub per i disperati di mezza Africa o del Medio Oriente solo perché lo chiede l’Europa. Su questo punto, anzi, fino a poche settimane fa, ha mostrato i muscoli persino Serraj, dichiarando in più occasioni che l’immigrazione attraverso il Mediterraneo è innanzi tutto un problema dell’Europa e che l’Europa non può scaricarlo sull’Africa né tantomeno sulla sola Libia. Una volta ricondotti di forza a terra, dunque, quale destino sarà riservato ai migranti? La politica italiana ed europea lascia intendere la possibilità di organizzare una serie di “hub dorati”, magari sotto l’egida dell’Unhcr. Non si capisce però, nell’attuale caos libico, chi possa garantire, in questi grandi centri di raccolta, sicurezza, vita dignitosa, rispetto dei diritti. A meno che non si pensi all’invio di truppe a terra, come presidio. Ma nessuno dei tre attuali governi libici è disposto ad accettare soldati stranieri nel paese. Ghwell e diversi alti quadri dell’esercito hanno definito una invasione di tipo coloniale persino la presenza dei 200 parà della Folgore inviati come scorta dell’ospedale militare aperto dall’Italia presso Misurata. Ne consegue che, al di là delle dichiarazioni ufficiali, la destinazione dei migranti continuerà ad essere quella dei lager più volte denunciati dai rapporti dell’Onu e di numerose Ong, oppure la deportazione oltre il confine del Sahara, verso eventuali grandi, incontrollabili hub, soprattutto in Niger o in altri Stati subsahariani o del Nord Africa. Il governo tunisino e quello algerino, tuttavia, hanno già lasciato capire che sono contrari ed anzi stanno smantellando diversi campi profughi nel Sud, alcuni dei quali già abbandonati dall’Unhcr ormai da tempo. L’ultimo caso, in Tunisia, è quello del centro rifugiati di Choucha, poco lontano dal confine libico, gestito dall’Unhcr fino al 2013 e chiuso definitivamente alla fine di giugno con l’intervento dell’esercito. Sul fronte del rifiuto è schierato anche il Marocco. Le dichiarazioni dell’ambasciatore Hassan Abouyoub sono eloquenti: “Istituire campi profughi in Nord Africa è inaccettabile… Parcheggiare esseri umani non è accettabile. Non voglio dare lezioni all’Europa, ma la risposta di sicurezza ai flussi migratori non è idonea e non ha prodotto risultati”. “Qualsiasi Paese – ha aggiunto il diplomatico – non è in grado di affrontare da solo il fenomeno delle migrazioni. Occorre un approccio collettivo di solidarietà e di responsabilità condivisa”. E allora? Allora anche questa strategia di inviare navi militari italiane nelle acque libiche appare un tentativo “securitario” di alzare l’ennesimo muro, in questo caso in mare ma del tutto simile ai muri politico-legali costruiti o in via di costruzione a terra, lungo i confini sahariani, attraverso patti e accordi con vari Stati. Ad esempio, con l’Egitto, che ha inasprito nel dicembre scorso le norme anti immigrazione e dove la polizia vanta di aver effettuato, nei primi sei mesi di quest’anno, “più di 3 mila arresti di migranti irregolari”: tremila disperati buttati in carcere e destinati a restarvi non si sa per quanto tempo, fino all’espulsione forzata, solo per essere entrati nel paese senza documenti. Idem in Turchia, dove nell’ultima settimana sono stati segnalati oltre 250 profughi intercettati e fermati dalla polizia, tutti siriani o afghani che avrebbero il pieno diritto di chiedere asilo in Europa, vista la situazione che si lasciano alle spalle, e che sono invece finiti nelle maglie delle forze di sicurezza di Ankara. Per non dire del Sudan, dove sulla scia del patto di polizia stretto con l’Italia, il controllo dei flussi migratori è stato affidato dal presidente Al Bashir alla Forza di Intervento Rapido, i miliziani noti come “diavoli a cavallo”, tristemente famosi per le stragi in Darfur: anche qui migliaia di arresti in attesa del rimpatrio forzato che, nel caso degli eritrei, significa la consegna nelle mani di una delle più feroci dittature del momento. Eppure a Bruxelles hanno il coraggio di dire che non ha fondamento l’immagine – denunciata sempre più spesso – di una “Fortezza Europa” barricata all’interno delle proprie mura e sorda alle richieste di aiuto che arrivano a milioni dal Sud del mondo.

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