Retromarcia sulle acque libiche dopo le minacce di Haftar ma restano i 10 milioni al mese per alzare muri anziché salvare vite

Giornalista, già responsabile delle edizioni regionali e vice capo redattore della cronaca di Roma de Il Messaggero, ha approfondito i problemi dell’immigrazione.
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03 agosto 2017
“La risposta a eventuali operazioni di navi italiane nelle acque libiche sarà dura e decisa”, lo ha dichiarato il colonnello Ahmed Al Mismari, portavoce del generale Khalifa Haftar, l’uomo forte di Tobruk. Ed ha aggiunto che l’esercito di Haftar, impegnato da anni ad assicurarsi, partendo dalla Cirenaica, il controllo anche del sud e dell’ovest del paese, non esclusa la stessa Tripoli, non intende accettare in alcun modo la divisione della Libia in due parti ed eventuali programmi o interventi gestiti “dall’esterno”. Arrivata alla vigilia della discussione in Parlamento sulla nuova missione italiana a sostegno del governo di Tripoli per bloccare i battelli dei migranti e riportarli in Libia, questa pesante presa di posizione ha cambiato le carte in tavola. Fino a un paio di giorni prima il premier Paolo Gentiloni ha parlato esplicitamente di “intervento anche nelle acque territoriali libiche” da parte della task force di sei navi, droni, aerei e almeno 700 militari predisposta dal ministero della difesa e dalla Farnesina. Diceva che questo tipo di operazione era stato esplicitamente chiesto da Fayez Serraj, presidente del Governo di Tripoli, con una lettera scritta e poi a voce, nell’incontro tenuto a Roma il 26 luglio, all’indomani di quello di Parigi voluto da Macron tra lo stesso Serraj e il generale Haftar. Serraj, però, si è presto sfilato: pesantemente criticato in tutta la Libia, Tripoli compresa, per l’invito formale citato da Gentiloni, ha negato di aver mai concesso il disco verde all’ingresso di navi italiane nelle acque libiche, precisando anzi che nel suo ultimo confronto con il premier italiano a Roma si era limitato a ribadire la richiesta di assistenza tecnica e logistica, addestramento e forniture di materiali per la Guardia Costiera e per organizzare la “blindatura” del confine meridionale, in pieno Sahara, con maggiori controlli e con dotazioni più adeguate: impianti elettronici, fuoristrada, automezzi militari o speciali, elicotteri, ecc. Roma, allora, è stata costretta a fare una mezza marcia indietro: “La missione – ha dichiarato in sostanza il Governo – si svolgerà in piena armonia con quanto concordato con il presidente Serraj”. Senza più citare le acque libiche. Dopo l’avvertimento di Haftar, la retromarcia è diventata completa: la task force “di sostegno navale” opererà solo in acque internazionali e – si sono affrettati a precisare al Senato, il primo agosto, i ministri Angelino Alfano (esteri) e Roberta Pinotti (difesa) – “nel pieno rispetto della sovranità libica”. Il governo ha cercato di glissare su questa serie contraddittoria di passaggi, favorito anche dalla “distrazione” della gran parte della stampa nazionale, che non ne ha quasi parlato. Ma la sensazione è che ci si trovi di fronte all’ennesimo pasticcio all’italiana. Qualunque sia stato il contenuto preciso del cosiddetto “invito all’Italia” di Fayez Serraj, infatti, una levata di scudi di fronte alla prospettiva che navi straniere possano entrare e operare nelle acque libiche era ampiamente prevedibile. Il generale Haftar lo ha ribadito più volte e lo ha addirittura imposto in uno dei cinque punti chiave che Serraj ha dovuto sottoscrivere nell’incontro organizzato ad Abu Dabhi, all’inizio del maggio scorso, da Emirati, Arabia ed Egitto, con il favore tacito della Russia. Esattamente sulla stessa linea si è detto ripetutamente anche Khalifa Ghwel, il leader del governo islamico di Tripoli deposto formalmente con l’insediamento di Serraj ma che è tutt’altro che finito ed inerte ed ha anzi un seguito maggiore di quello di Serraj. Di più, Haftar ha lanciato anche segnali concreti direttamente a Roma: basti ricordare il sequestro di un peschereccio di Mazara del Vallo effettuato da una motovedetta partita da Tobruk nei giorni in cui l’Italia stava consegnando i primi guardacoste a Tripoli, come prevede il memorandum firmato il 2 febbraio a Roma. Nel giro di due giorni il peschereccio è stato rilasciato, ma il messaggio appare evidente: Haftar ha voluto far capire che Serraj conta poco o comunque sino a un certo punto e che per operare in Libia, anche limitatamente alle acque territoriali, bisogna fare i conti pure con Tobruk e le sue forze armate, di mare e di terra. Ed ora, attraverso il colonnello Ahmed Al Mismari, il suo portavoce, Haftar si è spinto anche oltre, protestando che un eventuale intervento italiano nelle acque libiche sarebbe “temerario e punterebbe a boicottare i risultati dell’iniziativa francese che ha portato all’incontro di Parigi” “Iniziativa – ha specificato il colonnello Ahmed al quotidiano Libya Observer – che è sostenuta dall’Unione Europea, dall’Unione Africana e dalle Nazioni Unite”. Haftar non parla a titolo personale: la sua linea è sostenuta dall’intero Parlamento di Tobruk, la House of Representatives (HoR), che il 2 agosto, proprio mentre a Roma la Camera stava approvando la task force proposta dal Governo, ha negato la legittimità e dunque respinto il via libera dato da Serraj alla missione navale italiana per il contrasto dell’immigrazione, asserendo che, in Libia, l’unico organismo autorizzato a sottoscrivere accordi internazionali è, appunto, la Camera legislativa di Tobruk e non certo il governo di Tripoli, mai legittimato da un voto parlamentare. Non solo: la House of Representatives ha anche ammonito l’Italia che dare corso alla missione concordata con Serraj significherebbe “violare la sovranità libica” e creare grossi problemi di stabilità e sicurezza a causa delle migliaia di migranti che si prevede di “esportare” e intrappolare nel paese. Né si tratta di un ammonimento soltanto formale: “Abbiamo deciso di chiedere alle Nazioni Unite di prendere posizione contro la violazione della sovranità libica da parte dell’Italia”, ha dichiarato il portavoce del Parlamento al quotidiano Libyan Express. C’è da chiedersi, allora, come sia stato possibile, in una situazione delicata e difficile come quella libica, esporsi a dichiarazioni e ad accordi che hanno avuto la validità di pochi giorni, se non di poche ore. Con tutto quello che ne consegue sulla credibilità della politica estera italiana. Del resto, non è neanche la prima volta. Basti ricordare che lo stesso memorandum firmato a Palazzo Chigi il 2 febbraio scorso – che è la base del rapporto tra Roma e Tripoli – oltre ad essere stato respinto da Haftar e da Ghwel, è stato giudicato nullo dalla Corte di Tripoli, anticipando le motivazioni addotte poi dalla HoR contro il nulla osta alla missione italiana: il Governo di Serraj, proprio perché mai riconosciuto dal Parlamento di Tobruk, è “illegale” e, dunque, sono da considerarsi illegali pure tutti gli eventuali accordi internazionali sottoscritti, nonostante il riconoscimento arrivato dall’Onu e dall’Unione Europea. Per non dire dell’intesa con le tribù Tuareg e Tebu per il contenimento dei flussi migratori nel sud, lungo il confine sahariano, presentato come risolutivo dal Viminale e invece subito denunciato come “non valido” proprio dal Consiglio dei Tebu, la tribù chiave, che controlla tutta la vasta regione a cavallo della frontiera tra Libia, Niger e Ciad. Questa stessa incertezza e la stessa densa fumosità ora investono la missione di cui è stata incaricata la Marina. Assodato che non si potrà entrare nelle acque territoriali libiche – a meno di previa autorizzazione per attività specifiche, come è accaduto il pomeriggio del 2 agosto alla nave Borsini, diretta a Tripoli per definire i dettagli della missione anti migranti – l’ordine impartito resta invariato rispetto a quello iniziale: le navi italiane dovranno aiutare la Guardia Costiera di Tripoli a intercettare e a bloccare i battelli dei profughi nel Canale di Sicilia, più o meno a ridosso della costa africana. Poi saranno i libici a riportarli indietro in Africa. Come avverrà questa operazione non è noto. Se ad esempio una unità italiana fermerà o semplicemente incrocerà un gommone, che ne farà dei migranti? Li porterà in Italia o li consegnerà ai libici? Oppure, resterà inerte, limitandosi a inviare una segnalazione alla Guardia Costiera libica, perché possa bloccarlo e costringerlo a invertire la rotta? Stando alle ripetute dichiarazioni sulla necessità di arrestare comunque i flussi e di darne incarico a Tripoli, tutto lascia credere che, in concreto, il mandato sia quello di “fare muro”, a prescindere dalla volontà, dai diritti e dalla sorte a cui andranno incontro i profughi. L’unica cosa certa è che ad occuparsi materialmente del “viaggio di ritorno” obbligato in Libia saranno i libici stessi. Proprio perché il “lavoro sporco” diretto, cioè il trasporto e la “riconsegna alla Libia”, è riservato ai libici, Roma probabilmente si illude di sottrarsi all’accusa di “respingimento di massa indiscriminato”, in violazione del diritto internazionale e della convenzione di Ginevra. Ma, appunto, è solo una illusione: in questi giorni, ad esempio, in seguito alle iniziative di respingimento “larvato” o anche semplicemente di fronte all’inerzia del Governo di Madrid dopo gli ultimi naufragi sulla rotta del Mediterraneo occidentale, numerosi giuristi spagnoli hanno parlato di “evidenti responsabilità morali, politiche e giuridiche”. E l’Italia, con questa operazione che mira esplicitamente ad alzare nuovi muri nel Canale di Sicilia, sta facendo molto di peggio. Oltre tutto a caro prezzo: stando alle notizie di stampa, la missione della nuova task force costerà circa 10 milioni al mese. Vale la pena ricordare che Mare Nostrum costava esattamente la stessa cifra, 10 milioni al mese, ma è stata revocata – si è detto – perché era troppo onerosa per le casse dello Stato. E qui qualcosa davvero non funziona: 10 milioni al mese per alzare barriere in mezzo al mare e gettare così le premesse per moltiplicare i morti e le sofferenze, vanno bene. Dieci milioni al mese per salvare vite erano “troppi”.

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