Perché stare dalla parte delle Ong e di don Zerai

Giornalista, già responsabile delle edizioni regionali e vice capo redattore della cronaca di Roma de Il Messaggero, ha approfondito i problemi dell’immigrazione.
Condividi
11 agosto 2017
A cura di Emilio Drudi e Marco Omizzolo: “Il mio intervento è stato concepito nel medesimo spirito dell’operazione Mare Nostrum – varata nel novembre 2013 dal Governo italiano sulla scia della tragedia del 3 ottobre a Lampedusa e purtroppo revocata dopo un anno – nella convinzione che se programmi del genere fossero in vigore ad opera delle istituzioni europee o magari dell’Onu, probabilmente non sarebbe stata necessaria la mobilitazione delle Ong e, più modestamente, quella di Habeshia nel Mediterraneo. Fermo restando che il problema non si risolve con il soccorso in mare, per quanto tempestivo ed efficiente, ma, nel breve/medio periodo, con l’organizzazione di canali legali di immigrazione e con una riforma globale del sistema europeo di accoglienza e, nel lungo periodo, con una stabilizzazione/pacificazione dei paesi travolti da situazioni di crisi estrema che costringono migliaia di persone a fuggire ogni mese”. È il passo forse più significativo della dichiarazione resa da don Mosè Zerai, presidente dell’agenzia Habeshia, a commento del suo coinvolgimento nell’inchiesta aperta dalla Procura di Trapani su alcuni episodi che riguarderebbe la Ong tedesca Jugend Rettet. Coinvolgimento che, quando ne è venuto a conoscenza, è stato lui stesso a comunicare, anticipando i media e affermando di “poter dire in tutta coscienza di aver sempre agito alla luce del sole e in piena legalità”, attenendosi scrupolosamente, per le richieste di aiuto, alle indicazioni ricevute dalla Guardia Costiera. La magistratura ha ovviamente tutto il diritto, anzi, il dovere preciso di indagare, se ritiene che ci siano casi oscuri o zone grigie o peggio. Non è questo in discussione. Il punto da cui partire è invece quell’affermazione su Mare Nostrum, l’operazione di cui l’Italia si è vantata a lungo, salvo ora dimenticarne la sostanza e lo spirito. E’ tutta lì la questione. Abolito il programma di salvataggio che si spingeva sino ai margini delle acque libiche, proprio come hanno poi fatto le navi delle Ong, l’Italia e l’Europa hanno imboccato la strada di una politica di respingimento e chiusura totale nei confronti di richiedenti asilo e dei migranti. Una politica realizzata con la costruzione di tutta una serie di barriere politico-legali, sotto la forma di accordi che hanno progressivamente esternalizzato le frontiere europee, spostandole sempre più a sud, fino in pieno Sahara, e affidandone la vigilanza alla polizia di Stati terzi. Si tratta di una sequenza di “barriere” impressionante: il Processo di Khartoum (novembre 2014), concepito sul modello del precedente Processo di Rabat (2006), i trattati di Malta (novembre 2015), l’intesa con la Turchia (marzo 2016), quello con l’Afghanistan (ottobre 2016) e, via via, tutta una catena di patti bilaterali, spesso di polizia e dunque sottratti al controllo del Parlamento. L’ultimo atto si è avuto con il memorandum firmato il 2 febbraio scorso a Roma tra l’Italia e la Libia di Fayez Serraj, il cui governo è riconosciuto dall’Onu e dalla comunità occidentale ma che di fatto non esercita quasi alcuna autorità sul Paese. E sulla scia di questo accordo, è arrivato ora, da parte di Tripoli, il blocco a circa duecento chilometri di distanza dalle coste africane per l’attività di soccorso condotta dalle navi delle Ong. L’esatto opposto di Mare Nostrum. Proprio a questa politica di chiusura sono strettamente legate, con un evidente rapporto di causa-effetto, la strage in atto nel Mediterraneo o lungo le vie di fuga in Africa verso la costa e le sofferenze inumane alle quali vengono consegnati i migranti, respinti in mare e intrappolati nei paesi di transito e di prima sosta. In particolare nel caos della Libia. Non è immaginabile, infatti, alla luce delle decine di rapporti arrivati dalla missione Onu, dall’Unhcr, dall’Oim, da Ong come Amnesty, Human Rights Watch, Medici Senza Frontiere, Medici per i Diritti Umani, diplomatici, giornalisti, volontari, che Roma e Bruxelles non sappiano quale inferno è oggi la Libia e quanto di orrendo accade ai migranti nei centri di detenzione governativi, nei lager dei trafficanti, lungo la marcia per raggiungere il mare dal deserto. Ecco, le politiche italiana ed europea sull’immigrazione hanno smarrito ogni senso di umanità e di rispetto della vita, dei diritti e della dignità della persona. Hanno calpestato i valori di libertà, uguaglianza, solidarietà, giustizia che sono alla base dell’idea stessa di Europa Federale, di molte costituzioni nazionali dei singoli Stati (a cominciare da quella italiana) e, più in generale, della democrazia. A difendere questi valori irrinunciabili sono scese in campo le Ong, numerose associazioni, personaggi come don Mosè Zerai, migliaia di volontari. La scelta di campo, allora, non può che essere quella di schierarsi fianco a fianco con chi – mettendo al centro di tutto l’uomo e i suoi diritti – si sta spendendo in prima persona per salvare migliaia di vite. Contro la politica di morte dei “muri”. Quei muri che, stracciando i principi fondamentali del nostro stesso “stare insieme”, ci stanno spingendo sulla strada di una pericolosa, oscura post-democrazia. È questa oggi la battaglia aperta dalla crisi dei migranti. Ed è una battaglia cruciale.

Leggi anche