Profughi: dopo il blocco del Mediterraneo, un vallo fortificato nel Sahara

Giornalista, già responsabile delle edizioni regionali e vice capo redattore della cronaca di Roma de Il Messaggero, ha approfondito i problemi dell’immigrazione.
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16 agosto 2017
Nella prima metà di agosto sono arrivati in Italia meno di 2 mila profughi. Neanche un decimo dei 21 mila registrati lo scorso anno nell’arco dell’intero mese. L’Italia e l’Europa, grazie alle barriere erette nel Mediterraneo con l’aiuto del governo di Tripoli, sono sul punto di sigillare il lager libico. Per i migranti quel lager è un autentico girone infernale. Sono ormai decine i rapporti che denunciano uccisioni, torture, stupri, riduzione in schiavitù, lavoro forzato, maltrattamenti, persecuzioni razziali e religiose, sfruttamento. Ovunque: nei centri di detenzione governativi, nelle prigioni dei trafficanti, durante le lunghe marce dal sud verso la costa, nelle città dove continuano gli scontri tra le bande armate delle varie fazioni che si contendono il potere. Evidentemente non interessa. Conta solo che quei disperati vengano fermati in Africa. A ogni costo. C’è però un problema: con questa politica del “Mediterraneo chiuso” la Libia è destinata a diventare il più grande hub per rifugiati e richiedenti asilo dell’Africa. Già adesso si stima che ci siano circa 500 mila migranti. Con il blocco delle partenze e i nuovi arrivi dal sud che, con il ritmo attuale, superano largamente i rimpatri, forzati o volontari, il numero è destinato a crescere rapidamente. E contro questa prospettiva si sono già schierati tutti. Si è detto contrario persino Fayez Serraj, il debole capo del Governo di Tripoli che, pur firmando gli “accordi di respingimento in mare” con l’Italia, ha detto in più occasioni che l’immigrazione nel Mediterraneo è un problema europeo e che la Ue non può scaricarlo sulla Libia. Lo stesso sostiene da sempre, con toni molto più decisi, Khalifa Ghwell, il leader del deposto governo islamico, che ha ancora largo seguito nel paese. Ma, soprattutto, è contrario il generale Haftar, l’uomo forte di Tobruk, che ha portato Serraj a firmare un impegno preciso su questo punto, nell’incontro di maggio ad Abu Dabhi e che anzi contesta come illegittimi e illegali sia il memorandum sottoscritto a Roma il 2 febbraio da Tripoli, sia – ancora di più – gli accordi che consentono a navi militari italiane di operare in acque libiche a supporto della Guardia Costiera, sostenendo che questa presenza è una palese violazione della sovranità nazionale e dando ordine di reagire anche con la forza, nel caso se ne presenti la necessità. Appare chiaro, allora, che il blocco in mare, nei termini attuali, non potrà durare a lungo: prima o poi, senza un intervento che ne elimini o quanto meno ne riduca le conseguenze dirette sul paese, sarà la Libia stessa a contestarlo. La soluzione su cui sono d’accordo sia la Libia che l’Europa e l’Italia è la blindatura della frontiera meridionale, in pieno Sahara. Roma, d’intesa con Bruxelles, ha già cominciato a lavorarci da tempo. Le “radici profonde” risalgono all’accordo tra Berlusconi e Gheddafi (2009), riattualizzato poi nel 2013 dal Governo Letta e perfezionato in maniera più sistematica con il memorandum del 2 febbraio scorso, sottoscritto da Gentiloni, nel quale, oltre a garantire navi e assistenza alla Guardia Costiera, l’Italia si è impegnata a fornire mezzi per il pattugliamento e la sorveglianza a terra, inclusi blindati ed elicotteri. Si tratta, in sostanza, del completamento della politica di esternalizzazione delle frontiere della Fortezza Europa: lo ha dichiarato senza mezzi termini lo stesso ministro dell’interno Marco Minniti, asserendo che in questa partita il confine dell’Unione corrisponde al confine sud della Libia. Più che di confine, anzi, forse è il caso di parlare di “vallo fortificato” finanziato dall’Europa. Un vallo lunghissimo, che attraverserà da est a ovest tutta l’Africa, dall’Egitto al Marocco. In alcuni Stati, soprattutto nel versante occidentale dell’Africa, è di fatto già in funzione: in Marocco e in Algeria, ad esempio, grazie all’attuazione del Processo di Rabat firmato dalla Ue e 27 governi africani nel 2006. In questi anni, i migranti hanno cercato più volte di forzarlo. In particolare nelle enclave spagnole di Ceuta e Melilla, in Marocco: a volte tentativi condotti da piccoli gruppi, più spesso da schiere di centinaia di disperati. Anzi, negli ultimi mesi, con il blocco del Mediterraneo, questi assalti in massa si sono moltiplicati. Tra l’alba dell’otto e la sera del 12 agosto, a Ceuta ce ne sono stati ben 5. Nel primo sono riusciti a passare 187 dei circa 300 giovani subsahariani che si erano radunati per superare insieme la linea di frontiera. Tutti gli altri tentativi, condotti da gruppi variabili tra le 200 e le 500 persone, sono stati respinti dalla Guardia Civil spagnola e soprattutto dalla polizia marocchina, che non è andata certo per il sottile: pestaggi, manganellate, uso di lacrimogeni, arresti. I fermati sono stati condotti o in carcere o direttamente nei centri di detenzione nel sud del paese, in attesa dell’espulsione e del rimpatrio forzato. La Libia, con i suoi quasi 5 mila chilometri di frontiera con la Tunisia, l’Algeria, il Niger, il Sudan e l’Egitto è il punto debole di questo vallo, destinato con ogni probabilità a “fronteggiare” flussi crescenti, provenienti soprattutto dal Sudan e dal Niger. Flussi seminati di morte: l’ultimo rapporto dell’Oim segnala che da aprile al 20 luglio sono stati soccorsi oltre mille migranti rimasti bloccati nel deserto, tra Agadez e il confine libico. Molti di loro erano ormai allo stremo. Ma, a fronte dei mille tratti in salvo, negli stessi mesi si contano a centinaia quelli che non ce l’hanno fatta, vinti dalla sete e dalla fatica. E tutto lascia credere che questa strage stia aumentando di giorno in giorno. Sarà, insomma, l’ennesima “barriera di morte”. Ma, anche qui, la sorte dei migranti non interessa più di tanto: l’imperativo è quello di blindare comunque tutta la frontiera perché nessuno possa entrare. A dare consistenza a questa soluzione si è fatto avanti, non a caso, proprio il generale Haftar, sicuramente l’uomo che in questo momento ha più potere o comunque più forza e seguito in Libia. Più anche di Fayez Serraj, che pure è ufficialmente sostenuto dall’Onu e dalla comunità occidentale. Ne ha parlato lui stesso prima a Parigi con il presidente Macron e poi in una intervista al Corriere della Sera, che è stata ripresa dalla stampa internazionale e che ha trovato larga eco in Libia. “Io ho già un piano per bloccare il nostro confine meridionale e stroncare il flusso dei migranti, ma mi mancano le risorse per attuarlo”, ha detto. Specificando poi che occorrono, in tutto, 20 miliardi di dollari: un miliardo l’anno per i prossimi vent’anni. Non ha mancato di scendere in particolari, specificando che va messo a punto un concreto programma di assistenza per rifornire la guardia di frontiera di armi e munizioni, materiale tecnico e logistico, blindati e veicoli militari armati, droni, visori notturni e binocoli speciali a raggi infrarossi, elicotteri, apparati di rilevamento elettronico. E, come ha spiegato al Libya Herald, ha messo a punto anche il programma operativo: intende organizzare lungo tutta la frontiera sud una fitta catena di campi e posti di blocco militari, ciascuno forte di almeno 150 soldati, a una distanza massima di cento chilometri l’uno dall’altro e in stretto collegamento tra di loro, anche con pattuglie mobili incaricate di ispezionare costantemente il deserto, percorrendo nei due sensi la distanza tra i vari presidi. C’è chi ha rilevato che 20 miliardi di dollari, sia pure diluiti in vent’anni, sono una cifra enorme. Ma Haftar si è fatto forte dei 6 miliardi di euro concessi alla Turchia dall’Unione Europea, sulla base del patto firmato nel marzo 2016, per fermare i profughi in fuga verso la Grecia, sulla rotta dell’Egeo e del Mediterraneo Orientale. “Se l’Europa – ha detto – ha acconsentito a mettere 6 miliardi di euro a disposizione di Ankara, per bloccare un numero di profughi, provenienti dalla Siria e dall’Iraq, inferiore ai flussi africani e su una linea di frontiera più breve, 20 miliardi di dollari non sono una cifra eccessiva per mettere in sicurezza il nostro confine del sud a fronte dei tantissimi migranti in arrivo da tutta l’Africa”. Non risulta che la proposta di Haftar sia stata respinta, pur provenendo da un “potere” non riconosciuto dall’Onu e dalla Ue. Anzi, con il progetto per blindare il Sahara, il generale continua e dà forza al suo antico disegno di essere riconosciuto come un interlocutore indispensabile, se non il principale, per il futuro assetto della Libia, anche da parte delle cancellerie occidentali, oltre che della Russia di Putin, dell’Egitto, dell’Arabia e degli Emirati, che lo sostengono fin dall’inizio. E questo disegno è stato ormai sdoganato formalmente pure in Europa, qualche settimana fa, dall’incontro con Fayez Serraj organizzato a Parigi dal presidente Macron e dal piano francese di aprire in Libia una serie di hot-spot provvisori per i migranti, dove esaminare la loro posizione e le loro richieste di asilo. Una piano che Haftar mostra di apprezzare e condividere, al contrario delle iniziative italiane ricollegabili agli accordi sottoscritti dal febbraio scorso in poi con Serraj. Non ci sarebbe da stupirsi, allora, se il “vallo fortificato” da 20 miliardi verrà realizzato. Ancora una volta sulla pelle di profughi e migranti. In questo modo, infatti, bloccando i flussi in pieno Sahara, il “lager” oggi in Libia non verrebbe eliminato ma solo spostato negli Stati più a sud. Ad esempio, in Niger dove, secondo i racconti di numerosi richiedenti asilo, la situazione è sempre più simile al caos libico. Oppure nel Sudan del presidente Al Bashir (inseguito da un mandato di cattura internazionale per crimini contro l’umanità), dove da mesi la diaspora eritrea denuncia continue retate ed arresti di profughi in fuga dalla dittatura di Isaias Afewerki. “Secondo le notizie che ci sono pervenute in queste settimane – riferisce Abraham, esule a Bologna, esponente del Coordinamento Eritrea Democratica – attraversare il deserto e passare il confine con la Libia è sempre più difficile e rischioso. Ci sono fitti controlli e posti di blocco. Ci dicono che negli ultimi due/tre mesi ci sono stati oltre mille arresti. E il soggiorno più o meno lungo in carcere si conclude con l’espulsione sotto scorta verso l’Eritrea: la riconsegna nelle mani del regime. Sarebbero circa un centinaio i rimpatri forzati più recenti…”. Cento ragazzi di cui si teme di perdere ogni traccia. Desaparecidos nelle galere del regime di Asmara. Ma, a quanto pare, alla politica condotta dall’Italia e dalla Ue importa solo che non arrivino a bussare alle porte della Fortezza Europa.

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