Voci dall’inferno dove il blocco deciso dalla Ue ha rinchiuso i profughi

Giornalista, già responsabile delle edizioni regionali e vice capo redattore della cronaca di Roma de Il Messaggero, ha approfondito i problemi dell’immigrazione.
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09 settembre 2017
“Sono rimasto in quel campo dalla metà di settembre del 2016 fino ai primi di marzo di quest’anno. Durante questi sei mesi ho sepolto con le mie mani 36 compagni. Profughi in fuga come me, morti per i maltrattamenti, le torture, gli stenti, la fatica. Quando non sono stati uccisi direttamente dai miliziani di guardia”. Ad Abel, poco più di 18 anni, si vela la voce a raccontare l’esperienza terribile che ha vissuto. “Io ce l’ho fatta perché ho potuto pagare il riscatto per farmi rilasciare. Mille dollari. Poi mi sono imbarcato e sono arrivato in Italia: il nostro gommone è stato intercettato da una nave di soccorso, che ci ha condotto in Sicilia”. Dalla Sicilia Abel è stato subito trasferito nelle Marche: giusto il tempo di essere identificato e di prendergli le impronte digitali allo sbarco e poi ha raggiunto in pullman un centro accoglienza vicino a Falconara. E’ rimasto lì per due mesi circa, chiedendo di essere inserito nel programma di relocation, con la speranza di essere mandato in Germania. Poi ha deciso di fuggire per raggiungere Roma: “Lì a Falconara nessuno sapeva dirmi se la mia richiesta era stata accolta o quanto meno presa in esame”, sostiene. Ora è accampato in un piazzale dietro la stazione Tiburtina insieme a centinaia di altri giovani eritrei, somali, sudanesi. Spera che la Questura di Roma lo chiami quanto prima per un colloquio, tanto più che il programma di relocation termina il 26 settembre. Il lager nel quale è stato detenuto in Libia è quello di Bani Walid, 150 chilometri a sud est di Tripoli, nel distretto di Misurata. Uno dei più grandi, in funzione dal 2009 e destinato ad ospitare centinaia di persone. Ma anche uno dei più tristemente famosi. Ufficialmente è gestito dal ministero dell’interno di Tripoli. In realtà è un “terreno di caccia” per miliziani e trafficanti, come è emerso nel gennaio scorso da una inchiesta condotta dalla Procura di Milano a carico di un aguzzino somalo, riconosciuto da una decina delle sue vittime dopo che era arrivato in Italia. In particolare da una ragazza: “Per tutto il tempo che sono stata lì, in quel campo – ha avuto la forza di raccontare ai magistrati – quell’uomo veniva a prendermi quasi ogni notte per violentarmi: mi legava e mi violentava…”. A Bani Walid Abel ha lasciato molti amici: trema al pensiero della loro sorte. Nel vasto accampamento della Tiburtina c’è anche Berecket, un altro giovane eritreo, arrivato in Italia nella primavera scorsa. Pure lui ha un racconto terribile da fare: “Ho lasciato il Sudan, dove mi ero rifugiato dall’Eritrea, nel luglio del 2016. Eravamo una cinquantina, stipati su un solo camion, che ha imboccato le piste del deserto verso la Libia. Un viaggio da incubo: caldo infernale, sete e poca acqua da bere, quasi niente cibo, la paura ossessiva di cadere e di essere abbandonati per strada. Nel nulla. Con noi c’era una giovane madre con una bambina. La piccola soffriva più di noi. Ha cominciato a piangere. Sempre più forte. La mamma la stringeva a sé, ma non riusciva a calmarla. A un certo punto, in pieno deserto, uno dei trafficanti ha fatto fermare il camion per una breve sosta. La bambina non trovava pace: continuava a piangere e a lamentarsi. ‘Falla smettere’, ha intimato quel trafficante alla madre. E lei: “Ci sto provando, ma è molto stanca, ha sete. Sta male, insomma…”. E allora quello le ha strappato la figlioletta dalle braccia e le ha sparato, uccidendola. Quella madre è come impazzita. Tutti noi siamo rimasti impietriti, ma non abbiamo potuto fare niente. Dopo quella sosta ci hanno portato in un grande campo-prigione, in Libia, quasi una fortezza, credo vicino a Sabha, nel sud. Ne sono uscito solo grazie ai miei familiari, che dopo qualche tempo hanno ‘comprato’ il mio rilascio. In tutto, per arrivare in Italia, ho speso 11 mila dollari. Dal Sudan a qui, senza contare il tragitto dall’Eritrea e la sosta a Khartoum, ci ho messo quasi dieci mesi. Ma ho avuto fortuna. Molti miei amici sono ancora in Libia. Alcuni magari proprio nella fortezza-prigione di Sabha. Ora con il blocco delle coste libiche che impedisce o comunque rende molto più difficile partire, non hanno scampo. E quella prigione è un inferno”. Uccidere i profughi più deboli e provati o abbandonarli nel deserto morenti, come zavorra inutile, è la norma per i trafficanti. Lo conferma un altro giovane eritreo, Hailé, sbarcato in Italia, a Catania, a fine aprile ed ora anch’egli in attesa di un colloquio alla questura di Roma per la relocation. “Da Khartoum – racconta – siamo fuggiti in 86, su due camion, all’inizio di febbraio. Io ero con mio cugino ma alla partenza ci hanno separati. Io sono stato fatto salire sul primo camion, mio cugino sul secondo, che ci seguiva a una certa distanza. Il viaggio è durato quasi cinque giorni. Ci muovevamo soprattutto di notte. Acqua e cibo erano molto scarsi. I più deboli hanno cominciato a cedere. Qualcuno ha perso conoscenza. I trafficanti volevano abbandonarli nel deserto. ‘Tanto ormai sono condannati, non ce la faranno mai’, dicevano. Tutti noi abbiano fatto gruppo e ci siamo opposti. Alla fine l’abbiamo spuntata: nessuno è stato ucciso o lasciato morire di stenti lungo la pista. Ma quando siamo arrivati in Libia mio cugino mi ha detto che quattro del suo camion, svenuti dalla fatica, erano stati via via gettati fuori, in pieno Sahara. Lui ed altri hanno provato ad opporsi ma i trafficanti hanno soffocato subito ogni accenno di protesta, urlando minacce e insulti e spianando le armi, pronti a sparare…”. Da Catania, pochi giorni dopo lo sbarco, Hailé è stato assegnato a un centro di accoglienza in provincia di Salerno, a San Valentino Torio. “Ho subito fatto presente che volevo essere inserito nel programma di relocation per cercare di andare in Olanda – sostiene – ma lì dov’ero nessuno ha saputo darmi indicazioni precise. Non c’era un interprete che parlasse il tigrino perché potessi spiegarmi. E allora ho deciso di raggiungere Roma. Ora spero di trovare ascolto. C’è anche una suora eritrea, madre Carmela, che mi sta aiutando. Non è facile qui. Siamo accampati alla meglio in questo spiazzo dietro la stazione. Si fanno vedere soltanto alcuni volontari, che ci portano un po’ di cibo una volta al giorno. L’acqua la prendiamo da un rubinetto in un parcheggio qui vicino. Ma è sempre meglio che in Libia. Almeno c’è la speranza di potercene andare. Dalla Libia invece, a quanto sento dire, adesso non esce più nessuno. E lì è davvero terribile”. “E’ terribile in Libia”, dice Hailé. I governi europei lo sanno bene. A parte testimonianze dirette come quelle di Hailé, Berecket e Abel, ci sono decine di rapporti che raccontano questa realtà. Gli ultimi, ad opera di Medici Senza Frontiere e dell’Organizzazione Internazionale per le Migrazioni (Oim), sono di alcuni giorni fa appena. Ma l’Unione Europea e in particolare l’Italia hanno deciso di bloccare qualsiasi via di fuga, a prescindere dalla sorte a cui andranno incontro profughi, richiedenti asilo e migranti. Il sigillo finale a questa scelta di chiusura e respingimento è arrivato dal vertice Ue di fine agosto a Parigi, che ha avallato la blindatura delle coste libiche senza prevedere un vero programma di reinsediamento dei rifugiati in Europa. Il progetto proposto, infatti, appare assolutamente insufficiente. A rilevarlo è Barbara Molinario, del Commissariato Onu per i rifugiati, che ne ha anticipato le linee al Fatto Quotidiano in una intervista rilasciata a Gianni Rosini. “La nostra agenzia – ha spiegato la rappresentante dell’Unhcr – svolgerà le operazioni di selezione e reinsediamento per le aree del Nord Africa, Africa Occidentale, Orientale e Corno d’Africa. Secondo le stime, sono 380 mila le persone provenienti da questa macroregione che dovrebbero accedere al programma. Noi abbiamo chiesto ai governi europei la possibilità di aumentare di 40 mila unità il numero previsto per il ricollocamento. Ora dobbiamo attendere la loro risposta. Certo, se si guardano i numeri si capisce che il problema non verrà risolto”. Non ci sarà, in sostanza, nessun corridoio umanitario per coloro che hanno diritto alla protezione internazionale dopo la valutazione nei paesi di transito: potrà arrivare in Europa solo una quota di persone o nuclei familiari più “vulnerabili”. Una quota ancora da stabilire, così come non si sa ancora nulla di quando e come comincerà ad essere attuato questo piano, verso quali paesi europei, se sarà obbligatorio accogliere i profughi o se si agirà su base volontaria, ecc. Tutti gli altri, in ogni caso, resteranno esclusi e non si è ancora stabilito nemmeno dove verranno sistemati: se resteranno, ad esempio, nei vecchi centri di detenzione libici o in nuovi campi profughi o magari alloggiati in aree urbane. Non è un problema da nulla. Flavio Di Giacomo, il portavoce dell’Oim, è a dir poco perplesso: “Dal punto di vista pratico – ha riferito al Fatto Quotidiano – non mi sembra che il vertice di Parigi abbia portato grandi novità, se non la volontà generica di costruire dei centri di identificazione in Libia o in Niger. Se poi vogliamo parlare dei nuovi hotspot in Libia, dico che non ci sono al momento le premesse per costruirli. Noi come Oim abbiamo accesso a 20 dei 34 centri governativi libici, presumo quelli in condizioni migliori, e posso assicurare che non rispettano gli standard minimi per garantire un trattamento umano”. Ancora più esplicito è Stefano Torelli, ricercatore dell’Istituto per gli studi di politica internazionale. La sua dichiarazione al Fatto Quotidiano suona come una vera e propria denuncia: “Quando dicono che vogliono legalizzare i flussi, i governi mentono. Lo dimostrano i numeri. L’Unhcr calcola che ci siano almeno 380 mila persone nella sola Africa subsahariana da ‘ricollocare’ e invece si discute su un aumento, forse, di 40 mila posti. Senza contare che i piani di ricollocamento in Europa hanno già fallito. Il piano dell’Europa, in realtà, è quello di esternalizzare i confini. Lo hanno fatto in Turchia e adesso lo vogliono fare nel Sahel. La volontà di creare flussi legali è uno specchio per le allodole: hotspot e centri di identificazione in Libia o in Niger ci dicono che la strategia europea è quella di creare un blocco, anche se i governanti non lo ammettono”. Conferma questa denuncia anche il fatto che mentre il piano di ricollocamento – qualunque ne siano i criteri e la dimensione – è ancora di là da venire, il blocco totale è ormai scattato da mesi. Un blocco che condanna inesorabilmente migliaia di persone alla sorte descritta da Abel, Berecket e Hailè.

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