Di Ilaria De Bonis: Dal ProSavana al Sustenta, il land grabbing ‘legalizzato’

PhD in sociologia, presidente della coop. In Migrazione e di Tempi Moderni a.p.s.. Si occupa di studi e ricerche sui servizi sociali, sulle migrazioni e sulla criminalità organizzata.
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13 settembre 2017
di Ilaria De Bonis: «Fratello gemello del ProSavana». «Cavallo di troia delle multinazionali in Africa». «Ennesimo tentativo di togliere la terra ai contadini poveri del Mozambico rurale». Così a Nampula si parla del Sustenta, creatura finanziaria nata dalle viscere della Banca Mondiale, inaugurata lo scorso febbraio in Mozambico, col via libera del presidente Filipe Nyusi. Si tratta di un programma da 231 milioni di dollari, stanziati dal colosso finanziario di Washington per realizzare un modello agricolo semi-industriale, alternativo all’agricoltura tradizionale nel nord del Paese africano. Potrebbe rimpiazzare la savana coltivata dalle famiglie locali a manioca e fagioli. Attivisti e giornalisti come Jeremias Vanunje, mozambicano, esperto di land grabbing, tra i promotori della Campagna Nao ao ProSavana, mettono in guardia sulle fortissime analogie emerse tra il Sustenta e il suo più noto fratello, il ProSavana, frutto della triangolazione tra Giappone, Brasile e Mozambico. «Solo apparentemente sono due cose diverse – dice Vunanje - in realtà il Sustenta, su scala minore, non fa altro che convincere i piccoli agricoltori locali ad abbandonare la terra e la loro attività per cedere i terreni al consorzio che la trasformerà in grandi appezzamenti». Per capire la sottile strategia delle agenzie di ‘sviluppo’ in Africa, basti pensare che il ProSavana era stato ideato nel 2009 in sede G8 e che gli artefici sono le agenzie di Cooperazione dei tre giganti. La JICA (versione giapponese della nostra Cooperazione allo Sviluppo, per intenderci) lo aveva finanziato con l’obiettivo di creare grandi fazende sul modello di quelle brasiliane. Distruggendo centinaia di migliaia di ettari di savana considerata a torto incolta. E sottratta ai legittimi proprietari. Il progetto è stato per il momento bloccato da un’agguerrita coalizione di ong e attivisti, aderenti al Nao ao ProSavana, in Mozambico. Ma i land grabbers non si danno per vinti. Tanto che a distanza di un anno dalla sua ‘sospensione’ spunta fuori questo gioiello, il Sustenta. «Abbiamo seguito le esperienze di successo in altri Paesi come Brasile e Cina, dove attraverso una buona gestione delle risorse siamo riusciti a migliorare le condizioni di vita della popolazione rurale»: tutt’altro che rassicuranti le parole di Mark Lundell, direttore della Banca Mondiale in Mozambico. In realtà i leader comunitari del nord del Mozambico e i dirigenti dell’Unione Provinciale dei Contadini, come Esteban Costa, non hanno creduto alle buone intenzioni del governo. E sono piuttosto sul ‘chi va là’. L’esperienza di lotta al ProSavana, in questi anni ha portato molti di loro a sentire immediatamente puzza di bruciato, laddove le istituzioni internazionali cercano strade alternative e scorciatoie per rifilare la stessa solfa. «L’obiettivo dichiarato del governo di Maputo è quello di trasformare presto o tardi tutta la savana verde e fertile, in coltivazioni estensive di soia da esportare», denuncia Costa. Oppure di jatropha e girasoli per il biofuel. «Il ProSavana è al momento in stand by ma temo che stiano solo raccogliendo le forze per sferzare un altro attacco», è l’opinione di Jeremias Vunanje. «Nel frattempo ci troviamo a fronteggiare un’altra minaccia», dice. La provincia di Nampula, al nord-est del Paese, lungo il corridoio di Nacala, è già completamente infestata di multinazionali che da almeno otto anni stanno depredando i contadini della loro terra. E’ in corso un land grabbing su larga scala di cui i coltivatori locali sono molto consapevoli ma non hanno strumenti di difesa. La comunità di Intatapila, ad esempio, ha resistito fino all’ultimo per arginare il potere della Green Resources, multinazionale norvegese la cui versione locale è Lurio green che coltiva eucalipti. Siamo andati a trovare la comunità e la loro narrazione dei fatti è univoca: «la Lurio Green si è impossessata di terreni non suoi, delimitando le terre comunitarie», ci raccontano i leader. Il terreno qui è verde e ricco di alberi frondosi, i cajueiro (alberi di nocciole). Il contrasto tra il rosso della terra e delle capanne, il verde dei banani e dell’erba sparsa su distese enormi, col profilo di montagne grigie e appuntite, è uno spettacolo che toglie il fiato. Gli eucalipti in fondo sembrano parte integrante di questa bellezza. Eppure, invece, sono la sua rovina. «Quando i capi-villaggio si sono presentanti alla porta dei norvegesi per chiedere spiegazioni non gli è stato aperto», denuncia suor Rita Zaninelli, la suora comboniana dei sem terra. Successivamente il governatore locale si è interessato alla sorte dei contadini e ha chiesto una riunione allargata con i dirigenti d’azienda. Solo molto tempo dopo è stata concessa un’udienza e il risultato è che i contadini di Intatapila hanno accettato un compromesso: cederanno parte dei loro terreni alla Lurio green in cambio della costruzione di infrastrutture, scuole e ospedali. Quello che spetta loro di diritto, ossia servizi fondamentali per crescere, verrà, forse, ‘concesso’ ma non dallo Stato, da una multinazionale. In cambio di cosa? Della terra. Ossia dell’unica fonte di sostentamento. «Questo significa che lo spazio vitale dei contadini si restringe. Le loro terre si assottigliano, così come si assottiglia la savana, una parte fondamentale dell’ecosistema in questa zona dell’Africa. Per lasciare via libera agli eucalipti. E alla soia», denuncia suor Rita.

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