Ritratto di una nazione: il lavoro che non nobilita il Paese

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16 settembre 2017
L’avevano già fatto per aprire e chiudere la stagione 2014/2015 del Teatro Argentina con “Ritratto di una Capitale – Ventiquattro scene di una giornata a Roma”: Antonio Calbi – direttore del Teatro Di Roma -e Fabrizio Arcuri – celebre regista oltre che direttore artistico di tanti eventi e importanti realtà teatrali – avevano raccontato la città attraverso gli occhi di 26 autori e il corpo di 44 attori in una vera e propria maratona di 24 scene. La scelta di allargare il loro campo di osservazione porta, stavolta, alla genesi di “Ritratto di una Nazione - L’Italia al lavoro”: l’idea è quella di narrare il cosiddetto Bel Paese attraverso le sue contraddizioni lavorative, riassunte in 20 quadri regionali. La prima parte di questo progetto - un prologo scritto dal Premio Nobel per la letteratura Elfriede Jelinek e 9 opere di mezz’ora ciascuna - sarà in scena da lunedì 11 a sabato 16 settembre: nel 2018 si arriverà al suo completamento, della durata di 10 ore. Un’idea ambiziosissima e rischiosa perché, di fatto, “costringe” lo spettatore a passare più di 5 ore a teatro: ma gli 11 autori scelti, i 28 attori reclutati, l’efficace drammaturgia di Roberto Scarpetti, la colonna sonora anche stavolta composta ed eseguita dal vivo dai Mokadelic, le tanto mobili quanto precise scene di Andrea Simonetti - supportate dal set virtuale di Luca Brinchi e Daniele Spanò e dalle luci di Giovanni Santolamazza - riescono nell’impresa di trattenere fino all’ultimo la maggior parte di chi si è accomodato in sala. Subito dopo il prologo, un ambiguo “Risultato Da Lavoro” - ottimamente interpretato da Maddalena Crippa e che svela subito sia le contraddizioni pubbliche sia lo straniamento privato della condizione occupazionale attuale - si comincia con “Pane All’Acquasale”: scritto da Alessandro Leogrande, traduce il dramma della condizione di chi lavora in Puglia incrociandone le generazioni. Giuseppe Di Vittorio (Michele Placido) è un contadino e sindacalista di inizio ‘900 e uno dei testimoni attivi del grande sciopero di Cerignola del 1904: le sue lotte non sono di certo meno drammatiche rispetto ai ricatti economici, etici e morali a cui è sottoposto un operaio dell’Ilva (Alessandro Minati) e alle condizioni disumane a cui è costretto un bracciante polacco (Antonio Bannò). Il risultato è una denuncia potente e desolante, che mostra come in più di 100 anni siano cambiati i nomi e le forme ma non le conseguenze dello sfruttamento, sempre più devastanti non solo per gli uomini ma anche per il territorio. La performance di Antonio Bannò merita una menzione particolare tanto è toccante e intensa. Michele Placido, invece, forte del suo istrionismo finisce con l’appoggiarsi un po’ troppo agli appunti, intaccando la credibilità di quella che rimane comunque una buona prova. Con il suo inconfondibile stile Wu Ming 2, insieme a Ivan Brentari, ci porta in Lombardia, più precisamente a Sesto San Giovanni: nel 1961, durante l’occupazione della fabbrica di Breda, il comune di Milano famoso per la concentrazione industriale divenne la Stalingrado d’Italia proprio per questa sua resistenza. Alcuni operai (Paolo Mazzarelli, Lino Musella, Vincenzo D’Amato, Cosimo Fascella, Alessandro Minati) rievocano quei giorni, assieme alla figura di Yuri Gagarin (Filippo Nigro): primo uomo nello spazio, anche lui di umili origini e operaio. Con “Meccanicosmo” il ricordo si confonde con il sogno: il celeberrimo cosmonauta appare ai dipendenti, suggerendo siano tutti fantasmi. Come il risultato attuale di tante passate lotte sindacali, viene da dire. “Festa Nazionale”, firmato da Michela Murgia, porta in scena la quotidianità di Gianna (Arianna Scommegna) addetta alle pulizie in una base Nato nell’Ogliastra, in Sardegna. Insieme a una collega (Fonte Fantasia), la donna accusa pacifisti, giornalisti, investigatori e tutti coloro che osano interrogarsi su quanto avviene in una base che, in fondo, “non è che un poligono di tiro dove non si fa mica la guerra ma ci si esercita soltanto a farla”. Gli ovvi residui di questa attività, pezzi di missili, bombe o armi che siano, che male possono mai fare? L’accusa di avvelenare il territorio e di essere responsabili di un aumento di mortalità della popolazione non sono che voci infondate. Lo conferma anche il suo medico… Grazie all’indubbio e poliedrico talento di Arianna Scommegna, “Festa Nazionale” fa sorridere amaramente delle osservazioni di questa donna semplice, devota al proprio lavoro come fosse una concessione: rappresenta, infatti, la possibilità di vivere come tutti gli altri. Ma a che prezzo? Può davvero il gioco del cricket rappresentare una minaccia per la “tranquilla” Monfalcone? Tratto da un fatto di cronaca – il sindaco Anna Maria Cisint lo ha effettivamente vietato, dopo un sopralluogo nel campo di via Boito dove i ragazzi della comunità bengalese erano soliti incontrarsi – e firmato da Marta Cuscunà ha come protagonista una contegnosissima esponente del Rione Enel (Francesca Mazza): lei, come tanti, ha iniziato a lamentarsi del degrado di cui sono vittima tutte le arie verdi interessate da questo infernale gioco venuto da lontano. Ma sarà la fuga dal circo di una tigre del bengala, rifugiatasi all’interno della Fincantieri locale per sfuggire alla cattura, a ricordare come la globalizzazione non può avere solo i vantaggi della manodopera servizievole e a basso costo. A Ulderico Pesce tocca il piacere e la responsabilità di raccontare la sua Basilicata. Lo fa con “Petrolio”, monologo da lui scritto e interpretato, che gira intorno alle vicende di Giovanni: originario della Val D’Agri, accoglie l’apertura negli anni ’90 del Centro Oli di Eni a Viggiano come un vero e proprio dono del cielo. Non solo trasformerà questa povera e spesso dimenticata regione nella “Lucania Saudita”, il più grande giacimento petrolifero europeo, ma gli permetterà di crearsi una famiglia e godere della tanto agognata stabilità economica. La fiamma che, dalla torre più alta, illumina il cielo è la prova della continua estrazione di petrolio: la scoperta, da parte di Giovanni, di una perdita piuttosto grave - che finisce per inquinare il territorio circostante fino ad arrivare al Lago del Pertusillo - suscita i suoi scrupoli di coscienza. Assieme a una notizia sconvolgente: l’ammalarsi dell’adorata figlia. Si rivolgerà, quindi, alla Madonna Nera di Viggiano: nera come il petrolio, lo spingerà a fare la cosa giusta? Pur premiando l’intento del testo, “Petrolio” finisce per crogiolarsi troppo a lungo nel tono patetico, diluendo la denuncia nel lacrimoso. Con “Saluti Da Brescello”, Marco Martinelli torna a far parlare Peppone (Gigi Dall’Aglio) e Don Camillo (Gianni Parmiani) o, quanto meno, le loro statue: anch’esse sdegnate dall’attuale situazione politica e sociale italiana, scendono dal piedistallo e prendono vita per denunciare un malcostume che va avanti ormai da troppo tempo. E lo fanno ponendo sotto i riflettori la triste e italianissima vicenda di Donato Ungaro: anche lui di Brescello, è un vigile urbano con la passione del giornalismo e a cui non basta limitarsi a fare multe. Inizia a collaborare con la “Gazzetta Di Reggio” e le sue indagini lo portano a scontrarsi con Loris Coffrini, il sindaco della cittadina che tanta parte avrà nel suo licenziamento dall’arma. Né il potere temporale né quello spirituale paiono in grado di salvare questo Paese dai suoi stessi vizi, reiterati dalla sua unità ai giorni nostri: a Peppone e Don Camillo non resta, infine, che tornare monumenti. Tratto dal suo libro “Appunti Per Un Naufragio”, “Scene Dalla Frontiera” è un’impressionante monologo scritto e interpretato da Davide Enia: attraverso parole semplici riassume tutta tragica quotidianità di chi, ogni giorno e suo malgrado, carica su di sé la responsabilità della vita e della morte dei naufraghi. Perché nuotare tra le acque di Lampedusa per cercare di salvare il maggior numero possibile di caduti in mare nel tentativo di raggiungere l’Italia vuol dire un inferno fatto di acqua salata, onde improvvise, scelte di sopravvivenza. Dove istinto e ragione non possono soccombere, pena una morte in più invece che in meno in un conto di vite umane che non torna mai. Gli arpeggi di chitarra di Giulio Barocchieri hanno il compito di sottolineare alcuni tra i momenti più salienti della narrazione che, però, sarebbe meglio non interrompere con il canto o con eccessive spiegazioni circa la genesi del testo. “Coffee shop” + “North by North-East una start-up” è un dittico curato da Vitaliano Trevisan. Affiancato in entrambi i testi da un eccellente Giuseppe Battiston e da Roberto Citran, l’autore prima prende in prestito “La Bottega del caffè” di Carlo Goldoni poi disegna un efficace affresco di redenzione dalla dipendenza di droga e di superamento della crisi economica alla Veneta: la mancanza di opportunità e prospettive può essere superata prendendo la direzione dell’Est. Con un po’ di fortuna il risultato potrebbe essere stupefacente, esattamente come il carico. Chiude la maratona “Redenzione”, un pungente lavoro di Renato Gabrielli: quando un viscido mattatore lombardo della televisione che fu cerca di tornare alla ribalta, quale migliore scusa della beneficenza? Il Gaga (Michele Di Mauro) conosce benissimo il suo lavoro e non ha problemi ad applicare la logica dell’edonismo tipico degli anni ’80 al nuovo millennio. Forte delle nuove tecnologie social, dopo aver reclutato una piccola troupe e un gruppetto di aspiranti famosi (Antonio Bannò, Antonietta Bello, Vincenzo D’Amato, Fonte Fantasia, Cosimo Frascella, Alessandro Minati, Paolo Minnielli, Martina Querini, Stefano Scialanga, Francesca Zerilli) ne sfrutta i vezzi generazionali per ottenere il massimo del rendimento con il minimo sforzo: fondare un nuovo movimento che riporti il Paese a un’epoca d’oro. Si chiamerà “Giovinezza”: un valore impossibile da mettere in discussione. O è anche altro? “Ritratto di una Nazione - L’Italia al lavoro” disegna un quadro autenticamente desolante dell’Italia ma è proprio grazie a questa capacità di denuncia che si vuol restituire al teatro il proprio ruolo originario all’interno della società civile. C’è solo da augurarsi che non rimanga una “semplice”, per quanto lunga e accuratissima, operazione di facciata. E che per primo il teatro ponga fine alle tante dinamiche fin qui denunciate.

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