Nachlass. Ciò che lasciamo, ciò che siamo.

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24 settembre 2017
Nell’intenso programma teatrale di inizio stagione che vede il susseguirsi di diverse manifestazioni e festival, numerose sono le proposte artistiche, assieme alle situazioni di confronto e di bellezza. Fra queste il collettivo tedesco Rimini Protokoll, che continua a esibire il suo lavoro presso il Teatro India per il Roma Europa Festival dopo la partecipazione a Short Theatre. “Quest’anno volevamo ancora provocare l’immaginario sulla costituzione di comunità inedite, e lanciare un invito a riflettere sullo stato interiore delle cose”. Questa la premessa dello Short, che decide di inaugurare e terminare la sua stagione su una riflessione ben precisa. Lo stato interiore è un concetto al quale si lega totalmente Nachlass, opera dei Rimini Protokoll. Il collettivo tedesco, famoso in tutto il mondo e premiato nel 2010 con il Leone D’Argento della Biennale di Venezia, affronta, infatti, una delle questioni che possono maggiormente definirsi introspettive e contemporaneamente collettive, perché appartenenti a tutti senza distinzione. Viene trattata come materia la fine della vita, il tempo ad essa connesso, le domande sull’assenza, ciò che lasciamo, ciò che resta quando non si è più; il tutto trasmesso in maniera originale e, appunto, collettiva. Un’esperienza condivisa dove lo spettatore si trova partecipe assieme agli altri di momenti singoli, tutti legati al macrotema. È narrazione pura quella che scaturisce dall’interpretazione del lavoro. Un corridoio buio e l’ingresso in una sala. Ai primi istanti di adattamento al luogo, al quale ci si ambienta con curiosità e si cerca di capire dove si è e cosa si sta preparando, segue lo studio, si notano i dettagli, otto porte che sono scorrevoli facciate di ascensore, con sopra un tempo che scorre e segna i minuti che mancano all’apertura. Sul soffitto, un ovale luminoso, una ripresa del continente terrestre dove vari punti di luce segnalano in tempo reale le morti che avvengono nel mondo. World deaths in a real time. Nessuna sensazione d’ansia in tutto ciò, piuttosto una suscitata consapevolezza della nostra precarietà, una premessa per addentrarci in quelle porte, in diverse vite. Tutto è attesa e descrizione. Le porte fredde nelle quali spetta entrare segnano l’attesa, il tempo scandito nell’attesa dell’apertura è attesa, le storie dietro quelle porte sono descrizione di un’attesa e soprattutto sono senso pieno del grande bisogno di dover lasciare una traccia. Si entra nelle varie stanze ed è un po’ come entrare in case altrui, in altre intimità e il filo rosso che lega ogni storia e ogni età è proprio questa tangibilità del tempo che passa, questa vicinanza al momento finale e questa speranza esplicita di trasmettere e tramandare. L’assenza data dal non essere viene spesso associata al vuoto e uno spazio vuoto, inteso sia come concetto assoluto, sia nella sua concretezza materiale, spinge spesso l’uomo a volerlo riempire. Il riempimento è ciò che abbiamo vissuto, e diviene nachless, ovvero il lascito, ossia quello che ha arricchito la nostra vita e vogliamo diventi ricordo, consiglio, insegnamento, magari qualcosa da poter valutare come impresa. Tutto questo concentrato si ritrova in ogni stanza, dove registrazioni o video diretti ci parlano e con voce accogliente raccontano le singole storie, come quella di un padre, malato terminale, che lascia un video, “lo ascolterete quando forse non ci sarò più” e in un’allestita stanza di motel ascoltiamo della sua passione per la pesca, mentre ci mostra una foto di sua figlia, posta sul comodino, di fianco al letto. Oppure la storia dell’attivista a capo di una delegazione che racconta i suoi progetti di cooperazione per tutelare la cultura e gli artisti in Africa, invitandoci a curiosare fra gli scatoloni imballati, così come l’anziana signora che ci mostra le sue foto invitando a osservarle da vicino, a toccare con mano i suoi ricordi sparsi su di un tavolo che è proprio il tavolo della nonna che tira fuori gli album. Le foto, poi, l’immortalità del tempo, la memoria che si preserva. Ogni stanza presenta oggetti che siamo invitati a toccare, esplorare, ci si può addentrare totalmente in quel microspazio, a stretto contatto con quelle vite, che raccontano un qualcosa anche un po’ nostro. E ancora c’è l’anziano turco che con un sorriso parla dell’organizzazione per il suo trapasso, ci invita ad assaggiare pezzi di lokun (il miele turco) sdraiati su di un tappeto, spiegandoci come i musulmani non vengono sepolti in bare, ma avvolti in teli e lui, trasferitosi in Svizzera, tornerà a casa sua, a Istanbul, perché come dice un detto turco: “Non importa quando sia dorata la gabbia, un usignolo vuole sempre tornare a casa”. E ancora il jumper che ci mostra l’ebbrezza, l’attimo prima del volo, l’adrenalina, la fiducia nel paracadute, il rischio che passa dal filmato trasmesso da una grata, in uno spazio grigio con musica post punk e tuta da paracadutista appesa. Segnali che fanno di uno spazio la manifestazione di una personalità. Come il golfino di lana bianca su di una sedia, vera testimonianza di un passaggio. L’ingresso, un piccolo teatro ricavato, dove si apre il sipario ed eccolo, il golfino, sulla sedia, unico protagonista, espressione dell’assenza e della presenza. Toccante momento, dove la voce di un’ex attrice ci racconta il suo sogno, la malattia degenerativa, la scelta di andare a morire in Svizzera. E poi la sala ultima, dove la percezione di noi stessi, della morte e degli altri viene fortemente amplificata. Una storia raccontata in tono asciutto, scientifico, da parte di uno studioso che indaga i processi di invecchiamento, di degenerazione della memoria. Una voce che ascoltiamo su un giro di sgabelli di fronte a una struttura con vetri nei quali scrutare dentro. Ogni postazione è separata e ognuno sta nel piccolo spazio distinto dall’altro da un ancora più piccolo confinamento, immerso nella sua personale esplorazione interna data dalle cuffie che vengono offerte. Isolati eppure connessi nel medesimo racconto che ognuno ascolta, introiettati nel nostro pieno centro e verso l’altro, grazie al gioco ottico di membrane che riflette sui vetri il nostro volto, a tratti sovrapposto a quello degli altri partecipanti alla seduta. Le emozioni variegate si accumulano e spingono da momenti di riflessione a sciolto sentire vicino alla tenerezza, riportandoci così al senso iniziale, il tema ripreso: la morte è esperienza unica eppure condivisa. E la realtà si mostra, ancora una volta, come la più grande e complessa materia per realizzare uno spettacolo. Uno spettacolo che si serve di più linguaggi in questo caso, un’installazione, un vero e proprio progetto curato nei dettagli. La realtà dunque è arte, e l’arte, anch’essa, è nachless, qualcosa che lasciamo, che testimonia che siamo stati. E i Rimini Protokoll fanno arte.

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