“Due migranti gasati in Marocco”. Sempre più vittime per i respingimenti in appalto, ma non fanno notizia

Giornalista, già responsabile delle edizioni regionali e vice capo redattore della cronaca di Roma de Il Messaggero, ha approfondito i problemi dell’immigrazione.
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29 settembre 2017
La stampa spagnola non ha dubbi: li hanno uccisi i gas sparati dalla polizia nel tunnel attraverso il quale speravano di poter entrare dal Marocco nel territorio dell’enclave di Melilla. Sono due migranti fuggiti dal Burkina Faso. Quattro compagni sono stati ricoverati con gravi sintomi di asfissia. Anche loro vengono dal Burkina, un paese che l’Europa considera “sicuro” nonostante sia sconvolto da continui attacchi di gruppi armati ribelli che colpiscono indiscriminatamente militari e civili mentre, di contro, il Comitato dell’Onu ha denunciato più volte abusi e violenze commessi dalle forze di sicurezza e dalla stessa guardia presidenziale, sollecitando una approfondita inchiesta sulla violazione dei diritti umani. A denunciare la tragedia dei sei giovani profughi è stata la giornalista Helena Maleno Garzon, attivista della Ong Caminando Fronteras, che ha raccolto la testimonianza dei sopravvissuti. Secondo quanto scrive il quotidiano El Faro de Melilla, citando come fonte appunto Helena Maleno, quei ragazzi, prima dell’alba di domenica 24 settembre, erano entrati nella condotta di una vecchia fognatura in disuso: una sorta di stretto tunnel che, secondo le voci raccolte tra la popolazione del posto, avrebbe dovuto portarli fino a Melilla, passando sotto la barriera di cemento e filo spinato eretta lungo la linea di confine. Al sicuro, dunque, dai controlli delle guardie di frontiera. I loro movimenti, in realtà, non sono sfuggiti alle forze di sicurezza marocchine e per di più, una volta nel condotto, si sono accorti che il passaggio sotterraneo era ostruito, senza alcuna possibilità di sbocco verso l’enclave spagnola. Erano ancora rintanati in fondo al tunnel quando – riferisce sempre El Faro – la polizia, per costringerli a tornare indietro, ha “sparato” del gas all’interno. Presumibilmente, uno o più lacrimogeni. L’aria deve essere diventata irrespirabile. Quattro ce l’hanno fatta a guadagnare l’uscita; gli altri due, forse per aver cercato di resistere o magari per essersi addentrati di più, potrebbero aver inalato i gas più a lungo, perdendo i sensi. Quando li hanno trovati erano ormai senza vita. Inizialmente, al momento del ricovero dei superstiti in ospedale, si pensava che il piccolo gruppo avesse tentato di saltare il vallo fortificato che separa il Marocco da Melilla, come fanno sempre più spesso numerosi migranti, sfidando la sorveglianza delle milizie marocchine. Non appena si sono ripresi, sono stati gli stessi superstiti a raccontare a Caminando Fronteras la storia della loro fuga attraverso quel condotto abbandonato. Una via più rischiosa e densa di incognite, ma che hanno scelto, con ogni probabilità, sulla spinta dei controlli diventati sempre più serrati, lungo la linea di confine delle enclave di Melilla e Ceuta e sulla costa mediterranea marocchina, da quando sulla “rotta spagnola” si riversano tantissimi migranti che non riescono più a passare dal Mediterraneo Centrale, imbarcandosi in Libia. Non a caso questa di Melilla è solo l’ultima di una serie di tragedie ricollegabili al maggior flusso di migranti e alla conseguente accresciuta vigilanza sulla rotta del Mediterraneo Occidentale. Vale la pena ricordare due episodi per tutti, anche questi con un pesante bilancio di morte. Entrambi si sono svolti in mare. E in entrambi sono state sollevate responsabilità delle forze di sicurezza. Il primo risale all’undici luglio, al largo di Alhucemas; il secondo al 31 agosto, di fronte a Ceuta. Alhucemas. Tre giovani sono annegati nel ribaltamento di un gommone carico di migranti nello stretto di Gibilterra. Il battello, uno zodiac pneumatico, era salpato da Alhucemas, sulla costa ovest del Marocco, puntando verso la Spagna. A bordo erano in 51 (tra cui 4 donne), provenienti da Guinea, Mali, Costa d’Avorio e Senegal. Stavano per entrare nelle acque internazionali e la Ong Caminando Fronteras, avvertita della partenza, aveva già allertato il servizio di salvamento marittimo spagnolo, quando è intervenuta una unità della Marina Imperiale, che ha intimato di invertire la rotta. Essendo ormai in vista la costa dell’Andalusia, i migranti hanno deciso di ignorare l’ordine. A quel punto, la tragedia. “Non è stata una fatalità: il naufragio è stato provocato dalla nave marocchina che ci ha intercettato – ha denunciato a Helena Maleno Garzon una delle quattro donne del gommone (la cui identità non è stata rivelata per tutelarla da possibili ritorsioni) – Quella nave ha puntato direttamente sulla nostra barca, fin quasi a speronarla e sollevando un’ondata che l’ha fatta rovesciare. Siamo finiti tutti in acqua e tre di noi sono scomparsi”. Lo stesso equipaggio marocchino ha soccorso i naufraghi. Ne sono stati recuperati 48. I superstiti hanno subito segnalato che mancavano tre compagni. Le ricerche successive hanno portato al ritrovamento di uno solo dei cadaveri. Nessuna traccia degli altri due dispersi, trascinati via dalla corrente dello Stretto. Ceuta. E’ una strage avvenuta a poche centinaia di metri dalla spiaggia. Le vittime sono sette, tutte donne. La Ong Caminando Fronteras non sembra avere dubbi: la tragedia non si sarebbe verificata se la Guardia Civil non avesse tentato un respingimento di massa, ai margini delle acque territoriali spagnole. Le sette donne erano su una barca salpata da Nador, pochi chilometri più a ovest, sulla costa del Marocco. A bordo, in tutto, erano 45. Secondo quanto hanno raccontato alcuni superstiti, quando sono arrivati in prossimità della spiaggia di Aguadù una motovedetta della Guardia Civil ha manovrato per intercettarli e bloccarli. “Abbiamo pensato tutti che volessero respingerci, per consegnarci al guardacoste della marina imperiale che ci inseguiva e stava per sopraggiungere”, ha riferito un ragazzo contattato per telefono da Caminando Fronteras. Per non cadere nelle mani della polizia marocchina, almeno 25 migranti si sono gettati in mare, cercando di raggiungere a nuoto o la motovedetta della Guardia Civil o la costa spagnola. La Guardia Civil ne ha recuperati e presi a bordo 13, facendoli poi sbarcare a Ceuta. Gli altri sono stati catturati dalla Guardia Costiera di Nador, che subito dopo ha preso a rimorchio la barca dei profughi, dove erano rimaste una ventina di persone. Il naufragio si è verificato di lì a poco: forse a causa di una manovra errata durante la fase più concitata del rimorchio, la barca si è sbilanciata, rovesciandosi di colpo. Sette delle otto donne che erano a bordo sono state trascinate sul fondo, annegando in pochi minuti: 5 venivano dal Congo e 2 dalla Guinea. Nelle ore successive è stato possibile recuperare solo quattro dei corpi, poi trasportati all’obitorio dell’ospedale di Nador. L’ottava donna e gli altri naufraghi sono stati raggiunti in tempo e salvati. E’ terribile, ma almeno – grazie a Ong come appunto Caminando Fronteras o Frontera Sur e all’attenzione di volontari e giornalisti come Helena Maleno Garzon – tragedie come queste non passano sotto silenzio. Quel silenzio complice che è invece calato sulla rotta del Mediterraneo Centrale. Da luglio, da quando cioè il controllo dei flussi è stato in pratica consegnato dall’Europa a Tripoli, non si sa quasi più nulla di quanto accade in mare e, ancora meno, “a terra”, nella stessa Libia, al confine sahariano, in Sudan, in Niger… Eppure non c’è da illudersi che la guardia costiera, la polizia e le milizie libiche o, più a sud, sudanesi, ciadiane o nigerine, usino metodi diversi da quelli delle forze di sicurezza marocchine. Né che sia cessata la strage registrata in tutti questi anni: nel Mediterraneo, ai posti di frontiera, lungo le piste del deserto, nei centri di detenzione, nei lager dei trafficanti. Al contrario: questa strage continua come e più di prima. Lo confermano vari indizi, incluse le notizie e le richieste disperate di aiuto che alcuni profughi bloccati in Libia riescono a far filtrare. Un caso emblematico della difficoltà di avere informazioni su ciò che accade nel Mediterraneo, ora che le Ong sono state allontanate, si è verificato il 27 agosto, quando cinque cadaveri sono stati trascinati dal mare sulla costa di Homs, un centinaio di chilometri a est di Tripoli. Ne ha parlato il rapporto quindicinale Maritime Update Libyan Coast, pubblicato dall’Oim, che fa periodicamente il punto sulle operazioni di soccorso e recupero di battelli di migranti sul litorale libico. Nella segnalazione non sono riferite le circostanze della morte di quei poveretti. Il ritrovamento di quelle cinque salme a Homs, tuttavia, non è ricollegabile ad alcun intervento di salvataggio nelle acque libiche: quelli segnalati sono tutti successivi, condotti a partire dal giorno 28 in poi e, peraltro, tutti molto più a ovest, nell’arco di costa compreso fra Tripoli e Sabratha. C’è da credere, allora, che quei cinque morti provengano da un naufragio sconosciuto, accaduto al largo di Homs, e che ci siano anche numerosi dispersi. Però non se ne è mai parlato. E, dunque, è come se non ci fosse mai stato. Lo stesso è capitato venti giorni prima, il 7 agosto, con due cadaveri affiorati sulla spiaggia di Zawiya, circa 50 chilometri a ovest di Tripoli: non sono emersi elementi sulla provenienza né risultano episodi di soccorso a barche in difficoltà che possano giustificare il ritrovamento di quei due morti. Ma quei morti testimoniano, anzi, denunciano, che qualcosa di grave deve essere accaduto. A terra è la stessa cosa. L’ultima notizia è la deportazione dal Sudan in Eritrea, tra la fine di agosto e l’inizio di settembre, di oltre 100 ragazzi che erano riusciti a fuggire dal regime di Isaias Afewerki: riconsegnarli ad Asmara equivale a condannarli come minimo a una lunga, durissima galera in un carcere militare, come disertori. Forse anche peggio. Ma in Italia nessuno ne ha parlato: né la politica, né i principali media. Il Coordinamento Eritrea Democratica sta raccogliendo numerose segnalazioni sulla nuova situazione che negli ultimi tre mesi si è creata innanzi tutto in Libia, ma anche nell’intero Corno d’Africa. Si tratta sia di testimonianze di profughi che in qualche modo sono riusciti ad arrivare in Italia, sia di racconti, per quanto frammentari, di ragazzi intrappolati nei centri di detenzione libici o sudanesi, con i quali si è riusciti a stabilire un qualche, precario contatto. Racconti che fanno tremare. E che potrebbero diventare materiale per un’istruttoria di fronte a una corte di giustizia contro la politica di chiusura e respingimento adottata dall’Italia, con il sostegno della Ue, per esternalizzare in Africa i confini della Fortezza Europa, appaltandone la vigilanza alla Libia in via prioritaria, ma anche a dittature come il Sudan, l’Egitto, l’Eritrea. Quella politica che ha sposato in pieno il principio “soldi in cambio di uomini” perseguito da tutti gli ultimi trattati siglati dalla Ue e dalle singole cancellerie degli Stati membri con vari governi africani o del Medio Oriente. A partire dai Processi di Rabat e di Khartoum fino al vantatissimo memorandum con la Libia siglato a Roma nel febbraio scorso.

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