Linguaggio Dada: potenza atavica e delicatezza per una coraggiosa Giselle.

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05 ottobre 2017

Chi non conosce Dada Masilo dovrà sicuramente approfondire questa coreografa contemporanea che sta lasciando un segno evidente e incisivo nella creazione di nuovi linguaggi. La giovane danzatrice sudafricana, formatasi alla Dance Factory di Johannesburg e al Performing Arts Research & Training Studios di Bruxelles, in poco tempo è emersa a conferma delle sue qualità espressive che la stanno, infatti, portando a girare il mondo con i suoi lavori. Maestra di fusioni e reinterpretazioni, dopo spettacoli come la Carmen e Il lago dei cigni, Dada propone una personalissima rivisitazione del famoso balletto classico Giselle. In scena, dunque, al Roma Europa Festival, un intreccio di trama classica su danza contemporanea in puro stile Masilo che comunica con i linguaggi della tradizione africana.

A questa danza, senza che ce ne accorgiamo, ci si ritrova subito affezionati. Oltre a trasmettere, infatti, ha la capacità di restare, una sensazione che si cuce internamente e viene via con noi, la si porta a casa. Nella potenza dirompente, in un condensato di energia che gioca costantemente col ritmo fino a renderlo esplosivo, si percepisce una sensibilità delicata, un tatto e una cura che trasportano nel profondo della danza, veicolo di messaggio. ''Bisogna saper essere vulnerabili, apparentemente fragili, indifesi, per poter scalfire il racconto'' rilascia in un’intervista.

In scena, la coreografa sudafricana presentata una Giselle che ribalta la storia e si fa sinonimo di ribellione. Lo spirito classico rivive in un rapporto col presente, con le nuove forme di espressione e gestualità, ma anche con i nuovi interrogativi, le nuove problematiche, i nuovi avvenimenti, gli eterni desideri. Un’esibizione spontanea e coinvolgente che pare non lasciar tempo al pensiero. Un pensiero che in realtà si manifesta in ogni singolo attimo dello spettacolo, portatore di un’informazione intensa, collettiva, sociale.

L’indiscusso spettacolo del repertorio classico romantico racconta la storia di Giselle, nata dalla più antica leggenda slava “Le Villi”, di cui parla Heinrich Heine nel suo De l’Allemagne (1835). È la storia di un amore impossibile, tra la giovane contadina Giselle e Loys, in realtà Duca Albrecht, che Giselle crede un semplice paesano. Hilarion, il guardiacaccia innamorato della fanciulla dubita della sincerità di Loys e tenta di metterla in guardia, ma Giselle non lo ascolta, così come non accetta i consigli della madre che le proibisce di danzare. Nella trama si intreccia anche il racconto leggendario delle Villi, fanciulle innamorate della danza, morte a causa del tradimento dei loro promessi sposi e condannate poi a vagare. Un susseguirsi di episodi nel primo atto portano allo svelamento dell’ identità di Loys, promesso sposo alla figlia di un altro nobile. Una volta appresa la notizia e sconvolta dal dolore, Giselle ingannata afferra la spada di Albrecht e muore tra le sue braccia. Dopo la tragedia, Hilarion tormentato vaga nella foresta e viene inseguito dalle Villi, a capo della loro regina che accoglie anche Giselle nel loro mondo ultraterreno. Intanto Albrecht, disperato dal dolore, si reca alla tomba di Giselle, la quale gli appare e cerca di nasconderlo sentendo l'avvicinarsi delle Villi che, trovato Hilarion, lo costringono a danzare fino alla morte. Ad Albrecht toccherà la stessa sorte se non fosse per Giselle che scongiura le Villi di risparmiarlo. Di fronte al loro rifiuto danzerà con lui fino all'alba, momento in cui le Villi scompaiono e Giselle con esse. E proprio qui la Masilo opera un riscatto totale. Al languore romantico si alterna invece la rivendicazione del torto subito, dalla realtà nascosta, dal dolore inflitto alla donna. Una ripresa della storia che riporta una chiave di lettura diversa, una prospettiva che non vuole smarrire o sminuire il sentimento, ma reagisce e si fa portatrice di una riflessione importante, la condizione della donna, il rispetto dell’individuo.

La contadina del villaggio nella Renania medievale, viene spostata nelle piantagioni, illustrate dalla serie Colonial Landscape di William Kentridge. Da un’Europa monarchica e cristiana dove la condizione patriarcale era una regola indiscutibile alla condizione della schiavitù coloniale e allo spirito che animava comunque i lavoratori sfruttati. Il sangue che arde si esprime con la musica perchè “lo schiavo è libero finchè danza”. All’apertura dove vengono riprese le musiche originali del balletto, seguono le tracce elaborate da Philip Miller che ha costruito una musica versatile basata su una riscrittura originale. In scena una coreografia viscerale che emerge e si distingue per personalità, un vero linguaggio Dada che si caratterizza di elementi propri e sospira dedizione alla ricerca, alla sperimentazione, alla fuoriuscita dagli schemi, anche dissacrante. Lo è la sua danza perchè lo è lei, “Sono donna, nera, completamente calva. Svelo nei mie balletti violenza, arroganza e nudità. Nulla di tutto ciò è permesso, giustificato, tollerato'' afferma parlando della condizione della donna in Sudafrica, una condizione però universale.

In scena gli undici danzatori, insieme alla coreografa, si incastrano fra ritmi meccanici e fluidità di forme, sinuosità di movimenti vicine agli scatti, rotazioni circolari e gesti netti. Espressività coreutiche tipiche delle danze africane che vivono in stretta relazione con la musica (tanto che in diverse lingue del continente non vi sono parole diverse per indicare le due attività culturali). Il ritmo tribale è danza pura e come tale innalza, eleva, muove verso soglie trascendentali, partendo, in questo caso, da una concretezza più tangibile che sa di terra, di piede che balla, percuote, batte sul pavimento del mondo, del battito e suono delle percussioni. Una vena erotica, sicuramente carnale percuote e attraversa il tutto e si specchia in uno svelamento della nudità naturale, spontaneo e semplice. La poliritmia dei movimenti del corpo che spazia nel visivo delle illustrazioni e nella complessità musicale, giunge all’utilizzo della parola che viene in diversi punti impiegata fra gemiti, parlato urla , conferendo così maggior impatto, un ulteriore strumento di connessione, comunicazione e coordinazione già eccellente fra i ballerini. Il gruppo è mosso, infatti, da un’intesa autentica, la ricerca e lo studio del gesto si apre in momenti alti che sanno di vero e proprio rituale condiviso. In forme, variazioni e uso delle luci che evidenziano i profili, si percepisce quasi la solennità di quelle statue tribali religiose, ritualistiche e magiche, importanti, comunicative. Figure potenti e fieramente interpretate come Myrtha, la regina delle Villi (Llewellyn Mnguni) o la principessa promessa sposa Bathilde (Liyabuya Gongo) affiancano una determinata, forte e al contempo dolce Giselle (Dada Masilo), umanissima nelle sue variazioni. Un crescendo importante dove un bacio intenso prima del congedo viene seguito da frustate scatenate, gesto di rivendicazione di una coraggiosa Giselle. Le stesse Villi, non più in tutù bianco, ma di rosso vestite, baccanti africane, marchiate dalla tradizione come protagoniste “cattive”, vengono anch’esse riscattate e infine la chiusura emblematica, dalle mani di ogni donna viene lanciata con intensità un pugno di polvere bianca che si dissolve in nuvola sfumata, un gesto carico che non arretra di fronte al dolore, ma lo accoglie, lo trattiene, lo trapassa e si lascia trapassare per poi liberarsene. Un gesto forte, deciso, che si imprime, che urla i silenzi racchiusi, le violenze, tutte. Si apre un momento che risuona come libertà.

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