Migliaia di profughi prigionieri a Sabratha dei trafficanti “riciclati” in gendarmi anti-immigrazione.

Giornalista, già responsabile delle edizioni regionali e vice capo redattore della cronaca di Roma de Il Messaggero, ha approfondito i problemi dell’immigrazione.
Condividi
16 ottobre 2017
Da 7 a 9 mila profughi prigionieri a Sabratha. Li hanno trovati i soldati dell’Anti Is Operation Room (Aior), il reparto militare libico che, dopo quasi venti giorni di battaglia, ha sconfitto e scacciato dalla città le milizie di Ahmed Dabbashi, l’ex trafficante che si è riciclato come “gendarme” anti immigrazione. A “convertire” Dabbashi, noto come Amu (“lo Zio”), sarebbe stato un compenso di 5 milioni di euro elargito dall’Italia, come si legge in una inchiesta della France Presse. Il ministro Minniti ha negato con forza che ci sia stato questo grosso passaggio di denaro per bloccare i flussi di migranti dalla Libia e, comunque, qualsiasi tipo di rapporto con bande di trafficanti, ma la France Presse ha tenuto il punto e il suo servizio è stato ripreso, oltre che dai giornali libici, da gran parte della stampa internazionale. In ogni caso – secondo le fonti citate dal Libya Herald e dal Libyan Express – sta di fatto che quelle migliaia di disperati erano rinchiusi in capannoni-prigione dei quali, prima di essere costrette ad abbandonare Sabratha, avevano il controllo la Amu Brigade e la Brigata 48, i due gruppi armati di Dabbashi. La scoperta è stata progressiva. Inizialmente si è parlato di 4 mila prigionieri. Stando a quanto riferisce il Libyan Express, riprendendo una nota dell’Associated Press, Essam Karrar, il capo della Civil Society Federation di Sabratha, ha precisato che i primi 1.700 ad essere liberati erano tenuti nascosti nella periferia ovest della città, un “feudo” di Dabbashi. Altri 2.300 circa erano sparpagliati un po’ ovunque, in centri di detenzione improvvisati. Nei giorni successivi, poi, se ne sono aggiunti almeno 3.000, portando così il totale a oltre 7.000. Ma non era ancora finita. In vari campi nei dintorni della città ne sono stati trovati ancora a centinaia: secondo alcune fonti addirittura quasi 2.000, sicché in tutto sarebbero 9.000. Si tratta, presumibilmente, di migranti intercettati e bloccati prima dell’imbarco o magari in mare, al largo delle coste libiche, e riportati a Sabratha. Resta da capire come mai tutte quelle migliaia di ragazzi, donne e uomini, una volta fermati, non siano stati liberati o affidati, per garantire un minimo di assistenza, alle strutture gestite dal Governo di Tripoli, dal quale dipende la Municipalità di Sabratha e al quale, in teoria, dovrebbe rispondere anche Ahmed Dabbashi. Per parte sua, come ha riportato l’Associated Press, Essam Karrar non sembra avere dubbi: “Al Amu questi migranti intendeva deportarli…”. Dove, quando e come non è chiaro. Sembra difficile, in ogni caso, ipotizzare un programma di “rimpatrio volontario”, visto che la stessa Organizzazione Internazionale per l’Immigrazione (Oim) e l’Unhcr, il Commissariato Onu per i rifugiati, hanno saputo di queste migliaia di migranti tenuti prigionieri solo dopo la fine della battaglia di Sabratha. Il commento del Libya Herald è indicativo: “La scoperta di migliaia di migranti irregolari in posti controllati da Ahmed Dabashi, il capo della Amu Brigade, sembra smentire quanto aveva affermato lui stesso un mese fa: che cioè aveva cessato l’attività di trafficante e ormai operava per contrastare il contrabbando di uomini. Già allora, anzi, c’era chi sosteneva che stava magari cercando di porre fine al contrabbando organizzato dai suoi rivali, ma non alle sue operazioni…”. Ancora più esplicito Saleh Graisa, il portavoce dell’Anti Isis Operation Room, che ha accusato l’Amu Brigade di aver sequestrato e nascosto quelle migliaia di migranti in attesa di poterli immettere in un secondo tempo nel lucroso “giro” del traffico di uomini: lo ha scritto il Libyan Express, precisando di non essere riuscito a contattare Ahmed Dabbashi per una eventuale replica a questa pesante contestazione. C’è da chiedersi, allora, quale sorte attendesse quelle migliaia di prigionieri. Tra l’altro, la detenzione, in quelle galere improvvisate, doveva essere durissima, specie per i bambini o gli adolescenti e le donne, molte delle quali incinte. Lo dimostra lo stato in cui erano quando sono stati liberati: debilitazione, denutrizione, bisogno urgente di medicine e di cure mediche, segni evidenti di maltrattamento. Del primo soccorso si è fatta carico la Migrace Organisation, una Ong libica. Successivamente gran parte degli ex prigionieri sono stati trasferiti nel vicino villaggio di Daham, dove, con l’aiuto dell’Oim e dell’Unhcr, è stata allestita, in un grande hangar, una struttura di assistenza provvisoria, in attesa di poterli smistare in altri centri: a Gharyan ma soprattutto a Tripoli. Molti tra quelli meno provati, forse quasi 2.000, una volta liberati, se ne sono però andati via da soli, magari a piedi, puntando a ovest, verso Zuwara, la città portuale situata a oltre 100 chilometri da Tripoli e a soli 60 dal confine con la Tunisia. . Un altro punto da chiarire è il ruolo di Ahmed Dabbashi. Se le rivelazioni della France Presse (peraltro in parte anticipate dalla Reuters) sono fondate, qualcuno dovrà spiegare come sia stato possibile trattare e affidarsi a un personaggio di questo genere. Senza contare che, con la sconfitta subita dalle sue milizie e la “cacciata” da Sabratha, di fatto ora non può più svolgere il compito di “gendarme” che gli sarebbe stato affidato, sicché quei 5 milioni di euro, sempre che siano stati effettivamente versati o anche solo promessi, non solo sono un obbrobrio sotto il profilo morale ed etico, ma si sarebbero rivelati pure un “investimento sbagliato”. Del resto non sarebbe l’unico calcolo errato fatto dall’Italia in Libia. Un altro esempio attualissimo viene ancora da Sabratha. L’Italia ha sempre trattato “con i guanti” il sindaco Hassen Dhawadi, eletto tre anni fa, lodandone l’impegno contro i trafficanti di uomini e il contrabbando di petrolio. Anzi, il 10 settembre si è recato in visita ufficiale a Sabratha lo stesso ambasciatore Giuseppe Perrone. Ora però Hassen Dhawadi – ha riferito il Libya Herald – è accusato da molti di essere un simpatizzante dei gruppi islamisti ed anzi di aver collaborato con le milizie dell’Isis che due anni fa si erano installate alle porte della città: avrebbe cominciato a prendere le distanze e a svolgere un ruolo anti Isis soltanto dopo l’attacco aereo americano contro la grossa base che i miliziani fedeli al Califfato di Al Baghdadi presidiavano nell’immediata periferia. Non solo: lo stesso comportamento equivoco avrebbe tenuto in occasione della battaglia dei giorni scorsi: si sarebbe cioè schierato con l’Anti Is Operation Room solo poche ore prima che conquistasse il pieno controllo della città, costringendo le milizie di Dabbashi a ritirarsi. Proprio con queste motivazioni il 13 ottobre c’è stata a Sabratha una rumorosa manifestazione di protesta per chiedere di destituire Dhawadi, mentre i promotori di un’altra protesta, ad Ajilat, tra Sabratha e Zuwara, chiedevano di affidare il controllo e la sicurezza dell’intera zona all’esercito del generale Khalifa Haftar, l’uomo forte di Tobruk, che non ha mai fatto mistero della sua ostilità contro il governo di Tripoli. Intanto i flussi di migranti verso l’Italia continuano. Rallentati e in cerca di nuove rotte, ma continuano. Lo dimostrano gli ultimi arrivi, quasi 800 persone sbarcate in Sicilia giovedì 13 ottobre. In particolare i 606 salvati in più operazioni di soccorso dalla nave Aquarius, della Ong Sos Mediterranee: quasi tutti erano salpati da Garabulli, oltre 100 chilometri a est di Tripoli e quasi 200 da Sabratha, un porto finora poco usato dai trafficanti ma che, negli ultimi tempi, ha fatto registrare un numero crescente di partenze e, probabilmente, verso la fine di agosto, anche un naufragio di cui non è stata data mai notizia ma “denunciato” dallo spiaggiamento di almeno 5 cadaveri il giorno 27. Per non dire della nuova rotta tunisina alla quale, stando a informazioni di stampa, sarebbero interessate anche organizzazioni criminali italiane. Gli arrivi attraverso questa via di fuga si sono moltiplicati nel mese di agosto e soprattutto di settembre. E anche qui c’è già stata una strage, proprio in questi giorni: almeno 40 morti (ma fonti tunisine dicono addirittura 50) nel naufragio di un peschereccio carico di migranti, speronato dalla nave militare che manovrava per cercare di bloccarlo. “Quello speronamento – accusano i parenti delle vittime, citando la testimonianza di uno dei superstiti – non è stato accidentale, ma conseguenza diretta dell’azione di forza condotta dalla Marina di Tunisi: per indurre i migranti a tornare verso l’Africa, la nave militare prima ha sparato violenti getti d’acqua contro il loro battello e poi ha tentato di tagliargli la rotta, finendo per travolgerlo e mandarlo a picco in pochi minuti”. In questa linea dura adottata dalla Marina tunisina c’è chi vede la risposta a una pressante richiesta italiana di blindare le coste e impedire le partenze: l’ennesimo capitolo del progetto di esternalizzare le frontiere della Fortezza Europa, dandone in appalto la sorveglianza alla polizia di stati terzi in Africa. Sembra confermare questa ipotesi la decisione presa il 12 ottobre dal Viminale di trasferire alcune motovedette della Finanza nelle acque di fronte ai porti di Sfax e Monastir, a supporto dell’azione condotta dalla Guardia Costiera di Tunisi. Con due opzioni per i finanzieri in merito ai battelli intercettati: segnalarli ai pattugliatori tunisini, perché li costringano a invertire la rotta; oppure, nel caso si trovino ormai in prossimità o all’interno delle acque italiane, scortarli sino al porto più vicino e identificare tutti i migranti a bordo. Una delegazione di Tunisi, presente al Ministero dell’Interno quando è stata discussa questa strategia, si è già detta favorevole. “L’obiettivo comune – dicono al Viminale – è ‘prosciugare’ la nuova rotta africana”. Neanche una parola sul fatto che, per l’ennesima volta, si profilano dei respingimenti di massa indiscriminati, in mare aperto, senza dare la possibilità ai migranti di presentare una richiesta di asilo, come prevedono il diritto internazionale e la Convenzione di Ginevra del 1951.

Leggi anche