Meno arrivi di profughi dalla Libia, ma più morti e sofferenze in Libia

Giornalista, già responsabile delle edizioni regionali e vice capo redattore della cronaca di Roma de Il Messaggero, ha approfondito i problemi dell’immigrazione.
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02 novembre 2017
I migranti sbarcati in Italia dal primo gennaio ad oggi sono diminuiti del 30,13 per cento rispetto allo stesso periodo del 2016. Il mese di ottobre in particolare ha fatto registrare un crollo del 78 per cento. Gli arrivi al 31 ottobre risultano così 111.397 a fronte dei 159.427 dello scorso anno. Molto rilevante è soprattutto la diminuzione registrata proprio nel mese di ottobre: 5.984 persone contro le 27.384 del 2016. E di quei quasi 6 mila migranti sbarcati, solo 1.917 sono partiti dalla Libia. Sono i dati riferiti da una nota Ansa citando un comunicato del Viminale, che non nasconde una certa soddisfazione: i numeri sembrano confermare il successo della politica attuata con il memorandum che, firmato il 2 febbraio scorso, ha formalmente affidato alla Libia il controllo dell’immigrazione sulla rotta del Mediterraneo Centrale, con il compito di fermare i profughi prima che si imbarchino o subito dopo, in mare, magari quando sono ancora nelle acque territoriali africane. Ma è davvero un successo di cui “vantarsi”? Se il problema è l’efficacia delle barriere erette per bloccare, respingere e trattenere in Africa i migranti e i richiedenti asilo, non c’è dubbio: è un successo. Un successo, però, conseguito sulla pelle e sulla vita stessa dei disperati che bussano alle porte della Fortezza Europa per chiedere aiuto e protezione. Perché la politica messa in campo non tiene conto minimamente della loro sorte: li scaccia e basta. Senza stare a sottilizzare sui mezzi usati e sulle conseguenze. Un dato che emerge evidente, infatti, è che le vittime non stanno diminuendo. Al contrario: smentendo una delle giustificazioni di fondo della politica dei “muri” – “Meno partenze significano anche meno morti” – le vittime, in proporzione agli arrivi, sono in netto aumento. Nell’arco del 2016, in tutto il bacino del Mediterraneo, tra morti o dispersi in mare e morti a terra, si è avuta una vittima ogni 68 migranti sbarcati in Europa. Quest’anno, fino al 31 ottobre, sempre in tutto il Mediterraneo, il rapporto è di un morto ogni 51, vale a dire 3.162 vittime, tra mare e terra, a fronte di circa 163 mila migranti arrivati in Europa, incluse Romania e Bulgaria. Sulla rotta dalla Libia il bilancio è ancora più pesante: nel mese di ottobre, a fronte di 1.917 sbarchi, i morti accertati risultano 57, dei quali uno a terra e 56 in mare. La proporzione è pesantissima: 1 vittima ogni 31 persone salvate, senza contare i dispersi, un numero imprecisato ma sicuramente rilevante. Il punto è proprio questo: dei morti non si parla più. C’è da pensare che la Marina libica, delegata a coordinare e organizzare le operazioni di soccorso e soprattutto di “blocco”, dia comunicazione dei naufragi soltanto quando ci sono dei sopravvissuti e, dunque, dei testimoni. Top secret, a quanto pare, quando invece nessuno si salva. Dei 56 morti in mare in ottobre, infatti, sono arrivate notizie dettagliate solo sui 19 che erano sul barcone affondato il giorno 12 al largo di Zawiya insieme a 6 compagni che, unici ad indossare un giubbotto salvagente, sono riusciti a restare a galla fino all’arrivo dei soccorsi. Delle altre 37 vittime si sa poco o nulla. Anzi, non se ne è saputo niente fino a che i corpi non hanno cominciato a spiaggiarsi: uno il giorno 19 ad Al Maya, circa 30 chilometri a ovest di Tripoli, e 36 a Homs, la città portuale situata quasi 120 chilometri a est di Tripoli, dove sono stati recuperati in due fasi distinte: 28 il giorno 13 e 8 il giorno 22. Appare scontato che la salma affiorata ad Al Maya, a oltre 150 chilometri di distanza, non è ricollegabile a quelle trovate a Homs: l’unico indizio, sia pure molto labile, è che possa trattarsi di un migrante caduto in mare da uno dei gommoni salpati dalla costa fra Tripoli e Sabratha, la base di imbarco più usata dai trafficanti. Meno ancora si sa dei morti portati dal mare a Homs. L’ipotesi più probabile è che siano le vittime di un naufragio rimasto sconosciuto: dovevano essere a bordo di un barcone o di un gommone partito proprio dalla zona di Homs e andato a picco in circostanze mai chiarite. L’unica cosa certa è che a un certo punto il mare ha cominciato a restituire decine di corpi. Corpi che, oltre tutto, sono stati lasciati flottare in acqua per giorni prima di essere recuperati, come hanno denunciato alcune organizzazioni umanitarie, rilevando tra l’altro che, a giudicare dal “carico” medio dei battelli degli scafisti, devono esserci anche decine di dispersi. Non è il primo “mistero” di questo genere. Il 20 settembre, alcune miglia al largo tra Sabratha e Zuwara, dopo essere rimasto alla deriva per quasi tre giorni, è affondato un barcone con oltre 130 persone a bordo. Più di cento le vittime, tra morti e dispersi. I giornali italiani ne hanno scritto come della “prima grossa tragedia in mare” dopo l’accordo tra Italia e Libia. In realtà vari indizi inducono a credere che ce ne sia stata prima almeno un’altra, di tragedia, o forse addirittura due, con numerose vittime. Il 27 agosto sono affiorati a Homs i corpi di cinque migranti subsahariani. Lo ha riferito il rapporto Maritime Update Libyan Coast, riportando la notizia insieme a quella del salvataggio di 780 migranti in cinque diverse operazioni condotte tra il 21 agosto e il 6 settembre a Tripoli, Zawiya e Sabratha. Al ritrovamento delle cinque salme ad Homs il 27 agosto non corrisponde alcuna azione di soccorso o ricerca: l’intervento più “prossimo” risulta quello del 28 agosto, ma a Tripoli, 24 ore dopo e a oltre cento chilometri di distanza. Niente a che vedere, dunque. Ne consegue che quei cinque morti sono con ogni probabilità le vittime di un naufragio avvenuto di fronte a Homs ma rimasto sconosciuto. E anche in questo caso è lecito ipotizzare che ci siano decine di dispersi. Solo che nessuno ne ha mai parlato. All’inizio di agosto, sono affiorati 6 cadaveri a Mellitah, circa 70 chilometri a ovest di Tripoli, il giorno sei e altri due, il giorno sette, a Zawiya, a 20 chilometri di distanza, più a est. Anche in questo caso la notizia è stata riportata dal rapporto Maritime Update Libyan Coast, senza però scendere in particolari sulle circostanze della morte e del ritrovamento. Sulla costa a ovest di Tripoli in quei giorni risultano diverse operazioni di soccorso: a Tripoli stessa, a Sabratha e anche a Zawiya. Non però a Melitah. Resta da stabilire, allora, da dove siano arrivate almeno le sei salme affiorate a breve distanza da questa spiaggia. Senza contare, poi, i morti “a terra”. Ad esempio, i sedici migranti egiziani morti di sete nel Sahara, trovati tra il 4 e il 5 settembre da una pattuglia di militari del Libyan National Army, 310 chilometri a sud est di Tobruk; un giovane eritreo morto di stenti in un lager libico, come ha riferito il 4 ottobre un suo compagno a una fotoreporter italiana; tre ragazzi uccisi o morti in seguito ai maltrattamenti da parte delle guardie nel carcere in cui erano rinchiusi, nella zona di Tripoli, come emerge dal dossier “Esodi” redatto e presentato in una conferenza stampa, il 5 ottobre, da Medici per i Diritti Umani. E’ il segnale che, con il blocco della rotta del Mediterraneo Centrale, la “trappola libica” provoca sempre più morti anche nel deserto e nei centri di detenzione. Colpisce, in particolare, la morte di quei ragazzi nell’inferno dei lager. Quell’inferno che la “politica dei muri” si ostina ad ignorare o addirittura a negare, ma che trova conferma, oltre che nei racconti, nei corpi stessi dei migranti che sono riusciti a lasciare la Libia. Corpi – testimoniano i medici che li hanno soccorsi – che recano evidenti i segni delle torture, dei pestaggi sistematici, delle violenze di ogni genere subite per tutto il periodo della carcerazione: settimane, mesi interi. In particolare le ragazze e le giovani donne. “Sono davvero tanti – ha dichiarato al quotidiano spagnolo El Diario Madeleine Habib, coordinatrice di Sos Mediterranee, dopo uno degli ultimi salvataggi con la nave Aquarius – quelli che hanno bisogno di assistenza medica a causa degli abusi subiti in Libia. Molto più di prima. La maggioranza è stata sottoposta a trattamenti terribili. A quanto pare, le violazioni dei diritti umani sono diventate pratica abituale in Libia e continuano a moltiplicarsi e a prolungarsi nel tempo, ora che il blocco impedisce di arrivare o comunque ha rallentato il flusso verso l’Europa”. Tuttavia, a quanto pare, aver “rallentato i flussi” è considerato un “successo” da parte del Viminale.

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