Dal vertice di Abidjan un piano per l’Africa o per l’Europa?

Giornalista, già responsabile delle edizioni regionali e vice capo redattore della cronaca di Roma de Il Messaggero, ha approfondito i problemi dell’immigrazione.
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04 dicembre 2017
Dal vertice di Abidjan, in Costa d’Avorio, l’Europa è uscita impegnandosi a “scrivere”, insieme agli Stati africani, un nuovo piano per eliminare i centri di detenzione e i campi profughi in Libia. Secondo i calcoli dell’Unione Africana, si tratta di liberare e far uscire dalla Libia qualcosa come 700 mila persone. Un’impresa enorme. Le linee guida, sia pure in modo sommario, sono già state indicate. Il primo punto è individuare i campi. Ad Abidjan è emerso che sono almeno 42, sparsi in tutto il territorio. Di molti, però, non si sa esattamente dove. Anzi, nemmeno il numero complessivo è certo. C’è da credere che, in realtà, siano molti di più di 42, tenendo conto anche dei lager gestiti direttamente dai trafficanti. Basti ricordare gli oltre 20 mila migranti, forse addirittura 26 mila, scoperti nel mese di ottobre a Sabratha: rinchiusi in più centri o capannoni adattati a prigione, di loro non si è mai saputo nulla fino alla battaglia che ha sottratto la città al controllo della Brigata 48 e della Brigata Dabbashi, le milizie di Amu Al Dabbashi, il trafficante riciclato come gendarme anti immigrazione per conto dell’Italia in cambio – ha scritto la France Presse – di 5 milioni di euro. Già il fatto che manchino informazioni e indicazioni precise pone degli interrogativi. Ma intanto si partirà dai campi conosciuti. Anzi, soltanto da quelli noti della zona di Tripoli, che è l’unica dove il governo di Fayez Serraj riesce ad esercitare un qualche controllo. Per il resto della Libia, per ora nulla di nulla: si dovrà prima scendere a patti anche con il generale Khalifa Haftar, l’uomo forte di Tobruk (che assicura di controllare oltre l’80 per cento della Libia, ribadendo di continuo che marcerà presto anche su Tripoli), oltre che con i capi delle tribù locali, specie nel Sud. In ogni caso, nei primi tre mesi del programma, sino alla fine di febbraio 2018, si prevede la partenza di 15 mila migranti: 5 mila al mese. Quindicimila sono appena il 2,14 per cento del totale. Ovvero, con questo ritmo di 5 mila al mese, per arrivare ai 700 mila indicati dall’Unione Africana ci vorranno 140 mesi. Undici anni e mezzo. Un tempo biblico. E anche ammesso che, una volta a regime, la macchina funzioni più velocemente (ma non se ne vedono le premesse), appena qualche anno in meno. Sarà, però, sempre un tempo misurabile in anni. Nel frattempo, nell’arco di questi anni, quale sorte attende i profughi intrappolati in Libia? Non ci sono risposte. Peggio: non sembra che si sia nemmeno posto il quesito. In compenso è già stato calcolato il costo di questa prima fase dell’operazione: da 60 a 80 milioni di euro, che verranno prelevati dai 2,9 miliardi del “fondo Africa” già finanziato. Quel fondo, cioè, che dovrebbe servire per promuovere sviluppo e cooperazione in Africa ma che continua a servire invece per progetti di respingimento dei migranti. Tutto sulle spalle dell’Africa Dopo il mese di febbraio 2018 dovrebbe iniziare la fase 2 del programma, quella destinata ad affrontare la questione vera: la liberazione e il trasferimento di tutti gli altri 700 mila migranti presenti in Libia. Una volta individuati i campi, bisognerà creare le condizioni per accedervi e per svuotarli poi, uno ad uno, in sicurezza e sapendo in partenza dove destinarne i prigionieri. A parte i tempi e le difficoltà “sul terreno”, c’è da fare i conti anche con i costi di un’operazione del genere: se la spesa prevista è in proporzione alla prima fase di tre mesi, di euro ne serviranno a miliardi. Altro punto. Dove andranno i profughi fatti uscire dalla Libia? La previsione è che vengano rimpatriati direttamente oppure dopo una sosta in un paese di transito, dove dovrebbero essere ospitati in uno dei grandi hotspot da costruire e di cui si parla da anni. Ad esempio in Niger ma anche in altri Stati, come il Ruanda, che hanno offerto la propria disponibilità nel vertice di Abidjan. Su questo le cancellerie europee sono state inflessibili: potranno arrivare in Europa soltanto quelli che hanno diritto ad essere accolti come rifugiati o a un’altra forma di tutela internazionale. Bruxelles ha già in cantiere un piano di massima per 50 mila persone, mettendo in campo però anche interventi per chiudere le rotte da tutta l’Africa vero la Libia o comunque per blindare i confini libici meridionali, in pieno Sahara. Una linea che nasce direttamente dall’ormai sperimentato programma di esternalizzazione delle frontiere della Fortezza Europa. Anche i 50 mila “arrivi” previsti, infatti, sono un numero di “chiusura” anziché di “apertura” delle frontiere come viene presentato. Nei primi undici mesi del 2017, l’anno vantato come un successo perché si è riusciti a ridurre i flussi – in Italia, ad esempio, si registra un calo del 33 per cento – sono sbarcati in totale in Europa oltre 176 mila migranti. Molto più del triplo di quelli programmati in arrivo con il nuovo “Piano Africa”. Allora sembra chiaro che 50 mila in tutto sono una inezia a fronte delle centinaia di migliaia “scaricati” invece sui paesi africani. La giustificazione dei governi europei è che quei 176 mila arrivati da gennaio a oggi sarebbero in gran parte “migranti economici” e non rifugiati. Tutto sta a vedere che cosa si intenda per rifugiati. Quali sono i criteri, cioè, per la concessione dell’asilo. E’ proprio qui il punto. L’Europa sta “lavorando” a restringere sempre di più questi criteri. Ne è un esempio evidente il decreto Orlando-Minniti, che ha eliminato un grado di giudizio per i richiedenti asilo, in modo da ridurre drasticamente il numero degli esuli “ammessi”. Il conto è facile: in prima istanza mediamente viene accolto circa il 40 per cento delle domande, ma i magistrati di appello, finora, hanno giudicato fondati oltre il 60 per cento dei ricorsi, portando così la percentuale finale delle richieste accettate, di anno in anno, a non meno del 70 per cento. Abolire il secondo grado di giudizio, dunque, ha significato in concreto moltiplicare espulsioni e respingimenti. Gli Stati “sicuri” Questa “invenzione” Orlando-Minniti ha tutta l’aria di una “furbata” all’italiana, ma l’Europa non sembra da meno. E’ dalla seconda metà del 2016 che a Bruxelles si parla di stilare un elenco di Stati “sicuri”, verso i quali si possono rimandare i richiedenti asilo respinti, perché garantirebbero una “protezione sufficiente” e, dunque, una “sufficiente tutela” dei diritti. Ne ha parlato per primo il commissario Ue per l’immigrazione Dimitris Avramopoulos (quello delle barriere di filo spinato lungo il fiume Evros tra la Grecia e la Turchia quando era ministro degli interni del governo di Atene) e l’idea si è fatta strada, tanto che sarebbe ora una delle basi dei nuovi criteri per accogliere o meno un profugo. Ma che cosa si intende per Stato “sicuro”? Un esempio si è avuto con il ricatto imposto all’Afghanistan, costretto, nel mese di ottobre 2016, ad accettare di riprendersi 80 mila profughi come condizione capestro per un finanziamento di 3,7 miliardi, su cui l’Europa si era già impegnata da tempo, nel contesto dei piani di ricostruzione e sviluppo del paese. La giustificazione di Bruxelles fu, appunto, che ormai l’Afghanistan può considerarsi sicuro. Peccato che, poche settimane dopo questo ricatto, il rapporto annuale dell’Onu abbia definito il 2016 l’anno peggiore per l’Afghanistan dal 2001 (quando iniziò la guerra), con ben 11.500 vittime civili nell’arco dei dodici mesi. Se questi sono i criteri, c’è quanto meno da preoccuparsi… Per ora, stando alle indiscrezioni, fra gli Stati “non sicuri”, oltre alla Siria e all’Eritrea (già indicate da Avramopoulos nel 2016) dovrebbe essere inserita anche la Somalia. Ma gli altri? Ad esempio, il Sud Sudan, sconvolto da quattro anni di guerra civile. Oppure, i sudanesi del martoriato Darfur, massacrati dalle milizie del dittatore Al Bashir. Gli etiopi dell’Ogaden, dove si trascina da anni una sanguinosissima lotta indipendentista, o dell’Oromia, dove le proteste popolari sono state soffocate nel sangue e con la galera. La Nigeria, dove imperversano i terroristi di Boko Haram, che hanno proclamato un governatorato sottomesso all’Isis. E poi, le crisi di cui nessuno parla mai: la Repubblica Centrafricana, il Mali, il Congo. E il martirio dello Yemen, dove la guerra è alimentata anche dalle bombe vendute dall’Italia alla coalizione araba, che le usa per colpire indiscriminatamente persino obiettivi civili come ospedali, scuole, moschee, mercati, campi profughi, condotte idriche. E si potrebbe continuare a lungo. Senza contare i profughi – perché di profughi si tratta – scacciati dalla siccità, dalla carestia e dalle epidemie di colera che ne sono seguite, da disastri ecologici, dalla miseria provocata dal land grabbing in intere regioni, dalla fame endemica e dalla mancanza assoluta di una prospettiva di “sviluppo umano”. Senza contare – ed è un punto fondamentale – che respingere in base al paese di provenienza significa avallare i respingimenti di massa indiscriminati, in aperta violazione del diritto internazionale e della Convenzione di Ginevra, che impongono di esaminare individualmente, una per una, le domande di asilo, ascoltando e valutando le singole storie. Allora, ancora una volta, cresce il sospetto che l’Europa voglia chiudersi e riversare tutto il problema sull’Africa. E intanto, al di là delle promesse fatte ad Abidjan, tutto procede come prima e peggio di prima. L’ultimo esempio è venuto ancora una volta dalla Libia, dove la polizia di Tripoli si è vantata di aver arrestato 125 migranti, quasi tutti eritrei o somali, rinchiusi in un capannone lungo la costa, nel distretto di Jihad, in attesa di imbarcarsi. “La prova che dovevano partire alla prima occasione – ha detto il colonnello Shaaban bin Hariz, dei servizi di sicurezza – è che molti avevano con sé un giubbotto di salvataggio”. E’ l’ennesima conferma che ormai in Libia i migranti sono bloccati a priori (prima ancora, cioè, che riescano a imbarcarsi e dunque non in una situazione di pericolo da cui “occorre salvarli”, sia pure riportandoli poi in Africa) anche quando hanno i “titoli” per chiedere asilo e protezione in Europa, come appunto gli eritrei e i somali. Non stupisce che la Libia si comporti in questo modo: non ha mai firmato la Convenzione di Ginevra sui diritti dei rifugiati e considera tutti gli stranieri “irregolari” come criminali da arrestare. Quello che colpisce è che l’Italia e l’Europa avallino questo comportamento ed anzi lo alimentino fornendo alla polizia di Tripoli finanziamenti, mezzi, assistenza tecnico-logistica, addestramento. E’ anche questa, di fatto, una forma di respingimento collettivo. Non fa granché differenza che materialmente il “lavoro” venga svolto dalle milizie di Tripoli. Il “mandato” arriva dall’Italia e dall’Europa, che potranno dunque essere chiamate in causa come corresponsabili della sorte che ora attende quei 125 giovani (101 uomini e 24 donne) e migliaia di altri come loro nei lager dove sono stati deportati. A maggior ragione se a questo arresto seguirà l’espulsione e il rimpatrio forzato, una prospettiva che per gli eritrei significa come minimo la galera come disertori in tempo di guerra e per i somali il ritorno nel caos di un paese travolto dal terrorismo, dalla carestia, dal colera. Un Piano Marshall A fronte di tutto questo, l’asso nella manica dell’Europa è l’impegno a varare un Piano Marshall per l’Africa: un programma che possa favorire lo sviluppo e creare una economia capace di “trattenere” i giovani, riducendo la spinta ad emigrare. Si parte con un impegno di 44 miliardi di investimenti e poi altri 30/40 dopo il 2020, nella speranza che si possa arrivare fino a 350/400 miliardi con interventi privati. Che serva un Piano Marshall per l’Africa non ci sono dubbi. Anzi, può essere proprio questo il primo passo per cambiare finalmente la politica del Nord nei confronti del Sud del mondo, abbandonando tutte le nostalgie neocoloniali. Ad alcune condizioni, però. La prima è che si mettano al centro i diritti e la pari dignità: che cioè questi finanziamenti giungano davvero a promuovere le condizioni per uno “sviluppo umano” in Africa e non si traducano, invece, in un sostegno a “governi amici”, più attenti agli interessi europei che alle esigenze del loro stesso popolo, come è accaduto finora, fin troppo spesso, con i fondi della cooperazione e come sta accadendo con i contributi elargiti “al buio”, senza alcuna condizione preliminare, sulla scia di accordi come il Processo di Khartoum, a Stati di dubbia democrazia quando non a dittature come quella eritrea di Isaias Afewerki o quella sudanese di Al Bashir. Una seconda condizione è non dimenticare che tantissimi profughi, la maggioranza, fuggono per motivi politici: fuggono da guerre, dittature, terrorismo, persecuzioni, totale mancanza di libertà. Anzi, il disastro economico di certi paesi è una conseguenza diretta proprio della politica repressiva di regimi che stanno dilapidando le risorse della propria terra e disperdendo o soffocando le migliori energie della popolazione. L’Eritrea, trasformata dalla dittatura in uno Stato-paria oltre che in uno Stato-prigione, è un esempio di scuola in questo senso. Allora, perché un eventuale Piano Marshall per l’Africa possa funzionare, bisognerà coinvolgere davvero i popoli africani. E una via, forse la più importante, per riuscirci, passa attraverso le diaspore. Sono proprio i profughi e i migranti arrivati in Europa che possono diventare i migliori “ambasciatori”, i garanti quasi, di una nuova politica europea nel continente africano. Purché venga organizzato, però, un sistema di accoglienza che non escluda, come accade oggi troppe volte, ma porti a una reale integrazione economica ed inclusione sociale: a farne cittadini a pieno diritto.

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