Intervista a Michele Sinisi, regista di Miseria & Nobiltà

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08 gennaio 2018
“In quel istante mentre avviene la comunicazione, quando si inizia proprio a giocare e viene sospeso il giudizio, ecco, proprio lì accadono cose magiche”. Su Miseria & Nobiltà, intervista al regista Michele Sinisi. In scena al Teatro Vascello l’anno si è concluso in grande stile con l’opera Miseria & Nobiltà. Il celebre testo di Eduardo Scarpetta, reso celebre dal film del '54 di Mattoli con Totò, viene reinterpretato e portato in scena come un classico della tradizione italiana sempre attuale e decisamente riflesso di una società che mantiene le sue caratteristiche e le sue crisi. Una compagnia armonica e ben combinata, un allestimento efficace, dove tutto ciò che è caotico è ragionato ma prima di tutto sentito. Fra risate e sorrisi emozionati, complici di quella messa in scena così vicina, lo spettacolo ha raggiunto pienamente quello che è l’obiettivo del regista Michele Sinisi: comunicare per stare assieme. In un’informale e piacevole chiacchierata, il regista ha aperto nuovamente la botola luminosa, riprendendo quella che lui chiama la magia del teatro. Prima di affrontare lo spettacolo, parliamo di Michele Sinisi e del suo percorso. Come ti vedi collocato ora in base alla tua esperienza? Il mio percorso è totalmente basato sull’esperienza pratica e sul contatto immediato con l’arte teatrale,non ho frequentato un’accademia che mi facesse da tramite. Quando ho partecipato a spettacoli di altri come attore, quale sono principalmente, cercavo di aggiungere qualcosa in più al poetico e tecnico necessari per la crescita, e così da regista. Ho sempre provato a spingermi oltre, a cogliere negli argomenti,nei titoli un’occasione per fare un passo ulteriore o diverso rispetto alle possibilità tecniche o di formazione. Ho toccato e vissuto varie fasi e fatto cose molto diverse fra loro, sono partito venendo a Roma con la commedia dell’arte, passando poi per il teatro narrazione e in seguito gli studi sulla biomeccanica. Diversi nomi e collaborazioni hanno arricchito la mia crescita e ora, se dovessi dire come mi vedo collocato, mi viene da rispondere semplicemente nel mondo, nel senso che mi sento cittadino del mondo perché la mia esperienza è in contatto con esso.Una cittadinanza che deve rivestire l’arte, essere italiano oggi senza perdere peculiarità, ma lavorare su uno spettro più ampio, portando anche la propria caratteristica fuori ma confrontandola. Oggi abbiamo questa grande occasione di avere le distanze accorciate e i confini ridotti, è bene dunque che la nostra generazione preservi i vantaggi di tutto questo. L’essere in possibilità di interazione è sì molto difficile, avere a che fare con tutti, stare assieme è la cosa più semplice ma anche la più difficile, il comunicare stesso genera timore e paura e può essere anche stancante, un vero e proprio esercizio, ma ha una potenza incredibile che va coltivata. Riguarda anche e soprattutto la scena questo, quando siamo in scena, infatti, tocca comunicare con l’altro. E in questa visione si rispecchia molto il pensiero eduardiano. Ritornando ai primi momenti che han portato poi alla messa in scena. Da dove nasce proprio l’ispirazione che ti ha fatto avvicinare al celebre Miseria e nobiltà, perché proprio questo testo? Tutto ha a che fare con il fiutare nella farsa un potenziale incredibile, e in quanto farsa per antonomasia Miseria e nobiltà è una macchina perfetta. La risata è spietata, il pubblico ride e ridere è occuparsi degli altri, dell’interlocutore. Ciò è fondante nella farsa, cioè se non fai ridere non ha funzionato lo spettacolo. Miseria e nobiltà è un occasione per stare assieme in questo senso. Rendiamoci sempre conto che qualunque cosa si voglia dire, in qualunque linguaggio, resta un mezzo per comunicare e quindi per instaurare un rapporto. Questo concetto è determinante nello spettacolo di Scarpetta. L’empatia umana è qualcosa dalla quale non ci si può svincolare nel momento in cui si vuole comunicare e quindi entrare in connessione con l’altro, connessione intesa in qualunque declinazione. Emblematica a tal punto la scena finale, quando a donna Luisella viene chiesto il motivo del perché fosse venuta a rovinare la festa agli altri personaggi, i quali stanno cercando con la farsa di raccontare una verità, della fame e della condivisione, in una casa e in uno spazio non loro. La magia che si innesca in questo processo è data proprio dallo smuovere quelle empatie di tutti, è la memoria che sta negli occhi di quel bambino, Peppiniello e della botola che si apre e chiude. Quell’elemento scenico rappresenta la sospensione del concetto spazio e tempo, una relazione che si impossessa e va oltre questi due concettivivendo nel presente, unico momento possibile di avvenimento. In quel istante, mentre avviene la comunicazione, quando si inizia proprio a giocare e viene sospeso il giudizio, ecco, proprio lì accadono cose magiche e accadono nel presente che non possiamo determinare se non lasciandoci andare dedicandoci agli altri. Un classico che avvalendosi di una storia piena di intrecci e situazioni colorite e divertenti serba sempre qualche messaggio più profondo che va oltre la goliardia degli episodi. E lo fa con lo spirito della commedia creando quel senso di calore che unisce un po’ tutti, come nella scena finale che hai ricreato, gli occhi nostalgici e sorridenti, pieni di fronte a una proiezione. I temi e la genuinità del testo sono, dunque, punti di vicinanza e identificazione che rendono il capolavoro un “classico contemporaneo”. Ma in cosa risiede proprio la potenza e la forza comunicativa che permette allo spettacolo di arrivare? Miseria e nobiltà è appunto un classico e i classici sono materia forte principalmente per la loro solida struttura.La memoria che trasportano e tramandano resiste anche dopo una serie di rimaneggiamenti e riletture, resta la loro essenza inconfondibile. E questo accade con il lavoro di Scarpetta che rappresenta un’esperienza concreta, talmente capace per sua natura e fibra di arrivare che anche se lo si taglia, se losi mette in scena in maniera alternativa o in forme diverse continuerà a mantenere intatta la propria potenza. Quindi, anche con allestimenti diversi, quei lazzi e quei giochi avranno sempre la loro efficacia. Lametateatralità presente poi in questo spettacolo è un elemento importantissimo, i personaggi che vanno in casa di qualcuno a recitare, la recita nella recita, il gioco teatrale protratto è un richiamo che innesca ancora più legame. Richiami a capolavori del cinema come Non ci resta che piangere oppure Totò e Peppino … oltre agli omaggi espliciti, vi sono influenze e richiami che hanno arricchito il momento creativo dello spettacolo? È stato tutto un lavoro di collaborazione con Francesco Asselta, oltre ai richiami espliciti tutto ciò che ci serviva stava già dentro al testo, è bastato punzecchiare le parole e raccoglierle. La battuta “vieni a parlare con il padre maschile” ad esempio è una di quelle frasette ironiche e stuzzicanti che restano impresse. Il testo di Eduardo è ricolmo di parole con cui giocare. Molti poi pensano che scrivere per il teatro debba essere un momento cristallizzato, momento della scrittura e momento del testo all’attore che lo recita come due attimi separati, quando è molto più morbido di così il passaggio. Si scrivono le scene, man mano, assieme… e il lavoro nasce, prima di tutto però dall’emotività, poi si passa eventualmente al dialogo verbale. In questi casi, durante il processo creativo, per comunicare non è detto che tocca per forza pronunciare qualcosa verbalmente. Il tuo personaggio dall’inizio in scena fa incursioni in particolari momenti e poi si mette agli angoli, gestisce lo schermo luminoso, osserva le azioni degli altri…un po’come un regista appunto… Peppiniello è uno di quei personaggi che tutti, in qualche modo, abbiamo utilizzato nel curriculum per descrivere l’inizio di una carriera, nelle interviste spesso appare che l’attore fra le sue prime interpretazioni è stato Peppiniello. Una di quelle figure archetipe quasi. Quel personaggio ricorda il principio, l’inizio, quel momento particolare dove tutto nasce e non si può in altro modo spiegare se non aprendo e chiudendo la botola luminosa, che è sì ricollegabile a un qualche elemento di direzione dello spettacolo, fa da chiusura e apertura fra una scena e un’altra, quindi fa da momento registico, ma va oltre. È la scatola aperta dalla quale esce la luce e la grandezza del teatro. Vi è un utilizzo visivo della materia molto importante nello spettacolo, scenografia curata, ragionata e piena di movimento che rende proprio il senso di creazione e creatività. Quale il processo che sta dietro la scenografia, com’è stata pensata? Le scene sono state pensate e create assieme a Federico Biancalani, una collaborazione che è andata sempre più verso un dialogo comune, un linguaggio del corpo narrativo pittorico, colorato. È un continuare a giocare per me l’atto di scrittura così come quello di creazione della scena, l’allestimento non deve essere inteso come spunto di un’idea fine a se stessa. I codici espressivi sono sì decifrati grazie alle capacità intellettuali, ma per avere un’esperienza umana di pancia, interna, fisica, che risponde a una reazione del corpo. Non deve essere un fine, dunque, ma un mezzo la capacità intellettuale. In questo mi sono state d’insegnamento persone con anche non grandi consapevolezze tecniche, ma profondamente empatiche e capaci di sentire, di arrivare lì dove il teatro vuole che si arrivi. Le scene che sono patrimonio della memoria di Miseria e Nobiltà, poi, conservano una sorta di effetto sorpresa nel riconoscimento perché si gioca sull’attesa. Ad esempio la famosa scena degli spaghetti che nello spettacolo vengono fatti cadere dall’alto. In un’intervista con Renzo Francabandera dichiari il rapporto con la memoria assume una natura nuova. “Si presenta più per immagini che per parole, pochissimi ricordano la storia integrale di Miseria e nobiltà, il pubblico ricorda maggiormente le scene…Ci intestardiamo a cercare nella lettura il romanzo ma l’esperienza epica della storia è stata sostituita dall’avvento dell’esperienza televisiva”. Dunque il rapporto con il racconto nel mondo contemporaneo è mutato ed è in continua mutazione. Cosa vedi in questi cambiamenti epocali verso dovevanno e come cerchi di muoverti in questo contesto? Il boom e l’avvento della televisione è stato visto quasi come il male. I teatranti, poi, quasi dovevano temere di sporcarsi con linguaggi di natura televisiva. In realtà, mi tocca ammettere che negli anni la tv ha tirato fuori concetti non per forza più qualitativi , ma dal punto di vista della novità molto più interessanti del teatro, perché ha sperimentato un linguaggio e continua a modificare e creare vari format e lanciare idee. Una capacità di rinnovarsi rispetto al teatro che gioca, invece, spesso con la parola sperimentare senza farlo davvero. Ma noi ci possiamo aggrappare a motivazioni intellettualistiche per salvarci e questa diviene gran parte delle volte una giustificazione per mantenere un blocco e non rischiare. Si deve sicuramente mantener vivo il ritualizzare, ma tocca anche continuare a far indagine, confrontarci, creare codici, per iniziare a relazionarci in maniera vicina alla società, elaborare unlinguaggio si che segua le sue mutazioni. In questo contesto io mi limito a utilizzare e stare attento ai fatti, segni e concetti che mi circondano. La scelta linguistica è fra i primi elementi di diversità esplicita fra il tuo lavoro e quello di Scarpetta. Abolizione della napoletanità e un richiamo a quelle che sono letue origini. Un processo di vicinanza per conferire più aderenza allo spettacolo? Scarpetta con questo spettacolo ha dato vita a un processo di esaltazione dell’italianità con gran successo. Nel metterlo in scena sono partito da un assunto di un successo italiano della comicità e poi ho lavorato seguendo la visione di quel caleidoscopio a cui ho fatto riferimento per le scene, i vestiti e tutto il resto. Anche a livello linguistico ho giocato. Questo panorama teatrale italiano lo vivi da artista da un po’ di anni ormai. Sicuramente hai assistito a trasformazioni personali e collettive. Cosa è mutato in particolar modo, com’è, ad esempio, fare ricerca ora? Agli inizi di una carriera il far ricerca è finalizzato alla ricerca stessa, ti interessi ad essa senza un motivo ben definito, oppure apparentemente definito, ma solo col tempo comprendi che questo far ricerca può essere di natura concreta quando ha come scopo un obiettivo comune. È come se la ricerca non si muovesse più verso un obiettivo comune e questo è dato forse dalla non accettazione reale che il mondo e l’essere umano è in evoluzione, se ne parla ma non ci si affida a questo mutare anche se lo si vive. Pretendere che il teatro resti quello di anni fa a è una vera e propria malattia di chi è legato a sentimenti nostalgici. Il teatro non morirà mai, è specchio dell’uomo e come l’uomo si evolve e cambia. Dobbiamo accettare questo cambiamento.

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