Oltre 170 migranti morti in dieci giorni: sotto accusa la politica dei “muri”

Giornalista, già responsabile delle edizioni regionali e vice capo redattore della cronaca di Roma de Il Messaggero, ha approfondito i problemi dell’immigrazione.
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12 gennaio 2018
Il 2018 si è aperto con le vite spezzate di oltre 170 giovani migranti che tentavano di raggiungere le coste europee. Centosettantadue in appena dieci giorni. Due ragazzi a Melilla, travolti dal Tir sotto il quale si erano nascosti per prendere clandestinamente un ferry di linea diretto in Spagna; quattro annegati, il 4 gennaio, nello stretto di Gibilterra, in seguito al ribaltamento del canotto sul quale volevano raggiungere l’Andalusia. Poi, la strage del gommone affondato la mattina dell’Epifania, con 64 vittime, a cui se ne sono aggiunte due il giorno 7, due donne recuperate esanimi, dalla Guardia Costiera libica, sul fondo di un battello pneumatico semi sommerso. Infine, la nuova strage del giorno 9, al largo di Garabulli, con sedici soli superstiti e un centinaio di dispersi. Centosettantadue vite spezzate a fronte di meno di 2 mila migranti che, nello stesso arco di tempo, sono riusciti a sbarcare in Europa: 480 in Italia, 860 in Grecia, 527 in Spagna. Una vittima ogni 10/11 arrivi. Un indice di mortalità altissimo. E’ la conferma di come la politica dei “muri” adottata dalla Ue e dall’Italia renda estremamente più rischiose le vie di fuga. Ma migliaia di disperati – costretti ad abbandonare la propria terra da guerre, terrorismo, persecuzioni, dittature, carestia, fame, epidemie – non hanno altra scelta. E continuano a sfidarlo, questo rischio enorme, cercando itinerari alternativi o tentando e ritentando di superare quei “muri” ogni volta che vengono respinti. Muri fisici, come le barriere di filo spinato di Ceuta e Melilla o della frontiera greca sull’Evros, e muri politico-legali, concretizzati da serrati controlli di polizia nei paesi di transito o di prima sosta, in base agli accordi voluti da Bruxelles e da Roma. “E’ come un susseguirsi di ondate contro una scogliera – dice Siid, un eritreo esule da anni a Bologna – Le onde vengono respinte una dopo l’altra, ma parte dell’acqua filtra e penetra. Accade così anche con i migranti: molti vengono intercettati e respinti, ma c’è chi, nonostante tutto, riesce a passare. A caro prezzo, lasciandosi dietro numerosi ‘sommersi’ lungo la strada, ma riesce a passare”. I “muri”, però, sono sempre più alti. Essenziali per il compito di “gendarmi” anti immigrazione che la Fortezza Europa ha appaltato a vari Stati africani o del Medio Oriente, attraverso intese e trattati come i Processi di Rabat e Khartoum, gli accordi di Malta, il patto con la Turchia, il memorandum con la Libia. E gli effetti si vedono: nei primi dieci giorni del 2018 sono migliaia, molti di più dei duemila scarsi arrivati, i migranti intercettati, arrestati e respinti, senza ascoltarne le ragioni e la storia e a prescindere dalla sorte, spesso mortale, che li attende. Tenendo conto soltanto di Turchia e Marocco, oltre 6.500. Più della metà li ha bloccati la Turchia. I rapporti della polizia di frontiera e delle forze di sicurezza di Ankara sono puntuali e precisi: il due gennaio, 553, quasi tutti nella provincia di Edirne, vicino al confine con la Grecia e poi altri 1.632, in massima parte poco distante dalla frontiera siriana; 220 due giorni dopo, 189 ancora presso Edirne e gli altri 31 sulla costa di Izmir, dove stavano cercando un imbarco. Poi, 36 il sei gennaio a Dikili, il porto anatolico più vicino all’isola greca di Lesbo, e 156 il giorno successivo: 119 sempre a Dikili e gli altri lungo le strade che portano a ovest, verso l’Egeo. L’otto gennaio 570, quasi tutti nei pressi del confine con la Grecia o con la Bulgaria. Altri 315, infine, tra il nove e il dieci gennaio: 120 sulla costa dell’Egeo, 30 nella provincia orientale di Van e 165 nei pressi di Edirne. In totale, quasi 3.500, in grande maggioranza siriani, ma anche afghani, iracheni, pachistani, palestinesi, bengalesi, subsahariani. Sono migliaia anche i migranti intrappolati in Marocco, di fronte alle enclave spagnole di Ceuta e Melilla. Soprattutto a Melilla, oltre tremila, accampati nei boschi delle colline circostanti, in attesa di trovare l’occasione per passare. Ci hanno provato in massa, a centinaia, la notte tra il 30 e il 31 dicembre 2017, al varco di Beni Enzar. Tutti insieme, nella speranza che almeno qualcuno riuscisse a varcare la triplice recinzione metallica che difende la frontiera. La polizia marocchina – che in base al Processo di Rabat ha il compito di vigilare sulla parte esterna del vallo – ha subodorato l’assalto e si è premunita per tempo, dislocando lungo la linea di confine centinaia di agenti. Inclusi reparti speciali a cavallo e unità cinofile, con cani che spesso vengono aizzati contro i migranti che si avvicinano o lanciati all’inseguimento di quelli che riescono a passare e tentano di arrampicarsi sulla rete delle barriere. Dall’altra parte del vallo era schierata la Guardia Civil spagnola, per fermare gli eventuali “infiltrati”. Nessuno di quelle centinaia di giovani è riuscito a varcare la frontiera. Anzi, neanche a raggiungerla. Fermati dalla polizia marocchina, sono stati costretti a disperdersi per non essere catturati. Parecchi sono rimasti feriti. Non pochi sono stati arrestati. Però non si sono rassegnati. Ci hanno riprovato, in oltre 400, una settimana dopo, sempre al varco di Beni Enzar, la notte dell’Epifania. E questa volta hanno avuto fortuna: sia le forze di sicurezza marocchine che la Guardia Civil sono state colte di sorpresa e in 209 sono riusciti a passare. Fuori delle barriere di Melilla ne restano però a migliaia. “E’ un fenomeno in crescita – ha dichiarato al quotidiano El Faro Daniel Ventura, responsabile dei servizi sociali del governo locale – Si tratta in massima parte di minorenni non accompagnati, decisi a tutto per entrare a Melilla, per poi cercare il modo di imbarcarsi di nascosto su un ferry per la Spagna. Le cifre sono eloquenti: nel 2016 sono arrivati 400 ragazzi; nel 2017 quasi il quadruplo, più di 1.500. Quest’anno siamo già a 300 circa”. La Guardia Costiera e la polizia libica non sono da meno: dall’inizio dell’anno hanno bloccato centinaia di migranti, sia prima dell’imbarco, sia in mare, quando stavano navigando verso la Sicilia su gommoni stracarichi. Ora si trovano nei centri di detenzione, dove è ricominciato il calvario dal quale molti speravano di essere usciti quando si erano imbarcati. Un calvario che accomuna tutti i disperati intrappolati in Libia: quelli in mano ai mercanti di uomini, quelli prigionieri nei campi formalmente controllati dallo Stato e quelli che vivono quasi alla macchia, a Tripoli e nelle altre grandi città, con la prospettiva di imbarcarsi sempre più remota, senza la possibilità di tornare indietro e sotto l’incubo costante di essere sequestrati dai trafficanti o arrestati dalla polizia. Non c’è molta differenza, infatti, tra i centri di detenzione “ufficiali” e le prigioni dei trafficanti. Lo ha confermato, per l’ennesima volta, il rapporto pubblicato in questi giorni dal Governo nigeriano, basato sulle testimonianze raccolte, da una missione inviata a Tripoli, soprattutto tra i migranti in procinto di essere rimpatriati. “I nostri funzionari – ha riferito il ministro degli esteri, Geoffrey Onyeama – sono rimasti scioccati da quanto hanno appurato. I migranti hanno parlato di abusi sistematici, endemici. Di ogni genere di sfruttamento e violenza: maltrattamenti quotidiani, riduzione in schiavitù, stupri, torture… E ciò è accaduto sia a quelli finiti nelle mani delle ‘autorità’ che a quelli in balia dei trafficanti”. Eppure, nonostante gli orrori che hanno subito, quasi la metà dei rimpatriati hanno dichiarato di aver accettato di rientrare in Nigeria soltanto per sopravvivere alla terribile detenzione in cui erano caduti, ma che ritenteranno di partire. Perché non sono minimamente cambiate le condizioni che li hanno spinti a lasciare la propria terra. Ecco il punto. Se non si riusciranno a creare nei paesi più poveri, sfortunati e sfruttati condizioni di vita dignitose e sicure, la tragedia dei migranti non avrà fine. E’ questa la sfida che attende la politica del Nord nei confronti del Sud del mondo. Viceversa, muri come quelli alzati in Libia, in Marocco, in Turchia, procurano solo una spirale inesauribile di morti e sofferenze. Migliaia di vittime delle quali l’Europa e l’Italia dovranno rispondere. Sicuramente di fronte alla storia. Ma prima o poi anche di fronte a una corte di giustizia.

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