30 gennaio 2018
E’ nata come auto-tassazione degli esuli eritrei per finanziare la lunga lotta di indipendenza dall’Etiopia. Il regime di Isaias Afewerki l’ha trasformata in una imposta obbligatoria che grava su tutti gli eritrei residenti all’estero: 2 per cento sul reddito. Un obbligo che si concretizza attraverso il ricatto: chi si sottrae perde ogni contatto con l’Eritrea e con gli uffici consolari all’estero, piombando in uno stato di isolamento che si estende spesso anche ai rapporti con i familiari rimasti in patria. Il primo effetto, per i “ribelli”, è che non si può ottenere alcun tipo di documentazione, né al Consolato né direttamente dall’Eritrea: titoli di studio, titoli di proprietà, certificati per il rinnovo di autorizzazioni e permessi (a cominciare da quello di soggiorno), ecc. Ed è ovvio che, in mancanza di queste “carte”, è impossibile, ad esempio, fare donazioni o vendite, iscriversi a scuole e università, avviare un’attività, ecc. Di più, la “diaspora tax” è diventata in breve un sistema di vera e propria schedatura: chi non paga è considerato alla stregua di un nemico o comunque una persona da tenere sotto osservazione, anche con il rischio di ritorsioni nei confronti dei familiari ancora residenti in Eritrea. L’illegittimità di questa procedura è evidente. Sia sotto l’aspetto fiscale, visto che chiunque lavori e produca reddito all’estero le tasse le versa già nel paese di accoglienza. Sia dal punto di vista politico, alla luce della schedatura di fatto che ne deriva nei confronti di tutti i migranti e richiedenti asilo eritrei. Ma Asmara non desiste., tanto più che i proventi di questa imposta illegittima sono uno dei più consistenti canali di finanziamento, in valuta pregiata, per le esauste casse dello Stato.
La diaspora denuncia da anni questo ricatto sia in Europa che negli Stati Uniti o in Canada. E diversi Stati si sono mossi, promuovendo inchieste e, una volta accertati i fatti, inviando precise, pesanti diffide alle ambasciate. Così hanno fatto, tra i primi, il Canada, l’Olanda, la Svezia, la Norvegia, la Svizzera. Anzi, ora l’Olanda è andata anche oltre: avendo constatato che la pratica della “diaspora tax” non è cessata nonostante gli ammonimenti e l’esplicito divieto, il Governo ha deciso di espellere il diplomatico più alto in grado dell’ambasciata eritrea Il Coordinamento Eritrea Democratica, che riunisce i principali gruppi della diaspora in Italia, ne ha tratto spunto per rilanciare il problema, chiedendo a Roma di seguire l’esempio di Amsterdam. In tutti questi anni Palazzo Chigi si è sempre defilato, asserendo di non avere le prove che si tratta di una tassa obbligatoria e non di un contributo volontario come in origine. Non risulta, però, che abbia mai indagato a fondo. Il caso olandese dimostra che non è poi così difficile verificare quanto riferiscono da anni, inascoltati, migliaia di rifugiati. Il punto è, probabilmente, che in Italia non si è mai voluto indagare davvero e porre fine, di conseguenza, a un abuso palese. E’ tempo di farlo: è quanto chiede, denunciando anche numerose altre anomalie del “caso Italia”, il nuovo documento diffuso dal Coordinamento. Vale la pena riportarlo integralmente.
Coordinamento Eritrea Democratica
Il Governo olandese ha dichiarato persona non gradita Tekeste Ghebremedhin Zemuy, il diplomatico eritreo di rango più elevato nel Paese, intimandogli di partire immediatamente. Lo ha reso noto il ministro degli esteri Halbe Zijlstra.
Il provvedimento è legato alla tassa del 2% sul reddito, generalmente conosciuta come “tassa sulla diaspora”, che il regime di Asmara continua a pretendere e a incassare, attraverso le ambasciate, da tutti gli eritrei e dalle persone di origine eritrea residenti all’estero. Una pretesa che si concretizza attraverso vere e proprie forme di ricatto: il pagamento della tassa, infatti, è l’unico modo per avere qualsiasi tipo di servizio consolare, dal rinnovo del passaporto, al rilascio del visto, all’acquisizione di documenti originari in Eritrea, come il certificato di nascita o di matrimonio, titoli di studio, ecc. E chi si sottrae a questo obbligo viene di fatto schedato e considerato alla stregua di un “nemico”, con possibili pesanti conseguenze e ritorsioni anche nei confronti dei familiari rimasti in patria.
Quella che era una offerta volontaria durante la guerra di indipendenza contro l’Etiopia si è trasformata, in sostanza, in una autentica forma di estorsione. Proprio a causa di questi metodi, la legalità della tassa 2% è stata contestata, negli ultimi anni, dalle autorità di numerosi Stati. Indagini accurate, seguite talvolta da pesanti diffide, sono state promosse in Canada, in Norvegia, in Svezia, in Svizzera e, appunto, in Olanda. E ora l’Olanda è andata anche oltre: ha ufficialmente dichiarato “inaccettabili” i metodi usati e, a fronte della constatazione che la richiesta di porre fine a questa pratica è stata ignorata da parte dell’ambasciata, ne ha espulso il funzionario più elevato in grado.
Si tratta di un provvedimento molto grave, che assai raramente viene preso nei confronti di un diplomatico, ma che, a quanto pare, è motivato dalle prove palesi delle minacce subite da alcuni rifugiati che si erano rivolti all’ambasciata per servizi diversi. Prove che hanno confermato al Governo olandese che non solo la sua richiesta ufficiale di porre fine a questa procedura era caduta nel vuoto, ma che non c’era alcuna volontà di arrivare a un accordo sulla questione: una chiusura ostinata di fronte alla quale Amsterdam ha deciso di dare un segnale forte e inequivocabile, a tutela di tutti i profughi eritrei accolti, che sono in Olanda la diaspora più numerosa, dopo quella siriana.
Il Governo Eritreo agisce anche in territorio Italiano. Come?
Documenti negati. Da vent’anni anche in Italia il governo Eritreo impone un tributo del 2% sui redditi della diaspora. A chi si rifiuta di pagare non vengono rinnovati i documenti nelle sedi consolari ed è proibito persino inviare aiuti alla famiglia. Le conseguenze sono pesantissime: non si può compiere, ad esempio, alcun atto giuridico in Eritrea (acquistare o vendere case e terreni, fare formalmente una donazione, partecipare alla successione testamentaria, richiedere documentazioni di qualsiasi tipo, ecc.).
Difficoltà per i documenti italiani. In Italia, il mancato pagamento non impedisce solo il rilascio dei documenti eritrei ma anche di quelli italiani. Quando, per esempio, un eritreo fa istanza per ottenere la cittadinanza italiana, le Prefetture chiedono il certificato di nascita e i carichi pendenti del Paese di provenienza, documenti che possono essere richiesti solo nelle ambasciate o nei consolati. Quando ai funzionari italiani vengono fatte notare le difficoltà incontrate, questi chiedono delle testimonianze scritte. Testimonianze che sono però impossibili da ottenere, visto che i funzionari degli uffici consolari di Asmara non rilasciano agli eritrei dinieghi scritti e motivati per il mancato rilascio di qualsiasi tipo di documentazione. Qualcosa di analogo accade, ancora, per il rinnovo dei permessi di soggiorno: assai spesso i profughi si sentono rispondere nelle Questure che occorre “la documentazione del consolato”, ignorando che trattandosi di rifugiati politici e oppositori del regime, non solo si rifiutano di pagare la tassa del 2%, e di avere rapporti con i funzionari consolari, ma può essere addirittura pericoloso per loro accedere agli uffici diplomatici eritrei.
Controllo politico. In questa imposta c’è anche un forte elemento di controllo politico, un controllo capillare esercitato non solo dai funzionari dell’ambasciata e dei vari consolati, ma anche da soggetti all’interno delle singole comunità e associazioni “etniche” (presidenti, consiglieri, ecc.) che lavorano per l’ambasciata e/o che sono ad essa direttamente o indirettamente collegati. Se, per esempio, un eritreo è disoccupato e non può pagare il 2%, l’ambasciata chiede all’interessato la certificazione di disoccupazione (da richiedere ad enti italiani) oppure, in assenza della certificazione, la testimonianza di una di queste persone di fiducia. Lo stesso accade se un eritreo lavora “in nero”. In questo caso solo una persona di fiducia dell’ambasciata può testimoniare ai funzionari degli uffici diplomatici che quell’eritreo ha un’occupazione precaria. Questo sistema, inevitabilmente, alimenta un forte giro di corruzione e di controllo.
Interpreti fedeli al regime infiltrati nelle istituzioni. Fra gli interpreti che lavorano nelle varie agenzie e nelle commissioni Territoriali ci sono spie del regime eritreo.
Spesso sono giovani appartenenti al “Young PFDJ” la sezione giovanile all'estero del partito del regime eritreo di Isaias Afewerki. L'intento è di indottrinare e mobilitare le giovani generazioni cresciute in esilio, figli della “prima diaspora”, quella nata dalla lotta per l'indipendenza, perché aderiscano alla mistica nazionalista del regime. L'organizzazione permette al governo di saldare i legami con le comunità in esilio e avvicinarle alle istituzioni diplomatiche e agli uffici del partito dislocati nel mondo.
Anche se il coinvolgimento di questi soggetti è stato fatto in buona fede da parte delle istituzioni, dettato dalla situazione di emergenza, nei fatti questi interpreti affiliati al regime stanno lavorando indisturbati nelle Commissioni territoriali e nelle Questure, a diretto contatto con richiedenti asilo, mettendoli seriamente in pericolo.
Minacce ai giornalisti. Sono stati segnalati diversi casi di giornalisti invitati a parlare del Corno d’Africa che sono stati zittiti e minacciati da personaggi legati al regime o da italiani con interessi vari all’Asmara. Numerosi anche i casi di intimidazione e pressione nei confronti di giornalisti italiani rei di aver pubblicato articoli e inchieste aventi ad oggetto il regime di Afewerki.
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