Un teatro di poesia, di rabbia e anche rancore.

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11 aprile 2018
Il DOIT festival, progetto che offre alle compagnie emergenti una possibilità e uno spazio di espressione, porta avanti la sua programmazione e ospita al suo interno RancoreRabbia, lavoro del collettivo di arti performative Bologninicosta. Seguo il lavoro dei Bologninicosta dai loro esordi, quando nel piccolo Teatro Abarico di San Lorenzo intervistai Sofia e Dario. Nonostante l’abbattimento costante che si riversa sulle giovani compagnie, affaticate dal sistema teatro, disilluse e lasciate sole (una riflessione che è anche sintesi del clima generale viene offerta dall’articolo di Andrea Porcheddu - “Da poeti a impiegati sottopagati: è questo il destino dei teatranti?”) continuo ad avvertire nella coppia, e nella compagnia che porta il loro nome, l’entusiasmo e la determinazione di due e più giovani artisti che vogliono ostinatamente continuare a fare teatro, sperimentare, ricercare. Lo spettacolo che in questi giorni è andato in scena all’Ar.ma Teatro è espressione esplicita di questa determinazione che sopravvive, un fiore resistente nella sua delicatezza, come quello che appare in scena, unico elemento presente. In linea con il festival che mira al connubio fra messinscena e scrittura per il teatro, RancoreRabbia è testo vincitore dell’Artigogolo 2017, sezione Drammaturghi in Azione, e raccoglie le parole della regista Sofia Bolognini, parole taglienti di una voce calda che si scioglie in dolcezza, ma ferita dall’abbrutimento generale che coinvolge un’intera generazione. Si arriva all’estremo, inutile giocare su locuzioni pacate e moderate, bisogna essere diretti e violenti come la realtà che si deve vivere, bisogna, per comprendere il disagio, mostrarlo per quello che è, senza perdere l’empatia, provando a resistere, provando a proporre alternative, continuare ad esportare la bellezza, far vivere ancora l’arte, il teatro. Anche perché “se non esiste ieri e non ci sarà domani, vi prego almeno oggi ammazzateci tutti”. Una voce che si fa vessillo collettivo e condiviso di un malessere che Antonio Bissiri danzerà in scena. Fra scatti tendinei, flessuosità e cadenze leggere, alternate a stati di contrazioni, muscoli tirati in azioni performative che sono poi rappresentazione di stati d’animo e gesti ripresi dalla quotidianità che si fanno poi movimento danzato. Bissiri è integrato totalmente con la musica e il testo, le basi di Dario Costa con il gioco di luci fredde e stroboscopiche trasportano e coinvolgono in uno stato alterato collettivo, amplificato, dove il protagonista è immerso. Un’immedesimazione sofferta e anche grottesca, rappresentate dell’individuo che sopravvive ad una frenesia globale e globalizzata, dove il loop quotidiano è un allucinante sequenza che si ripete: “Laureato pentito. Vado al lavoro, perdo il lavoro. Disoccupato senza niente. Perdo il lavoro, trovo il lavoro. Laureato senza niente, trovo il lavoro, perdo il lavoro, disoccupato pentito.” Un paese, l’Italia, saturo che si trascina, assieme a Votò, Banca centrale e Democrazia, personaggi marci che accompagnano Rancore Rabbia . Una drammaturgia basata sull’importanza della parola, sulla sua capacità evocativa, che trasmette tutta l’urticante, odiosa e ripugnante sensazione dell’affanno, dell’esaurimento, della depressione, della solitudine del quotidiano, piene però di poesia, un linguaggio crudo, violento, che qualcuno potrebbe definire a tratti volgare, in realtà necessario, reale, vero, affiancato da parole appassionate, senza retorica, parole sentite, quelle di puro amore. “Se fossi stata madre in un mondo limpido e purificato, t'avrei insegnato queste e molte altre cose. E invece sono una conchiglia, con dentro un perla in una pozzanghera di detriti e vergogna…Se sarai bambina ti chiamerò Rabbia, come la mia gola. Se sarai bambino ti chiamerò Rancore, come il mio intestino, e tutto l'amore che mi hanno strappato.” Da qui buio, si ferma d’impatto il movimento, si spengono le luci, termina la musica, restiamo così, fermi fra il pugno allo stomaco e il bisogno di abbracciarsi per sentire che ci siamo ancora.

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