“Echoes” le storie sono echi che si tramandano. Intervista al regista Massimo Di Michele

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11 maggio 2018
Nel clima sempre precario e decadente, di una decadenza che non ha contorni fascinosi ma inquietanti (vedasi ultimo sgombero della realtà culturale Angelo Mai) continua a resistere una forma di comunicazione che vuole provare con linguaggi nuovi a instaurare un dialogo e una riflessione empatica. Echoes, spettacolo andato in scena al Teatro India, per la regia di Massimo Di Michele, affronta la tematica della violenza femminile partendo dal testo di Henry Naylor facendosi specchio di realtà ancora attuali. Una carrellata sconvolgente di episodi vengono messi in luce. Sono dati che vengono spesso recepiti come bollettini di cronaca nera, di statistica ormai certa. Una sorta di abitudine al degrado. Echoes, invece, non vuole essere statistica, non vuole rimarcare dati e situazioni cadendo nel sentito e già analizzato, nella storia che da dato di informazione e sensibilizzazione diventa prassi ordinaria anestetizzante. Quegli echi vuole renderli vivi, privi di retorica, capaciquindi di fare del trasporto emotivo ed empatico razionalizzazione concreta di un dato agghiacciante, quello che vede l’ostinazione della violenza. Da lì crescere internamente, da lì migliorarsi per migliorare. Per questo è importante approfondire il discorso, continuando anche dopo la messa in scena dello spettacolo prodotto dal Teatro di Roma, seguire il processo e osservare gli sviluppi di questo spettacolo che deve continuare a girare. Di seguito la piacevole chiacchierata con il regista. Uno spettacolo che, penso di poter dire con certezza, ha catturato l’intera sala. Una riflessione importante andata in scena nei giorni prima di diversi accadimenti nella città di Roma, dove si continuano a chiudere spazi e vengono limitate la possibilità di espressione. Nel panorama contemporaneo come pensi sia far ricerca? Quello che sta accadendo è a dir poco allucinante, mi lascia senza parole e al contempo non mi stupisce. Come se si sapesse che tanto i provvedimenti ingiusti arrivano prima o poi, ci stanno abituando a questo meccanismo organizzativo malato. Per il resto mettere sempre tutto in discussione vuol dire per me portare avanti una ricerca. La parola mi fa venire in mente grandi personalità, cito Ronconi, Strehler, che sono stati maestri per me. Sicuramente chiunque ha voglia di crescere sta facendo ricerca, io ho la mia, personale, sperando così di non peccare di presunzione, basata sulla drammaturgia della parola e quella del corpo che rappresentano le fondamenta del teatro. Io, personalmente, vengo da un teatro di prosa classico, segnato profondamente da un’artista come Elena Bucci, mi ha dato tanto la sua lezione. Mi ha fatto riflettere sulla componente dell’impegno, tocca impegnarsi molto, darsi da fare, cercare di mantenere un rapporto di scambio con gli attori, senza i quali non si sviluppa nessun processo. Essi sono parte attiva e direi che debba anche finire definitivamente quell’era in cui l’attore viene direzionato senza tener conto del suo sentito; sono parte creativa, non strumenti ai quali si impartiscono ordini. Le attrici di questo spettacolo sono poi meravigliose, sempre propositive, sono riuscite a capire il mio linguaggio, ed è necessario lavorare con grande serenità, pur trattando temi sensibili. Si lavora a teatro, si investe anche faticosamente, ma il clima propositivo e creativo è fondamentale, così come lo è, per noi stessi, non prendersi mai sul serio. Nel mio lavoro teatrale fatto di sequenze, improvvisazioni c’è una ricerca, dato che di questo parliamo, che parte da me ma anche da loro, dagli attori. Teatro è dialogo . Dello spettacolo, invece, dicevamo che è basato sul testo di Henry Naylor, scrittore mai messo in scena in Italia. Come è stato il confronto con l’autore, perché la scelta è ricaduta su di lui? L’anno scorso ho letto nel giro di paio di mesi qualcosa come settanta testi, di questi ne ho salvati sette e ho fatto poi una proposta al Teatro di Roma. Questo testo in particolare, oltre a essere bello, oltre a raccontare due vicende estranee, una di fine ‘800 e una contemporanea, si mantiene in un clima di astrazione, in un non luogo. Parla di donne, ma anche di religione, con una distanza temporale dove però la condizione della donna è cambiata ma non totalmente, non come si pensa, non come dovrebbe. Mi sono innamorato di questo libro perché apre una finestra su qualcosa di ancora vivo, di donne private della loro libertà, di femminicidio che è prima di tutto limitare il pensiero di una donna, i suoi diritti. Ha senso, totalmente, metterlo in scena. Naylor ne scrive sopra e tu lo porti in scena. Echoes è storie che ritornano come echi. Vi è una memoria atavica che conserva. Quella della violenza sulle donne oggi è tematica dibattuta, e la delicatezza del tema che alcuni affrontano rischia di cadere facilmente nel banale. Nella premessa al tuo spettacolo hai specificato come vuoi il più possibileallontanarti dal discorso che rende la violenza come un semplice dato di cronaca e statistica o un fatto tragico che scuote senza empatia. Come hai pensato di rimediare al rischio della spersonalizzazione evitando di cadere nel vittimismo e nella retorica? Non ho messo in scena questo spettacolo per approfittare della tematica sensibile e vincere facile giocando sul pietismo, metto in scena questo testo perché è necessario metterlo in scena. Ho cercato di evitare il retorico in tutti i modi e per farlo penso sia necessario restituire la storia attraverso un’astrazione totale. Riportare la storia, senza esserne sue vittime, da lì si crea la vera empatia. Strehler diceva, poi, che dobbiamo metterci al servizio della parola. Ho lavorato molto con le attrici, cercando di trovare sempre una forma di neutralità (che non vuol dire poco coinvolgimento) senza pendere da una parte piuttosto che dall’altra. Il fatto è talmente denso che lo schieramento poi parte interno e vero, senza scadere nella retorica. E soprattutto deve creare empatia con tutti, far sentire tutti visceralmente legati a questo problema, perché di problema si tratta. Io da uomo mi vergogno che accadono queste cose e se uccidono una donna, un gay ecc. non è un problema della “categoria d’appartenenza”, è un problema di tutti. Continuiamo a vivere in una società omologata dove gli individui si schierano fra coloro che basano il pensiero sul preconcetto e coloro che dietro una qualche barricata si chiudono e ghettizzano nella loro personale battaglia. Molta importanza viene data all’atto performativo… Sto cercando una mia espressione e reputo importante la gestualità per comunicare. Volevo creare due linguaggi che si fondono e hanno la stessa importanza nello spettacolo, stesso peso viene dato infatti alla parola e al corpo. Tutta la prima parte che è pregna di gestualità, ad esempio, inizia poi a diminuire e si rianima nella parte finale in senso circolare. Se hai fatto caso alle sequenze, l’inizio racconta la fine. Ilcorpo e la parola sono accompagnati da una musica che è viaggio ipnotico e coinvolgente, e da una scenografia minimale composta di soli tubi gialli che vengono poi utilizzati in vari modi.Portami dietro le quinte, e mostrami com’è stata pensata la realizzazione dello spettacolo? La base sonora è stata realizzata da ragazzi incredibili. Ho conosciuto la loro musica due anni fa e li ho contattati per fare un progetto insieme. La scenografia, invece, è partita dall’idea dell’intreccio, del groviglio, si pensava a dei fili che sono però veramente difficili da districare, e pensando e ricercando fra vari collegamenti si è passati alle funi e infine è venuto in mente il tubo. Questi tubi gialli che stanno ad indicare i grovigli della mente, così come i grovigli relazionali, le situazioni che diventano labirinti senza uscita, un luogo non luogo dove queste donne vengono risucchiate, metri di tubi che sono i nodi, le viscere, le vene, i tunnel che attraversano queste donne e di un colore preciso tra l’altro. Il giallo diceva Van Gogh rappresenta l’urlo e il colore di Dio. L’urlo di queste donne a un qualche Dio, a loro stesse. Oltre a Naylor altre influenze che hanno arricchito il processo creativo? Guardare sempre l’arte e guardare sempre tutto. Io sono uno che nell’atto creativo delle regie esce in continuazione, ho bisogno di stimoli, osservo perché tutto può creare un’ispirazione. In questo frangente mi ha aiutato tantissimo lo sguardo di Kiki Smith, l’arte di Balthus, immagini degli spettacoli di Jan Fabre, diverse ricerche, sulla situazione siriana ad esempio. Mi cibo di questo. Potremmo definirlo teatro sociale? Non è necessario dargli una collocazione, di sicuro c’è del sociale nei miei progetti, ma il teatro mi piace pensarlo come teatro.

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