Cairo, si uccide in aeroporto piuttosto che essere riconsegnato al regime eritreo

Giornalista, già responsabile delle edizioni regionali e vice capo redattore della cronaca di Roma de Il Messaggero, ha approfondito i problemi dell’immigrazione.
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14 giugno 2018
Piuttosto che essere costretto a tornare in Eritrea ha scelto di morire. Zerensenay Ermias Tesfatsion si è ucciso nella zona di transito per persone sotto custodia dell’aeroporto internazionale del Cairo. Aveva poco più di trent’anni. Trent’anni spesi in buona parte a inseguire un sogno di libertà. Sembrava averlo realizzato, questo sogno, quando – dopo una fuga lunghissima – era riuscito a raggiungere gli Stati Uniti. In Texas, però, lo hanno fermato e dopo 16 mesi di detenzione è stato respinto verso il Cairo, ultima tappa prima di essere imbarcato di forza su un volo per Asmara. La notizia, lanciata dall’Associated Press il 9 giugno, ha avuto una certa eco su alcuni giornali americani. In Europa, benché i profughi eritrei siano tantissimi e continuino ad arrivare per mille vie, non ne ha parlato quasi nessuno. Soltanto poche righe sui social media frequentati dalla diaspora. Nulla sulla “grande stampa”. Eppure la drammatica storia di Tesfatsion è emblematica della tragedia vissuta da migliaia di altri ragazzi, “in fuga per la vita” assai spesso già da quando sono appena adolescenti. Lo testimoniano i tanti che preferiscono gettarsi in mare, in mezzo al Mediterraneo, piuttosto che essere riportati in Libia dalle motovedette che l’Italia ha fornito a Tripoli per blindare il Canale di Sicilia con un “muro” ancora più spietato ed efficace delle barriere di filo spinato che lacerano come ferite lo spirito stesso dell’Europa lungo tanti, troppi confini nazionali degli Stati Ue. Lo conferma in particolare, proprio in questi giorni, il ragazzo che sulla Aquarius carica di profughi, bloccata da quattro giorni tra Malta e la Sicilia, voleva buttarsi fuoribordo, quando gli è sembrato che la nave di Sos Mediterranee sarebbe stata costretta ad invertire la rotta, puntando verso la Libia. Sono le voci che il Governo italiano – così pronto da anni, non solo da oggi, a mostrarsi forte, non di rado persino spietato, con i più deboli, gli ultimi – non può e non vuole ascoltare. Le voci che anche tra tanta parte della gente, milioni di “donne e uomini comuni”, troppo spesso finiscono soffocate sotto una pesante coltre di indifferenza, quando addirittura non suscitano fastidio e cinismo, anziché solidarietà e umana pietà. Per questo vale la pena raccontarla la storia di Tesfatsion. Anche lui è scappato dall’Eritrea, disertando dall’esercito, per salvarsi da una dittatura che ruba la vita tutti i suoi ragazzi, asservendoli al regime per un tempo pressoché indeterminato, con la totale militarizzazione del paese. Secondo le voci raccolte nella diaspora, avrebbe seguito il percorso classico della fuga, passando clandestinamente il confine circa tre anni fa e risalendo poi l’Africa attraverso il Sudan e la Libia, fino a imbarcarsi su un gommone dei trafficanti. “Per quanto ne sappiamo – dicono al Coordinamento Eritrea Democratica, uno dei principali gruppi di opposizione al regime nell’esilio – sarebbe arrivato in Italia, ma non dovrebbe essersi fermato a lungo”. Tesfatsion, infatti, aveva un piano: raggiungere gli Stati Uniti dove una sua cugina, che vive ad Orlando, in Florida, avrebbe potuto aiutarlo. Non sono pochi, del resto, gli esuli fuggiti dal regime di Asmara che puntano sugli Stati Uniti, magari anche come ultima tappa prima di arrivare in Canada, dove c’è una folta e attiva comunità eritrea e dove il Governo è tra i più aperti nei confronti dei profughi. Si rendeva conto che non era una via facile. Anzi, lunga e difficile. Ma sapeva anche che ci sono organizzazioni che possono fornire un passaporto europeo contraffatto, che consente di sbarcare in gran parte degli Stati del Sud America senza la necessità di un visto. E’ verosimile che abbia seguito proprio questa rotta. Dal Sud America, poi, ha cominciato lentamente la marcia verso il nord, fino ad arrivare in Messico e a raggiungere la frontiera del Rio Grande con gli Stati Uniti. Era il 2 febbraio del 2017. Da quando aveva lasciato clandestinamente l’Eritrea erano passati circa due anni. Ora aveva di fronte l’ennesimo confine della sua fuga infinita. Forse l’ultimo. Ha tentato la sorte a Hidalgo, una cittadina di appena 12 mila abitanti. Non aveva i documenti in regola, ma deve aver forse pensato che in un piccolo posto di frontiera come quello magari sarebbe riuscito a sgattaiolare. E poi sperava che ascoltassero la sua odissea di profugo e gli concedessero almeno un permesso di asilo temporaneo. Forse non si è granché allarmato neanche quando la polizia lo ha sorpreso mentre tentava di passare, fermandolo e mettendolo sotto custodia. Agli agenti e ai funzionari federali ha subito raccontato la sua storia, spiegando il perché della sua fuga per la vita. Ma il fermo si è prolungato, all’interno di un centro di detenzione dell’Immigration and Customs Enforcement (Ice), l’agenzia speciale per la sicurezza nazionale interna istituita nel 2002, sulla scia degli avvenimenti dell’11 settembre 2001. Prima a Pampano Beach, in Florida, poi a Youngstown, nell’Ohio. E’ rimasto recluso, come in prigione, per mesi, nella più totale incertezza, ogni giorno di più con la paura di essere respinto. Fino a che, nell’ottobre del 2017, un giudice federale ne ha ordinato l’espulsione dagli Stati Uniti. Senza tener conto che rimandarlo in Eritrea significava consegnarlo alle galere del regime, o anche peggio, come disertore e “traditore”. L’odissea si è protratta per altri sette mesi, sino alla fine dello scorso maggio. Il 30 gennaio di quest’anno, a 90 giorni dalla sentenza, non essendo stato ancora “deportato”, Testfatsion ha presentato una petizione/ricorso, chiedendo di revocare l’espulsione e intanto di consentirgli di lasciare il centro di detenzione. Per l’ennesima volta ha segnalato di “avere paura” per quello che gli sarebbe capitato ritornando in Eritrea, e che, proprio per la sua condizione di profugo, non poteva rivolgersi all’ambasciata o ai consolati di Asmara in America per nessun tipo di documentazione. Non è stato ascoltato: ogni speranza è caduta quando, il 7 giugno, è stato prelevato dal centro di detenzione e caricato su un aereo diretto in Egitto. Nessuno sospettava cosa sarebbe accaduto. Anzi, la cugina che vive in Florida ha dichiarato a un cronista del Tampa Bay Times che i familiari rimasti in Eritrea volevano andare in aeroporto ad aspettarlo. Ma Testfatsion aveva l’inferno nel cuore e magari proprio quando è salito sull’aereo, vedendo chiudersi ogni via di salvezza, ha maturato la decisione di farla finita piuttosto che essere consegnato alla dittatura da cui era fuggito tre anni prima. All’aeroporto internazionale del Cairo era previsto uno scalo tecnico, forse per il cambio della scorta e per attendere l’aereo in partenza di lì a poche ore per Asmara. Sono state le ultime ore di vita di Tesfatsion. Sono bastati pochi minuti: ha eluso la sorveglianza e si è ucciso. Quando, allarmati dalla sua assenza prolungata, lo hanno cercato, era ormai troppo tardi. Pare lo abbiano trovato impiccato nel bagno dove si era rinchiuso. Non è noto se abbia lasciato almeno un messaggio. Ma è l’assurdità della sua morte in sé a gridare in faccia all’indifferenza del Nord del mondo la disperazione che ha stroncato questo ragazzo. La stessa disperazione inascoltata di tantissimi ragazzi come lui. Provenienti dai più diversi paesi dell’Africa e del Medio Oriente.

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