Eritrea, sarà la pace con l’Etiopia a spazzare via il regime?

Giornalista, già responsabile delle edizioni regionali e vice capo redattore della cronaca di Roma de Il Messaggero, ha approfondito i problemi dell’immigrazione.
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11 luglio 2018
“Una storica visita di pace”. O, ancora, “Un abbraccio storico”. Così hanno titolato diversi media internazionali l’incontro avvenuto l’otto luglio ad Asmara tra Isaias Afewerki e il nuovo presidente etiope Abiy Ahmed, dopo un ventennio di stato di guerra tra Eritrea ed Etiopia. Il vertice, chiuso con la dichiarazione ufficiale di “fine guerra”, segna la conclusione del devastante conflitto che in due soli anni, tra il 1998 e il 2000, quelli effettivamente combattuti, prima della firma della tregua di Algeri nel dicembre del 2000, ha provocato tra 70 e 100 mila morti, oltre che tutta una serie di altre dolorose ferite: espulsioni di massa dai due paesi, che hanno assunto spesso il carattere della pulizia etnica; centinaia di migliaia di profughi; lacerazioni profonde che hanno sconvolto migliaia di famiglie e diviso intere comunità fino ad allora amiche e in buoni rapporti da secoli; distruzioni enormi, specie in Eritrea. La spinta per arrivare a questo risultato, impensabile fino a pochi mesi fa, è venuta, se non tutta, certo in massima parte da Abiy Ahmed il quale, insediato ad Addis Abeba sul finire dello scorso mese di marzo, appena 60 giorni dopo, il 5 giugno, rompendo uno stallo che durava da 16 anni, si è dichiarato pronto ad accettare tutti i termini di pace fissati nel 2002 dalla commissione internazionale nominata dall’Onu per dirimere la controversia di confine da cui è nata la guerra, a cominciare dall’assegnazione ad Asmara di Badme, il villaggio di poche centinaia di anime, il cui possesso è passato alla storia come la “causa scatenante” della lunga strage. In realtà, più che di “causa” si dovrebbe parlare di “pretesto”, perché i motivi dello scontro tra i due Stati, fino a sei anni prima amici e accomunati dalla dura lotta contro il dittatore Menghistu, erano molto più profondi: in sostanza, una inattesa sequenza di incomprensioni, rivalità e contrasti economico-finanziari e politici sorti all’indomani della proclamazione dell’indipendenza dell’Eritrea (1993) e che, sulla scia di un nazionalismo esasperato, hanno poi finito per far diventare Badme il simbolo della sovranità e del prestigio nazionale di entrambe le parti, usato sia da Afewerki che da Meles Zenawi, il presidente etiope dell’epoca, per riaffermare all’interno il proprio potere, oscurando le difficoltà economiche e sociali che entrambi i Paesi si trovavano ad affrontare. Di fronte alla inattesa, sorprendente disponibilità di Abiy, che riconosceva di colpo quello che Asmara chiedeva da anni, Afewerki non ha potuto tirarsi indietro. Ha atteso un paio di settimane e poi ha annunciato che una delegazione del Governo si sarebbe recata ad Addis Abeba per intavolare i colloqui di pace. A poco più di dieci giorni di distanza da questo primo confronto ufficiale, il presidente Abiy Ahmed ha rafforzato e reso irreversibile il processo iniziato, andando di persona ad Asmara, domenica 8 luglio, ad “abbracciare” Isaias Afewerki, fino ad allora il “nemico giurato” dell’Etiopia. E’ un passo decisivo, che può aprire la strada a nuovi equilibri e soprattutto a nuove prospettive non soltanto per l’Etiopia e per l’Eritrea, ma per il futuro dei popoli dell’intero Corno d’Africa e avere ricadute importanti su tutto il continente e sui suoi rapporti con il Nord del mondo. Certo è che, a questo punto, il percorso verso una effettiva pacificazione è aperto e difficilmente potrà interrompersi. Non mancano però le incognite, perché a questo traguardo l’Etiopia e l’Eritrea sono arrivate in modo molto diverso. La mossa di Abiy Ahmed è giunta del tutto inaspettata, ma ha una sua logica profonda ed è frutto di un vasto programma di riforma radicale della politica interna e internazionale di Addis Abeba. Eletto dopo le dimissioni di Hailemariam Desalegn, nel pieno della rivolta dell’etnia Oromo, a cui si sono uniti gli Amhara, Abiy, oromo lui stesso, ha rivoluzionato in soli tre mesi posizioni consolidate e la stessa condotta del governo etiopico, smentendo chi aveva visto nella sua nomina la scelta di un personaggio opaco e facilmente manovrabile dai falchi dell’Ethiopian People’s Revolutionary Democratic Front (Eprdf), il partito al potere nel quale confluiscono quattro movimenti politici di linea etnica: i Tigrini del Tpfl, gli Amhara dell’Andm, gli Oromo dell’Opdo (a cui appartiene appunto Abiy) e il Southern Ethiopian People’s Democratic Movement (Sepdm). Appena insediato, ha sorpreso tutti continuando ed anzi moltiplicando le aperture iniziate timidamente dal predecessore. I primi passi sono stati la fine dello stato d’assedio proclamato dopo le dimissioni di Hailemariam Desalegn e la liberazione di migliaia di prigionieri politici. E’ stata la premessa per aprire un confronto franco con tutte le componenti etniche della popolazione, a cominciare dagli Oromo, l’etnia più numerosa, da sempre esclusa dalle leve del governo e protagonista della dura lotta iniziata nell’ottobre del 2015 contro lo strapotere, esercitato nell’intero apparato dello Stato, benché largamente minoritaria, dalla componente tigrina, alla quale apparteneva Meles Zenawi. Una lotta costata centinaia di morti e migliaia di arresti, ma alla quale si sono uniti anche gli Amhara, tanto da far temere, data la vastità della protesta, addirittura l’implosione dello Stato. Né ha dimenticato, il nuovo presidente, il sanguinoso, più che decennale conflitto interno nell’Ogaden, la regione più meridionale, di etnia somala e religione islamica, che ha dichiarato di voler chiudere al più presto, con un vasto processo di pacificazione. Si tratta di aperture che non si limiterebbero a una ritrovata volontà di confronto, al posto delle chiusure esercitate da un potere più che ventennale, ma che sembrano preludere ad una attuazione piena del federalismo previsto dalla Costituzione e però soffocato dal progressivo accentramento registrato nel tempo in favore del governo federale di Addis Abeba e dell’etnia tigrina. A dimostrazione che non dovrebbe trattarsi di vuote promesse, è certamente significativo che, tra i suoi primi “atti di apertura”, Abiy abbia formalmente ammesso, nella sua veste di presidente, che lo Stato si è macchiato, negli anni, di gravi delitti contro ogni forma di opposizione: uccisioni, torture, arresti arbitrari, persecuzioni, violazioni palesi della Costituzione e dei diritti umani. Una dichiarazione coraggiosa ma per molti versi devastante e letta quasi come un “tradimento” da alcuni apparati del potere. Altrettanto coraggiose le scelte in politica estera, con grandi aperture nei confronti degli altri Stati della regione, inclusi quelli con cui i rapporti erano più tesi e difficili: la Somalia, invasa nel 2006/2007 e dove sono tuttora reparti militari etiopici per combattere contro le milizia di Al Shabaab; il Sudan e il Sud Sudan, che ha invitato a “responsabili confronti” per porre fine alle guerre interne, offrendosi come mediatore e mettendo a disposizione tutto l’aiuto che può fornire l’Etiopia; Gibuti, per rafforzare i rapporti commerciali e il prezioso corridoio verso il Mar Rosso e l’Oceano Indiano; l’Egitto, per trovare finalmente un’intesa che soddisfi tutti nella “guerra dell’acqua” per l’utilizzo delle risorse del Nilo, dopo la costruzione della nuova “grande diga” da parte dell’Etiopia. “Tutti”: l’Etiopia e l’Egitto, che sono i principali antagonisti, ma anche gli altri otto Stati rivieraschi (Sudan, Sud Sudan, Kenya, Uganda, Ruanda, Burundi, Tanzania, Congo), oltre all’Eritrea, interessata per il fiume Tacazzè/Atbara, il più importante affluente di destra. E, infine, l’Eritrea, appunto, la ferita più profonda, per chiudere la guerra. Con in più la prospettiva sottintesa di aprire in maniera sempre maggiore le frontiere: tra l’Etiopia e l’Eritrea ma anche tra gli altri Stati della regione, facendo intravedere nello sfondo una riforma che dia più forza e più senso politico all’Igad, l’organizzazione di cooperazione economica tra i Paesi del Corno d’Africa. Ecco, Abiy Ahmed è arrivato alla proposta di pace forte di questo percorso, che ne ha fatto uno dei principali leader africani del momento, capace di suscitare la speranza di una “nuova Africa” non solo in Etiopia ma in tutto il continente. In particolare tra i giovani. Per l’Eritrea di Afewerki, di contro, il percorso fino “all’abbraccio” di Asmara è stato molto diverso. Tutto lascia credere che Afewerki sia stato trascinato dagli avvenimenti, senza potersi sottrarre all’offerta che riconosce in toto la sentenza della commissione Onu del 2002, sempre citata dal regime a giustificazione del conflitto infinito, della “guerra non guerra” che si è trascinata da allora per sedici anni, senza battaglie campali come all’inizio, fino al 2000, ma con ricorrenti scontri di confine, talvolta molto sanguinosi, come nel giugno del 2016, ancora una volta nella zona di Badme. Proprio perché da parte di Addis Abeba c’è una accettazione totale (superando le riserve espresse nel 2002 su altri punti frontalieri contesi), Afewerki può presentarla come una sua vittoria politica. E, in effetti, di questo si tratta: ha ottenuto dal “nemico ventennale” il riconoscimento della giustezza delle sue posizioni e rivendicazioni. Ma tutto si ferma qui. L’effetto più importate, infatti, è che lo “scoppio della pace” farà cadere per sempre l’alibi su cui lui, attraverso il partito unico, ha costruito il suo potere assoluto e con cui ha giustificato la totale militarizzazione del paese, con una leva obbligatoria che dura quasi tutta la vita e un governo basato sul terrore, pronto a soffocare ogni forma di dissenso, con persecuzioni e arresti arbitrari e migliaia di prigionieri politici rinchiusi in carceri, spesso segrete, disseminate in tutta l’Eritrea e dove – come ha denunciato più volte l’opposizione – la tortura è una pratica diffusa e dove si può sparire senza neanche conoscere il motivo per cui si è detenuti. Questa, al di là della fine del conflitto con Addis Abeba, resta la realtà dell’Eritrea. E questo sarà, dopo la pace, il problema da affrontare: la fine del terrore e della dittatura, la liberazione dei prigionieri politici, l’attuazione della Costituzione approvata nel 1997 e subito “congelata” con il pretesto della guerra contro l’Etiopia. Pace o no, insomma, è difficile immaginare una nuova Eritrea – libera, democratica, aperta a tutti – senza una riconciliazione nazionale dopo un cambiamento radicale alla guida del Paese. Perché la riconciliazione non può che passare attraverso una “resa dei conti”. Resa dei conti intesa non come una epurazione/vendetta o, peggio, un bagno di sangue, ma come una radicale operazione di verità e giustizia su tutto quello che è accaduto in oltre vent’anni di dittatura. E’ un impegno che le forze di opposizione già stanno attuando da tempo all’interno della diaspora, dove collaborano dissidenti “storici”, i primi a denunciare, inascoltati e spesso denigrati, le storture del regime; esuli fuggiti dopo i primi arresti in massa, dal 2001 in poi; uomini che hanno rivestito anche posti di rilievo nell’apparato; ex militari che hanno partecipato per un certo periodo alla repressione di polizia; i ragazzi arrivati negli ultimi anni e che continuano ad arrivare. “Ciascuno – dice un portavoce del Coordinamento Eritrea Democratica – con il suo bagaglio di esperienze e di proposte, ma anche di trascorsi e di eventuali responsabilità. Tutti insieme stiamo lavorando per portare la libertà e la democrazia nel nostro paese. Per questo la resa dei conti dovrà essere pacifica: radicale, rigorosa, condotta in modo che emergano sino in fondo le colpe e le responsabilità del regime e il mondo sappia perché i suoi leader non possono più governare l’Eritrea. Facendo emergere, però, anche i trascorsi, nel bene e nel male, di ciascuno di noi. Non cerchiamo vendette ma giustizia e verità. Un epurazione violenta servirebbe soltanto ad alimentare altri odi: non si costruisce una democrazia sul sangue. Dobbiamo saper usare bene ‘l’arma della pace’ che si è finalmente presentata”. E’ questo il messaggio che, dopo lo “storico abbraccio” di Asmara, l’opposizione attiva nella diaspora lancia non solo agli eritrei, ma agli altri popoli africani, alle Nazioni Unite e all’Europa. Sarà disponibile il regime ad accettare un’operazione del genere, sottoponendo se stesso a un processo, “pacifico ma radicale”, di verità e giustizia? E’ esattamente questa la domanda: che cosa faranno Afewerki e il suo entourage dopo la fine della guerra con l’Etiopia. Potrebbero presentare la pace come un loro successo, cercando di trarne pretesti per rafforzarsi. Ma proprio la pace può essere in realtà l’inizio della fine della dittatura. Si tratta di capire “come” avverrà questa fine.

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