Spariti 20 profughi a Tarek al Matar. I compagni: “Temiamo che li vendano ai trafficanti”

Giornalista, già responsabile delle edizioni regionali e vice capo redattore della cronaca di Roma de Il Messaggero, ha approfondito i problemi dell’immigrazione.
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07 agosto 2018
Non c’è un’asta in piazza come quella filmata dalla Cnn a Sabha nell’ottobre del 2017. Si agisce nell’ombra, con l’inganno e le minacce. Ma la sorte di centinaia di profughi detenuti nei campi libici rischia di essere la stessa: venduti come schiavi per il lavoro forzato o, peggio, sequestrati per estorcerne un riscatto di migliaia di dollari, non esitando a sottoporli a terribili torture per indurre i familiari a pagare il più in fretta possibile. E’ il quadro che emerge dal disperato grido d’aiuto lanciato al Coordinamento Eritrea Democratica da numerosi profughi detenuti nei centri di Tarek al Matar e Tarek al Sika, nei sobborghi di Tripoli. Entrambi i campi risultano sotto il controllo del Governo, sono considerati “sicuri”, vi operano anche Ong italiane su mandato della Farnesina e avrebbero di recente ricevuto la visita di una delegazione dell’Unione Europea. In realtà sono affollati al punto che nei capannoni-prigione non è possibile muoversi e spesso nemmeno sdraiarsi; il cibo è pessimo e molto scarso; i servizi igienici pressoché inesistenti e inagibili; non c’è alcuna assistenza medica; viene lesinata ed è di infima qualità persino l’acqua da bere. In una parola, un inferno nel quale la giornata è scandita da tormenti terribili e non di rado si muore: per malattia, per denutrizione, per sfinimento. A Tarek al Matar, ad esempio, hanno perso la vita, forse per tbc, almeno tre giovani, un eritreo e due etiopi, nel giro di meno di tre settimane. Alle condizioni inumane di trattamento si aggiunge un senso di assoluta insicurezza. Molti dei detenuti sostengono di non essere stati registrati al momento del loro ingresso nel campo, sicché non risulterebbero nemmeno presenti. “Siamo come dei fantasmi senza nome – hanno raccontato ad Abraham Tesfai, del Coordinamento Eritrea – Ci possono far sparire in qualsiasi momento, senza lasciar traccia: basterà che dicano di non averci mai visto, citando come prova proprio i registri del campo”. Quanto sia avvertito questo rischio lo dimostrano due episodi denunciati all’inizio di agosto, tra il giorno uno e il giorno tre. Il primo a Tarek al Matar, il secondo a Tarek al Sika. Il caso più grave, anche se il numero dei profughi coinvolti è minore, sarebbe quello di Tarek al Matar, dove è stata segnalata la “sparizione” di una ventina di giovani, dieci eritrei e dieci somali. A raccontare quanto è accaduto è stato un ragazzo diciottenne catturato a Homs nel gennaio scorso da un gruppo di trafficanti e arrivato di recente a Tripoli e poi a Tarek al Matar, dopo che la sua famiglia è riuscita a pagare i 12 mila dollari chiesti dai sequestratori per rilasciarlo. Un racconto in “diretta”, fatto attraverso una serie di telefonate disperate, protrattesi per oltre un’ora, proprio mentre si svolgevano i fatti. Nella tarda serata, intorno alle 20 (ora italiana: ndr) alcune guardie del campo avrebbero cominciato ad ordinare a diversi profughi, in gran parte non registrati, di seguire un libico, arrivato poco prima, per lavorare come braccianti agricoli. Nessuno di loro lo aveva mai visto prima, ma quell’uomo sembrava in grande familiarità con il personale in servizio nel campo. “La nostra risposta – ha riferito il testimone nelle sue telefonate – è stata un rifiuto in massa: nessuno di noi voleva muoversi dal campo. Avevamo tutti paura di andare con quello sconosciuto. Paura di essere ceduti come lavoratori schiavi o, peggio, di essere venduti, prima o poi, a una banda di trafficanti, come è capitato a me all’inizio dell’anno. Tutti insieme ci siamo rifugiati in una zona appartata del campo per tentare di sottrarci alla consegna forzata e urlando la nostra disperazione per sollecitare sostegno e aiuto da altri compagni. Abbiamo resistito per un’ora circa, poi una ventina di noi sono stati prelevati da un gruppo di miliziani del servizio di vigilanza e costretti a seguire quel libico fuori dal campo. Se ne sono dovuti andare così come si trovavano, solo con gli indumenti che avevano indosso. Anzi, credo che li abbiano obbligati a lasciare anche i cellulari. Io sono riuscito a nascondermi. O forse alle guardie bastavano quelli che avevano ormai preso. Così l’ho scampata…”. Dalla notte tra il primo e il due agosto nessuno ha saputo più nulla di questi venti ragazzi, alcuni dei quali minorenni. Nulla fino alla sera del 5 agosto, quando uno di loro è stato ricondotto a Tarek al Matar. “Dopo averci presi – ha raccontato – ci hanno portato con un furgone chiuso in una grossa costruzione in muratura attrezzata come una prigione. Non so dire dove si trovi. Però non deve essere lontana, perché il viaggio è stato breve. Avevano detto che saremmo andati a lavorare. Invece siamo rimasti rinchiusi lì per tutto il tempo, senza poter uscire neanche per pochi minuti. Ne abbiamo dedotto che in realtà volevano venderci. Così ci è sembrato di capire anche origliando i discorsi che facevano tra loro alcuni guardiani. Nel tardo pomeriggio di domenica, poi, sono arrivate due guardie a prendermi. Cercavano proprio me, perché mi hanno chiamato per nome. Mi sono impaurito ma loro hanno detto subito che erano lì per riportarmi a Tarek al Matar. E agli altri hanno assicurato che anche loro dovrebbero tornare tra non molto. E’ tutto molto strano…”. Potrebbe essere una decisione presa in seguito alla protesta scoppiata tra i detenuti nel campo di Tarek al Matar per sapere della sorte dei compagni deportati. Ma allora non si capisce come mai solo uno dei gruppo sia stato riportato indietro mentre 19 restano sequestrati in una prigione che non si sa dove sia. L’episodio di Tarek al Sika, avvenuto tra il 2 e il 3 agosto, seguirebbe grossomodo lo stesso copione. I profughi interessati, però, sono molti di più, circa 200. I fatti sono stati ricostruiti anche in questo caso grazie a testimonianze raccolte da esponenti del Coordinamento Eritrea Democratica attraverso una serie di concitate telefonate fatte durante la notte da alcuni profughi. Nella seconda metà di luglio, dopo il 20, l’intero gruppo è stato trasferito da Tarek al Sika in un’altra prigione, situata da qualche parte nei dintorni di Tripoli: una grossa struttura in muratura, con un cortile circondato da un muro di cinta alto circa due metri, sicuramente non molto lontano perché ci sono arrivati in meno di un’ora di camion. Quasi tutti si trovavano a Tarek al Sika ormai da tempo e buona parte, circa 110, risulterebbero registrati dall’Unhcr nell’ambito di un programma di relocation verso il Niger e da qui, possibilmente, verso l’Europa. Proprio per questo il trasferimento ha suscitato una grande inquietudine, ma almeno inizialmente pare non ci siano state contestazioni. I problemi sono iniziati quando, la sera del due agosto, sarebbe arrivato al campo un libico sconosciuto ai profughi ma che si sarebbe mosso con estrema disinvoltura e che, presenti le guardie stesse, avrebbe avvicinato i migranti, prospettando la possibilità di farli imbarcare entro pochi giorni per l’Italia da un “posto sicuro” e con una organizzazione “affidabile”. Di più: per vincere la diffidenza ed, anzi, la decisa, crescente resistenza manifestata dai profughi, quell’uomo li avrebbe messi in comunicazione, per telefono, con un eritreo il quale a sua volta, parlando in tigrino, avrebbe confermato che, affidandosi alla persona che li aveva contattati, si sarebbero potuti imbarcare entro pochi giorni. Nessuno dei duecento si è lasciato convincere. Anzi, molti hanno cominciato a protestare e, temendo di essere costretti a seguire quel libico, hanno segnalato la situazione al Coordinamento Eritrea. Tra tutti, ma in particolare tra i 90 che non risulterebbero registrati, è fortissimo il sospetto che si sia messa in moto una operazione per cederli come lavoratori-schiavi o peggio. “Ci hanno detto – denunciano – di averci trasferito in un campo controllato dal Governo di Tripoli per decongestionare l’affollamento enorme di Tarek al Sika. Ma questo nuovo centro appare fuori controllo. Il personale di guardia non è nemmeno in divisa e non sembra esserci una struttura operativa organizzata. Chiediamo di essere riportati dove eravamo prima, a Tarek al Sika. Certo, lì le condizioni di vita sono durissime, ma almeno è sicuramente una struttura ‘ufficiale’, gestita da autorità istituzionali. Qui non si capisce bene nemmeno chi siano i nostri carcerieri. E’ assurdo che quel libico a noi sconosciuto, che sembrava però in grande familiarità con le guardie, sia potuto entrare liberamente e ci abbia messo in contatto con un eritreo che ha parlato come un emissario dei trafficanti di uomini. Lo abbiamo fatto presente a un funzionario arrivato da Tarek al Sika il 3 agosto, dopo la nostra protesta della notte precedente. Ma lui non sembra aver dato peso a quanto denunciavamo. Anzi, dopo aver parlato con alcune guardie, ha ribadito la sua fiducia in quell’uomo, aggiungendo che starebbe addirittura aiutando la polizia a combattere i clan criminali che gestiscono il mercato di esseri umani”. I nuovi casi di Tarek al Matar e Tarek al Sika si sono verificati proprio all’indomani del respingimento forzato di 101 migranti (tra cui 5 bambini e 5 donne in stato di gravidanza) effettuato dalla nave italiana Asso Ventotto. Trasbordati nel porto di Tripoli su una unità della Guardia Costiera libica, quel centinaio di disperati sono stati sbarcati nella base militare di Abu Sitta. Tutti i migranti che arrivano qui, dopo pochi giorni vengono distribuiti nei centri di detenzione della zona, come Tajoura, Ain Zara e, appunto, proprio Tarek al Matar e Tarek al Sika. Per il Governo italiano, però, è tutto “regolare”. “Regolare” che profughi salvati da una nave italiana (e dunque ormai in territorio italiano e sotto la tutela delle nostre leggi, a cominciare dalla stessa Costituzione, terzo comma dell’articolo 10) vengano riportati contro la loro volontà in Libia, uno Stato che non ha mai firmato la Convenzione di Ginevra sui diritti dei rifugiati e che, soprattutto, non può assolutamente essere considerato un “porto” ed anzi un paese sicuro: l’Unione Europea lo ha ribadito con forza appena una decina di giorni fa, specificando che nessuna nave degli Stati Ue può e deve riportare in Libia i migranti eventualmente soccorsi in mare. “Regolare”, ancora, che quei profughi finiscano in gironi infernali come Tarek al Matar e Tarek al Sika, ma anche Tajoura, Ain Zara, Zuwara, Homs, Gharyan, Bani Walid… Gironi infernali dove decine di giovani possono essere fatti sparire senza lasciare traccia. Come sembra sia accaduto ai venti ragazzi portati via da Tarek al Matar la sera del primo agosto

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