I ragazzi della Diciotti: la fuga è un errore ma la soluzione non sono le barriere

Giornalista, già responsabile delle edizioni regionali e vice capo redattore della cronaca di Roma de Il Messaggero, ha approfondito i problemi dell’immigrazione.
Condividi
18 settembre 2018
Più della metà dei profughi eritrei arrivati a Catania con la nave Diciotti hanno abbandonato i centri di accoglienza dove erano ospitati, in Sicilia e a Rocca di Papa, alle porte di Roma, in attesa di iniziare, una quarantina, un percorso di relocation in Irlanda e in Albania, oppure, la maggioranza, di inserimento sociale in Italia, con l’aiuto della Cei, in base a un progetto simile a quello adottato per i migranti giunti attraverso i corridoi umanitari dall’Africa e dal Medio Oriente. Si tratta di almeno 70-75 “fuggiaschi” e non è ancora finita: si starebbero dileguando anche alcuni dei ragazzi già presi in carico, in varie città della Penisola, da parte di curie, parrocchie e organizzazioni umanitarie, che si sono impegnate ad assisterli fino a quando non avranno ottenuto un permesso di soggiorno come rifugiati o un’altra forma di tutela internazionale. I primi 16 che hanno scelto di andarsene sono stati individuati a Roma, presso l’accampamento di tende organizzato dal gruppo Baobab Experience in uno spazio abbandonato dietro la stazione Tiburtina, un centro di accoglienza “spontaneo” che alloggia centinaia di migranti. Gli ultimi 34 la polizia li ha trovati a Ventimiglia, mentre stavano per raggiungere il campo Roja, la struttura gestita dalla Croce Rossa e diventata ormai da anni una delle principali basi di partenza per tentare di attraversare clandestinamente il confine con la Francia. Facevano parte di un gruppo di 51 che viaggiava su un pullman noleggiato da Baobab Experience, partito diverse ore prima proprio dall’accampamento della Tiburtina. “Vogliamo andare in altri Stati europei – ha detto uno di loro a un cronista – In Germania o in Svizzera, ad esempio. Oppure in Svezia. Lì abbiamo familiari e amici pronti ad aiutarci e, in ogni caso, in quei paesi il sistema di accoglienza è molto migliore che qui da voi. In più, abbiamo paura a restare in Italia: non ci sentiamo sicuri e non ci fidiamo dopo tutto quello che è successo… Prima siamo rimasti prigionieri sulla nave per una decina di giorni, in mare e persino in porto. Poi l’ostilità di tanta gente che, quando siamo finalmente sbarcati a Catania, si è scagliata contro di noi con proteste, urla, minacce. E’ difficile credere che, in questo clima, per noi ci sia un futuro. Ecco perché in così tanti vogliamo andarcene. Io sono deciso ad arrivare in Svizzera: lì c’è chi può darmi una mano a ricostruirmi una vita”. Dice cose vere questo ragazzo. Nonostante non siano mancate, sul molo di Catania, anche iniziative di amicizia e solidarietà, contrapposte alle manifestazioni di stampo razzista che hanno accompagnato tutta questa vicenda, il contesto politico e il sentire comune che si sono creati intorno ai migranti sono tutt’altro che favorevoli. Persino il linguaggio usato ai massimi livelli di governo, in particolare con il ministro Salvini, è di una violenza e, spesso, di un disprezzo estremi. Si respirano, anzi, si toccano con mano, un senso di fastidio, ostilità, respingimento, rifiuto a priori di cercare di capire le ragioni e le storie di tanti disperati in fuga per la vita. E saranno state magari solo poche centinaia i “contestatori” al momento dello sbarco, come hanno scritto diverse organizzazioni umanitarie, ma resta il fatto che molti hanno giudicato una “operazione di buon senso” la lunga carcerazione di 170 giovani sulla nave Diciotti, mentre la maggioranza della gente ha preferito comunque voltarsi dall’altra parte, con una indifferenza colpevole, che rende complici e facilita questo clima pesante. Eppure, la scelta di quei 75 ragazzi è un errore. Anzi, un grosso duplice errore. Magari con mille giustificazioni e attenuanti, ma pur sempre un grosso, duplice errore. Il primo errore riguarda il futuro stesso dei giovani che hanno fatto perdere le proprie tracce. Anziché accelerare la soluzione dei loro problemi, come devono aver pensato, la loro fuga li ha esclusi da ogni programma di assistenza e di inserimento sociale, allontanando o addirittura annullando la prospettiva di un riconoscimento della loro posizione di rifugiati o profughi e condannandoli invece a un percorso che li sta portando verso una condizione di irregolarità e precarietà permanenti: un futuro da “fantasmi”, clandestini senza documenti, che fatalmente verranno rimandati in Italia, se mai riuscissero a raggiungere un qualsiasi paese europeo. E il paradosso è che quasi tutti erano inseriti nel programma di inclusione sociale più sicuro e organizzato, simile – come si è accennato – a quello dei corridoi umanitari attuati, in collaborazione con l’Unhcr, dalla Comunità di Sant’Egidio e dalla Chiesa Valdese, che hanno portato in Italia circa duemila persone e che dimostrano come sia possibile una valida, rapida alternativa alle politiche di chiusura varate in questi anni e alle barriere, quei “muri” sempre più alti, che consegnano di fatto migliaia di disperati ai clan criminali dei trafficanti di esseri umani. Il secondo è un grave errore politico, che alimenta proprio il programma di chiusura e respingimento che, iniziato ormai quasi vent’anni fa, ha raggiunto l’apice in Italia con l’attuale governo gialloverde dominato da Salvini. Un errore che non solo dà fiato a proteste becere e razziste come quelle registrate in questi giorni, ma solleva dubbi, incomprensione e interrogativi anche tra chi sarebbe disposto quanto meno ad “ascoltare”. E’ una decisione, cioè, che danneggia fortemente anche la posizione e la battaglia di migliaia di altri giovani i quali, nonostante le difficoltà e gli ostacoli crescenti e sfidando le circolari sempre più restrittive del Viminale, hanno scelto invece di percorrere le vie previste dalle norme in vigore per ottenere un permesso di soggiorno come esuli, rifugiati o comunque persone a cui va accordata una forma di protezione internazionale, denunciando, con la loro stessa richiesta di asilo e con le loro storie personali, le situazioni di crisi estrema che li hanno costretti a fuggire dal proprio paese: guerre, dittature, persecuzioni, terrorismo, fame, carestia, epidemie e malattie… Non mancano – si diceva – le attenuanti per questo grosso, duplice errore. E’ credibile, in particolare, che la scelta di quei 75 ragazzi sia stata dettata da una o dal combinarsi di queste tre cause. – Disinformazione. Appare molto probabile, come migliaia di altri prima di loro, che i ragazzi abbiano deciso di lasciare i centri dove erano ospitati senza conoscere bene le conseguenze di questa scelta. Senza sapere, cioè, come è evoluta la politica sull’immigrazione europea ed italiana, con la costruzione di sempre nuove barriere, la chiusura sempre più rigida delle frontiere e l’applicazione sempre più rigorosa delle norme secondo cui i rifugiati vanno affidati, anzi, sono “competenza”, del primo paese Ue in cui sono arrivati e sono stati identificati, in vista della richiesta di asilo. Quanto siano ormai estremamente rigide queste norme lo conferma la sorte delle migliaia dei cosiddetti “dublinati” (incappati cioè nel Regolamento Dublino) sradicati dalla realtà dove si erano inseriti e vivevano magari da anni, per essere rimandati nel primo paese di approdo. Tutti gli ultimi accordi operativi tra gli Stati dell’Unione Europea vanno in questa direzione, ma c’è da chiedersi se e quanti dei rifugiati che stanno arrivando ne siano a conoscenza. – Illusione di possibili scorciatoie. Sono attivi da anni – senza che siano mai stati combattuti radicalmente e sistematicamente – gruppi che prospettano scorciatoie del tutto illusorie e assolutamente infondate per eludere l’attuale sistema di accoglienza, promettendo di far passare i confini italiani e di consentire così di raggiungere, con relativa facilità e in tempi brevi, un altro paese europeo. Ne fanno parte anche connazionali dei giovani migranti, che si offrono come mediatori in cambio di un “compenso”. Secondo la comunità eritrea, anzi, anche personaggi che si presentano a loro volta come “profughi”, ma che sarebbero in realtà “infiltrati”, fedeli al regime di Asmara. E, spesso, si tratta anche di vere e proprie organizzazioni di trafficanti, che si muovono magari con meno violenza ma esattamente con la stessa tecnica adottata dai mercanti di esseri umani in Africa e nel Medio Oriente. Non è da escludere, cioè, che quei 75 ragazzi o molti di loro siano stati attirati in questo circuito dalla promessa di farli arrivare in tempi brevi presso familiari e amici residenti in Europa, senza dover sottostare alle procedure in vigore: esame delle commissione della loro richiesta, conseguimento del permesso di soggiorno e dunque di un eventuale titolo di viaggio, pratiche di ricongiungimento familiare, ecc. “Quando finalmente sbarcano, stremati da un viaggio lunghissimo e terribile – ha spiegato più volte don Mosè Zerai, dell’agenzia Habeshia, in circostanze analoghe – diffidano di tutti: hanno in testa solo l’idea di raggiungere ad ogni costo la città dove sanno di avere parenti e amici. Non credono a chi li mette in guardia: danno più ascolto al passa parola che parla di compagni che si sono “sistemati”, hanno una casa e un lavoro, vanno a scuola… Non si rendono conto che rispetto a qualche anno fa la situazione è molto cambiata. Così è facile ingannarli: seguono chiunque gli prospetti la possibilità di arrivare rapidamente nel ‘posto’ del loro sogno…” – Diffidenza nei confronti del sistema Italia. A parte le positive eccezioni della rete Sprar, il sistema di accoglienza italiano si risolve in realtà in un enorme, quasi infinito, disumanizzante parcheggio, dove gli ospiti sono costretti per anni. Lunghi anni di attesa, per poi sfociare quasi sempre, al termine del percorso, in un gigantesco nulla. In sostanza, un ennesimo “muro”, fatto di incomprensione e burocrazia, che ha “prodotto” sacche di decine di migliaia di giovani da sfruttare sia tra gli ospiti dei Cas e dei Cara, sia tra i migranti formalmente dotati di un permesso di soggiorno regolare, ma abbandonati a se stessi una volta usciti dal sistema di prima assistenza. Ovvero: migliaia di fantasmi, “non persone”, di fatto senza diritti, che finiscono per alimentare il mercato del lavoro nero o, peggio, lo schiavismo del caporalato, senza credibili prospettive per il futuro. La fuga dei 75 giovani eritrei della Diciotti, come quella di migliaia di altri prima di loro (basti ricordare il fenomeno dei cosiddetti “transitanti” che hanno raggiunto a schiere vari paesi europei passando dall’Italia, fino a tutto il 2015) può nascere proprio dalla paura di finire incastrati in questo sistema. “Una paura – sottolinea il Coordinamento Eritrea Democratica – molto ben sfruttata da chi istiga i profughi sbarcati in Italia a proseguire la loro fuga verso altri Stati di tutta Europa, creando spesso le condizioni per continuare a tenerli per anni sotto ricatto”. Alla luce di tutto questo, allora, sicuramente non può essere approvata la scelta di abbandonare i centri di accoglienza fatta da oltre la metà dei ragazzi della Diciotti, ma altrettanto sicuramente vanno respinti i pregiudizi, le analisi e i commenti affrettati che si sono uditi numerosi da parte di vari esponenti politici e dello stesso Governo. Per evitare nuovi casi di questo genere, per garantire una ospitalità dignitosa a profughi, rifugiati o migranti e, infine, per combattere davvero il traffico di esseri umani, l’unica vera risposta sono una radicale riforma del sistema di accoglienza italiano e l’adozione di un programma unico di asilo, valido in tutta Europa, con quote obbligatorie ripartite tra tutti gli Stati Ue e che preveda canali di immigrazione legali. Il Parlamento europeo ha già indicato e votato un progetto di questo genere. La Commissione Europea lo ha rigettato, ribadendo la politica dei muri, dei respingimenti e della esternalizzazione dei confini della Fortezza Europa. I fatti di questi giorni, incluso il numero crescente di vittime provocato proprio da questa politica, dimostrano che la soluzione del problema non è nelle barriere.

Leggi anche