Arriva dalla Guinea l’ultima strage di migranti “silenziata”

Giornalista, già responsabile delle edizioni regionali e vice capo redattore della cronaca di Roma de Il Messaggero, ha approfondito i problemi dell’immigrazione.
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12 ottobre 2018
Sono morti in 60, portati via dalle onde dell’Atlantico, di fronte all’Africa. Altre 60 vite di giovani migranti spezzate. A migliaia di chilometri dall’Europa. Eppure, vittime dei muri innalzati dalla Fortezza Europa per escludere, tenere lontani, tanti, tantissimi disperati come loro. Si erano imbarcati nel nord della Guinea Bissau su un cayuko, la barca da pesca in legno tipica della costa occidentale africana, semplice e solida, in grado di reggere bene il mare. Puntavano a nord, verso l’arcipelago spagnolo delle Canarie, tornato ad essere, come all’inizio degli anni 2000, una delle porte d’ingresso all’Europa, dopo il blocco sempre più stretto delle vie di fuga del Mediterraneo e del Sahara. Non hanno fatto molta strada. Il naufragio è avvenuto quando il battello era ancora nelle acque della Guinea, sia pure a non grande distanza dalla linea di frontiera con il Senegal. Se ne ignorano le circostanze e le cause precise, perché non ci sono testimoni e nessuno è intervenuto per portare soccorso. La notizia è trapelata a tragedia avvenuta: ne ha parlato, due giorni dopo, il 3 ottobre, il comandante della Guardia Costiera, Siga Batista. “Non sappiamo quante persone ci fossero a bordo – ha riferito l’ufficiale all’agenzia France Presse – Né conosciamo la nazionalità o, tantomeno, l’identità delle vittime. Secondo le informazioni raccolte, però, a bordo dovevano essere più di 60. Non siamo stati in grado di organizzare i soccorsi e neanche le operazioni di recupero delle salme: non abbiamo i mezzi per farlo. Per questo abbiamo chiesto aiuto ai pescatori della zona, invitandoli a perlustrare quel tratto di mare alla ricerca di eventuali superstiti o dei corpi delle vittime”. Siga Batista non lo ha detto, ma secondo fonti citate da Al Jazeera, sembra che non sia stato possibile far uscire in mare le due motovedette veloci della Guardia Costiera per mancanza di carburante. Già, in Africa anche così si può morire: perché in un continente che in molte parti galleggia sul petrolio, non c’è la benzina per i mezzi di soccorso. E’ una rotta molto lunga quella dalla Guinea alle isole di Fuerteventura, Lanzarote o Gan Canaria. E molto rischiosa. Forse quei 60 giovani pensavano di fare una sosta nel nord del Senegal, verso Saint Louis, dopo 800 chilometri di navigazione lungo la costa occidentale dell’Africa. Qualcuno magari progettava di fermarsi un po’ in Senegal, per raggranellare con un lavoro qualsiasi i soldi per proseguire il viaggio. Ma per la maggioranza c’è da credere che sarebbe stato solo un breve stop, per rifornirsi d’acqua e di carburante e riprendere subito dopo il largo prima di essere scoperti. Con molta cautela, perché la sorveglianza è ormai molto rigorosa. E se la polizia ti sorprende non c’è scampo: scattano il fermo e il rimpatrio forzato. Tenendo conto che, oltre tutto, in questi paesi la polizia in genere non va tanto per il sottile: in Marocco, il 26 settembre, una ragazza è stata uccisa e tre suoi compagni feriti gravemente dalle raffiche di mitraglia sparate contro la barca con cui stavano tentando di raggiungere la Spagna e il 10 ottobre una motovedetta ha fatto fuoco su un altro battello, nelle acque marocchine dello Stretto di Gibilterra, ferendo un bambino. E’ proprio questo il punto: norme e vigilanza che non danno quartiere. In passato la via delle Canarie partiva dal Marocco, all’altezza di Tarfaja o El Aeyun, nell’ex Sahara Spagnolo, la terra dei Saharawi. Poi i controlli crescenti della polizia, di anno in anno più rigorosi, hanno spinto più a sud i posti d’imbarco, verso Dakiha e Capo Bianco. Ma era solo l’inizio. Dal Marocco si è scesi in Mauritania, poi in Senegal e, appunto, perfino in Guinea. A spostare la linea di partenza sempre più lontano, a migliaia di chilometri dalla meta, è stato il Processo di Rabat, il primo degli accordi collettivi con cui, nel 2006, l’Europa ha esternalizzato in Africa le sue frontiere, affidandone la custodia ai servizi di sicurezza degli Stati contraenti. Servizi spesso affiancati da “inviati” e agenti europei. Funzionari di polizia spagnoli, con il compito di “consiglieri”, sarebbero stati segnalati in questi ultimi mesi sia in Mauritania che in Senegal. Anzi, la Spagna avrebbe riesumato la strategia di “bloccare all’origine le partenze” già sperimentata nei primi anni 2000, quando la rotta atlantica era battutissima dai profughi diretti alle Canarie o alla Penisola Iberica. Per impedire gli imbarchi, nel 2006, con il governo Zapatero, una task force della Guardia Civil fu dislocata lungo le coste mauritane e senegalesi. “Questo dispositivo – ha scritto El Diario il 6 agosto scorso – è ancora in vigore, con base nei porti di Nuadibù (Mauritania) e Dakar (Senegal). Oltre a un contingente di agenti, ci sono quattro imbarcazioni e un elicottero della Polizia Nazionale”. In febbraio, quando i due presidi hanno ricevuto la visita del ministro dell’Interno, Juan Ignacio Zoido – riferisce sempre El Diario – l’attività era piuttosto ridotta, ma negli ultimi mesi sarebbe di nuovo scattata l’allerta per fronteggiare il numero crescente di arrivi alle Canarie: hanno destato sensazione, in particolare il grosso cayuko che ha raggiunto l’arcipelago in agosto con 129 migranti a bordo e quello che, in precedenza, era addirittura approdato nella baia di Cadice, con quasi 100. A quanto pare, però, non ci si limita soltanto ai controlli. Come nel 2006, i servizi di intelligence spagnoli cercherebbero di individuare e di avvicinare i proprietari di cayukos e di altre imbarcazioni d’alto mare, in sostanza i passeur o i trafficanti, facendo pressioni perché non accettino di vendere barche ai migranti o di trasportarli loro stessi fino in territorio spagnolo. Pressioni – c’è da credere – fatte di avvertimenti e magari minacce, ma anche con considerevoli somme di denaro. Ancora una volta, insomma, l’obiettivo è quello di fermare profughi e migranti ad ogni costo e, anzi, di non farli neanche partire. Bloccandoli nelle situazioni di crisi da cui cercano di fuggire, a prescindere dalle loro storie e dalla sorte che li attende. Non farli entrare nell’Unione Europea: questo solo conta. Non importa chi sono, per quali motivi vogliono andarsene dalla propria terra, cosa si sono lasciati alle spalle di tanto terribile da indurli ad affrontare un viaggio pericolosissimo, nel quale tanti, tantissimi perdono la vita. Proprio come i 60 ragazzi annegati in Guinea in questi giorni. Ecco il punto: in Guinea, lontanissimo dall’Europa. E’ stata una strage, ma in Europa non ne è arrivata neanche l’eco. E in una società della comunicazione come la nostra, dove se non si va in televisione o sui media non si esiste, quella strage è come se non fosse mai avvenuta. Non se ne parla, dunque non c’è mai stata e non può scuotere, o anche solo “disturbare”, le coscienze. Eppure si tratta di 60 giovani vite spezzate, come migliaia di altre prima di questo ennesimo naufragio, proprio mentre tentavano di bussare alle nostre porte per chiedere aiuto, solidarietà, la possibilità di un futuro. Ma è proprio a questo che punta l’esternalizzazione delle frontiere europee iniziata nei primi anni 2000: “silenziare” e nascondere. Fare in modo, cioè, che non si parli delle migliaia di “sommersi” che si registrano di anno in anno. Ragazzi uccisi due volte da questa politica di chiusura e respingimento: prima in mare o nel deserto e poi nel sentire comune. Fino a farne dei desaparecidos senza volto, senza nome, senza memoria.

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