Intervista con Erika Janet Rinaldi

di
Condividi
31 ottobre 2018
Al Teatro dei Documenti, in prima assoluta, lo spettacolo della drammaturga italo-argentina Erika Janet Rinaldi, con la regia di Alejandro Radawski. IL CLAN “Settemilatrecento Lune è l’opera prima della YOSOY Compagnia Teatrale, un progetto che fa delle differenze e del confronto la sua base. Ne parlo con la drammaturga in un’interessante chiacchierata. Prima di parlare dello spettacolo”, parliamo di te Erika. Sei venuta in Italia due anni fa per metterti sulle tracce delle tue origini e continuando a fare teatro. Da lì la nascita della YOSOY Compagnia Teatrale, raccontami questa storia, com’è nata la compagnia? Sono venuta in Italia due anni fa per studiare, lavorare, fare quello che amo. Prima di venire ho iniziato a ricostruire il mio albero genealogico, perché il mio bisnonno era italiano e quando sono arrivata in Italia dall’Argentina sono andata nel suo paesino, Nissoria, in Sicilia. Ho trovato delle famiglie che avevano il nostro cognome, che erano parenti, ho trovato la strada e la casa dove il mio bisnonno era nato e vissuto. Tutto questo è stato possibile grazie al Comune e all’ufficio parrocchiale. Mi viene sempre da fare un paragone con la mia famiglia: mio bisnonno quando è andato in Argentina aveva dodici anni, la sua famiglia partì senza sapere se avrebbero mai raggiunto una terra. Sono stati tre mesi su una barca, mentre io sono venuta in aereo, grazie a un viaggio di quattordici ore, con tutto un altro spirito, un altro tipo di esperienza. Io l’ho scelto, loro no. La loro preoccupazione era trovare una via d’uscita, trovare un modo per vivere ed essere felici. Erano i primi anni del Novecento e quattro generazioni dopo, sono venuta io in Italia, ho ritrovato me stessa attraverso le mie radici e grazie a Dio, in cui credo tantissimo. Sono andata già due volte a Nissoria e sono sempre stata accolta come in famiglia, si è costruito un rapporto bellissimo. Arrivata a Roma ho cercato di capire dove potevo lavorare come attrice e mettere in scena la mia opera teatrale . All’inizio pensavo che l’avrei messa in scena nella mia lingua madre, lo spagnolo, mi hanno suggerito di tradurla, e allora la mole di lavoro è aumentata. Ho tradotto l’opera con la consulenza e l’aiuto di mio cugino, Filippo Rinaldi, che ho conosciuto grazie alla ricostruzione del mio albero genealogico, e di Renata Savo, che è stata la prima persona con cui sono entrata in contatto quando ero ancora in Argentina. Non conoscevo nessuno e ho iniziato quindi a contattare persone su internet: attori, registi, addetti ai lavori e la prima ad avermi risposto è stata Renata, con cui è nata una bella amicizia, prima virtuale e poi reale. Il regista Alejandro Radawski l’ho conosciuto in Argentina, gli ho parlato del mio testo e gli ho proposto di curarne la regia. La sua idea è stata quella di fare uno spettacolo che coinvolgesse artisti di tutto il mondo, idea che ho abbracciato totalmente, perché da italo-argentina porto nel cuore la storia del mio bisnonno che è andato alla ricerca di un altrove, per una vita migliore, scelta che comportò il doversi sentire straniero prima di essere accolto e sentirsi a casa. Anche io sono straniera in questo paese, una volta nella vita tutti ci sentiamo di esserlo. Per questo ho voluto realizzare questo spettacolo formando un gruppo sotto il nome di YOSOY Compagnia Teatrale, che in qualche modo rinvia al fatto che il mondo è di tutti, che tutti siamo uno, e come artisti dobbiamo mantenere il senso di questa unione. “Io sono” è come un mantra che dà forza, non è qualcosa di superficiale, ma legato allo spirito. Tra le cose la compagnia è costituita da attori e attrici di nazionalità diverse, uno schiaffo alle politiche incitanti odio e razzismo che sembrano dilagare sempre di più. Avete avuto riscontri positivi di sensibilizzazione, avete trovato un modo per comunicare al pubblico l’importanza di questa diversità che dialoga attuando una qualche sensibilizzazione? Fortunatamente sì, abbiamo ricevuto molto supporto. E questo perché qualcuno ha creduto nel nostro progetto, come IILA - Istituto Internazionale Latino Americano, che fa eventi e spettacoli tra l’Italia e l’America Latina, e lavora con le differenze culturali; Casa Argentina - Officina Culturale dell’Ambasciata della Repubblica Argentina in Italia, e anche l’Ambasciata del Cile; FellGood Training, associazione internazionale che ci ha dato un aiuto per noi grandissimo, anche loro come noi sostengono valori come la felicità e l’amore; Centro Studio Atelier Centodue, presso cui abbiamo fatto le prove; e Antù & Kuyén. YOSOY Compagnia Teatrale nasce dall’amore per il prossimo e per il teatro. L’amore può cambiare il mondo. In un mondo - non solo in Italia - in cui la diffidenza verso il prossimo e il razzismo sono dilaganti, YOSOY vuole affermare che si può stare l’uno accanto all’altro, su un palco, uniti dal teatro anche se veniamo da diverse parti del mondo. Quello che è più importante è ciò che ci portiamo dentro, come artisti e come esseri umani. Stessa cosa lo spettacolo, affronta un tema molto importante che è quello delle ideologie tramandate, i clan ghettizzati che coltivano autoritarismi. Da dove l’intuizione per scrivere questo spettacolo, e quali episodi lo hanno influenzato o arricchito, se ce ne sono stati? Non so se la chiamerò “intuizione”, nel senso che era proprio una storia che cresceva e si faceva spazio dentro di me, mi prendeva vita. Non c’è stato un solo episodio che me l’ha ispirata, ma il mondo intero. Io sono di San Rafael, che è un paesino della provincia di Mendoza in Argentina, e mi sono detta: “Ma se accadono tante cose qui, in questo piccolo pezzo di terra, figurati che cosa succede nel mondo!”. Sono quindi tante le storie drammatiche che mi hanno spinto a scrivere durante un seminario di drammaturgia questo testo teatrale. Questo testo parla di potere e di donne, di oppressione, sottomissione, vi si trova il peggio dell’essere umano. In Argentina si sentono molte vicende di violenza che vedono vittime le donne, e questa è una cosa che in quanto donna sentivo di voler raccontare. Come esseri umani siamo imperfetti, e abbiamo cose brutte dentro di noi, ma se noi, come sempre dico, portiamo avanti l’amore, allora potremmo diventarlo perfetti. Come definiresti la tua esperienza in Italia e con il teatro italiano? In generale, un’esperienza meravigliosa, mi sono sentita bene accolta, come ho detto a proposito della ricerca sulle mie origini italiane. Ho visto molti spettacoli di teatro italiano, ho seguito la stagione del Teatro Ghione, per esempio, e mi sono fatta poi man mano suggerire spettacoli dalle persone che ho conosciuto, anche per capire come si lavora qui, nella culla dell’arte. Parlando delle vostre due personali esperienze teatrali all’infuori dell’Italia, cosa ti porti dietro che vi ha fortemente influenzato? Il mio modo di lavorare in Argentina. Ho iniziato a lavorare qui nella maniera in cui lavoravo in Argentina, dove facevo solo l’attrice. Qui mi occupo anche dell’organizzazione, ho dovuto ampliare le mie competenza, vedendomi anche in un altro ruolo. “La guerra non finisce mai, perché continua nelle coscienze, negli anfratti domestici.” Oltre al parlarne e discutere, in maniera pratica e propositiva, dove vedi una soluzione per arginare questo dramma collettivo? In quello che ci manca: nell’amore, il vero amore, e nella fede.

Leggi anche