La dittatura eritrea: da che parte sta Jovanotti?

Giornalista, già responsabile delle edizioni regionali e vice capo redattore della cronaca di Roma de Il Messaggero, ha approfondito i problemi dell’immigrazione.
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23 novembre 2018

Jovanotti ha fatto uscire in questi giorni “Chiaro di luna”, un video che prende il titolo da una delle sue canzoni più ascoltate e più cantate nei 67 concerti Live tenuti quest’anno. Per ambientarlo ha scelto Asmara, in Eritrea. La città scorre veloce nelle immagini: le strade, le piazze, le “architetture italiane”, la sala del bar del cinema Roma, un salone di parrucchiere, piccole scene di vita quotidiana. Perché proprio Asmara? Un po’ per una specie di “ritorno alle radici”: il nonno di Jovanotti ha fatto per anni il camionista in Eritrea. Il resto lo ha spiegato lo stesso cantante: “Sapevo poco dell’Eritrea. Avevo solo sentito o letto qualche racconto sull’Africa OPrientale dei tempi che fu colonia. E poi le notizie che moltissimi dei ragazzi che arrivano in Italia attraverso il Mediterraneo sono eritrei. Da tanto volevo andarci… Lo avevo già programmato, in solitaria, zaino e via. Poi ho sentito che quello era il posto giusto per questa canzone e non c’era nessuna alternativa che mi convincesse. Volevo raccontare l’Africa senza stereotipi, perché non esiste luogo al mondo più complesso e più legato al nostro destino e gli stereotipi e le generalizzazioni fanno sempre e solo male. I ragazzi non scappano se trovano opportunità e maggiori spazi di lavoro. Sono orgoglioso di starci e di tornarci in Eritrea. Proprio come Yonas, un giovane eritreo esperto di video che ci ha fatto il backstage e che ha deciso di recente di tornare dall’Italia ad Asmara con sua moglie e sua figlia”.

Ma ci sono tanti, tantissimi, la maggioranza tra i giovani della diaspora, che non la pensano come Yonas. E che non vogliono né possono tornare in Eritrea, perché dall’Eritrea sono stati costretti a scappare per non finire schiavi della dittatura. Perché la loro, in una parola, è una “fuga per la vita”. Dei loro sentimenti si è reso interprete il Coordinamento Eritrea Democratica: “Il punto – dice - è uno solo: in occasione della promozione del video si può stare al gioco della dittatura, che sta cercando di fare della pace appena firmata con l’Etiopia l’ennesimo pretesto propagandistico per rafforzarsi; oppure si può fare della pace uno strumento per il ritorno della libertà e della democrazia. Tutto qui: basta scegliere. Anzi, mai come adesso bisogna scegliere: o con la dittatura o con chi si batte per una nuova Eritrea”.

Poche, chiare parole. Accompagnate però da una lunga lettera a Jovanotti. La riportiamo di seguito integralmente.

Caro Jovanotti,

le scriviamo a nome del Coordinamento Eritrea Democratica, una organizzazione che riunisce le principali forze di opposizione e resistenza presenti in Italia contro il regime di Asmara. Abbiamo visto il video che accompagna le sue ultime musiche. Sarebbe stato difficile, del resto, non vederlo: l’Ansa lo ha messo in rete, lo hanno rilanciato numerose testate giornalistiche, il Tg-1 gli ha dato un grande rilievo….

Bello. Tutto bello. Non nascondiamo che ha suscitato in noi una certa emozione. E ci ha riempito il cuore di nostalgia per la nostra terra. I ragazzi che ha scelto come “protagonisti”: la giovane coppia, in particolare. E la gente. La partita a dama. Due chiacchiere davanti a un caffè, in un magnifico bar d’epoca come qui in Italia non se ne trovano più. La corsa ciclistica con i tifosi assiepati lungo le strade. E poi gli scorci e gli edifici di Asmara, questa città magnifica, che ci riempie d’orgoglio, non a caso dichiarata dall’Unesco patrimonio dell’umanità. Però…

Però, c’è un però. Anzi, più di uno. Da quelle immagini emerge un’Eritrea che non c’è. Forse lei non se ne è accorto, ma non c’è. Non c’è quella serenità o anche solo quella “normalità” che suggerisce il filmato. Se è vero, come è vero, che una città è il “luogo dello stare insieme”, allora Asmara non è più una città, perché ad Asmara non si vive più “insieme”: basta grattare un po’ ed emergono diffidenza, sospetto, paura. E i ragazzi eritrei, purtroppo, sono lontanissimi dal quadro suggerito da quella descrizione a tinte rosa della sua storia. La storia, la vita vera dei giovani eritrei, la racconta, ad esempio, la terribile vicenda di Ciham Ali Ahmed.

Ciham è una ragazza di 21 anni, con cittadinanza eritrea e statunitense, figlia dell’ex ministro dell’informazione, accusato di “cospirare” contro il Governo e fuggito in esilio. E’ stata arrestata nel 2012, quando di anni ne aveva appena 15, l’età di molti dei suoi fans, quella in cui ci si affaccia alla vita pieni di sogni e speranze. Ma i sogni e le speranze di Cihan sono stati bruscamente troncati quel giorno in cui la polizia di frontiera la ha bloccata e gettata nel buio di una galera, mentre stava cercando di entrare in Sudan insieme allo zio, fatto sparire a sua volta, così come è sparito anche il nonno, arrestato arbitrariamente, senza accuse da cui potersi difendere, e morto in carcere. C’è da pensare a una rappresaglia contro una famiglia di dissidenti, invisi al regime. Non solo: in questi sei lunghissimi anni di carcere i suoi genitori, i suoi fratelli, Ciham non hanno mai potuto vederla né sentirla. Perché Ciham è una detenuta incommunicando, cioè totalmente segregata dall’esterno. Proprio in queste settimane, mentre lei si accingeva a partire per l’Eritrea, Amnesty ha lanciato una mobilitazione internazionale per chiedere al Governo dove sia finita Cihan, per liberarla e riunirla ai suoi cari…

Ma lei non si è accorto di Ciham.

Si vedono, nel filmato, strade tranquille e gente spensierata. Ma nessuno è tranquillo davvero in Eritrea, perché per passarsela male basta un niente: basta appena appena che il regime sospetti che non sei allineato. Basta la soffiata di un delatore. E, infatti, il paese è stato trasformato in uno stato-prigione. Pensi, che ci sono oltre 300 carceri, nelle quali sono rinchiusi, perseguitati, torturati, talvolta uccisi, 10 mila prigionieri politici. Badi, 300 carceri con una popolazione di 5 milioni di abitanti: nel Lazio, con lo stesso numero di abitanti dell’Eritrea, di carceri ce ne sono 12. Ma in Eritrea gli arresti degli oppositori sembrano non finire mai. L’ultimo caso è quello di Berhane Abrehe, ex ministro delle finanze ed ex delegato alle Nazioni Unite. Anche lui è stato fatto sparire: arrestato per strada ad Asmara, non si sa nemmeno in quale galera sia finito. E’ “colpevole” di aver scritto un saggio in cui spiega il suo progressivo distacco dal regine e di aver poi invitato il presidente Isaias Afewerki a un confronto alla Tv di Stato sulla politica condotta in questi anni.

Ma lei non se ne è accorto.

Ed è strano che, sempre nel filmato, non compaia un solo giovane in divisa militare. Neanche di sfuggita. Strano perché in Eritrea tutti sono soggetti a una leva, in armi o come soldati-lavoratori, che dura un numero indefinito di anni, dall’adolescenza alle soglie della vecchiaia. Questa è la vita vera degli eritrei: la militarizzazione totale che ti ruba metà dell’esistenza. E che, finora, non si è attenuata nemmeno dopo la firma della pace a cui il regime è stato trascinato dall’Etiopia con la sua politica di riforme e distensione che sta trasformando il Corno d’Africa. Anzi, il conflitto ventennale contro Addis Abeba si è appena concluso, ma non è da escludere che venti di guerra tornino già a soffiare: dopo aver messo a disposizione le basi da cui partono gli aerei della coalizione saudita che ogni giorno vanno a bombardare indiscriminatamente lo Yemen (colpendo anche scuole, ospedali, mercati, moschee, ogni genere di obiettivi civili), ora Asmara sembrerebbe intenzionata ad offrire propri contingenti militari da inviare a combattere contro i ribelli Houti, al di là del Mar Rosso. Così avrà l’ennesimo alibi per non smobilitare. Fa così dal 1994, l’anno della guerra contro il Sudan, la prima di una lunghissima serie.

Ma lei non se ne è accorto.

Tutto questo orrore è stato ampiamente provato ed evidenziato da ben due inchieste dell’Onu, pubblicate nel 2015 e nel 2016. Nella prima si afferma che in Eritrea è stato eletto il terrore a sistema di potere, violando sistematicamente i diritti umani. Nella seconda, si rileva che ci sono elementi più che sufficienti per deferire i principali responsabili del regime alla Corte internazionale dell’Aia.

Ma lei non se ne è accorto.

Allora, bello, bellissimo il suo filmato. Peccato che descriva o, quanto meno, suggerisca una immagine ingannevole dell’Eritrea. Un’Eritrea che dal 1993, quando ha conquistato l’indipendenza, in realtà non c’è mai stata. O meglio, quell’Eritrea c’è stata per sole 24 ore: è nata ed è morta lo stesso giorno dell’indipendenza. Ci fu, quel giorno, una festa enorme. La gente sembrava impazzita di gioia e di fiducia nel futuro. Tutti erano convinti, quel giorno, quel breve giorno, che fosse iniziato il cammino verso un’Eritrea libera, democratica, aperta. Ma quel sogno è stato subito soffocato. E quella incontenibile gioia dei ragazzi che si abbracciavano e ballavano per strada si è spenta totalmente via via che quegli stessi ragazzi sono diventati adulti e vecchi. Peggio ancora, si è spenta nei loro figli, che infatti sono scappati e continuano a scappare a migliaia anche dopo la firma della pace, perché il problema vero è la dittatura, molto prima e più della guerra. Secondo i dati dell’Unhcr, dalla metà di luglio alla fine di ottobre, sono oltre 15 mila i nuovi esuli, soltanto verso l’Etiopia. Un esodo che sta svuotando il paese delle sue energie migliori. E ne uccide il futuro…

Ma lei non si è accorto neanche di questo.

Se vuole, possiamo discutere insieme di queste cose. Che ci spezzano il cuore, ma di fronte alle quali non ci arrendiamo. Noi saremmo lieti di incontrarla per un confronto franco e senza pregiudizi, ma in pubblico. Riceva intanto i nostri più cordiali saluti.

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