Malta, Pozzallo, Lampedusa: vittorie di pescatori “ribelli” ai muri anti migranti

Giornalista, già responsabile delle edizioni regionali e vice capo redattore della cronaca di Roma de Il Messaggero, ha approfondito i problemi dell’immigrazione.
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04 dicembre 2018
Hanno vinto loro, i marinai del motopesca spagnolo Nuestra Madre de Loreto: sono stati portati a Malta, non in Libia, i 12 migranti che l’intero equipaggio, dopo averli salvati in mezzo al Mediterraneo, ha rifiutato di consegnare alle autorità di Tripoli. Undici li ha sbarcati domenica 2 dicembre lo stesso peschereccio e uno, colpito da un grave collasso fisico, era stato trasferito in elicottero 48 ore prima. Non è stato facile. Il braccio di ferro con Tripoli, Roma, La Valletta e Madrid si è protratto per oltre dieci giorni, con i pescatori più che mai decisi a non cedere alle pressioni che gli piovevano addosso. “Li abbiamo recuperati in mare – ha più volte dichiarato Pascual Durà, il capitano – Non possiamo rimandarli in una realtà come la Libia: quello non è assolutamente un porto sicuro. E loro, tutti, hanno detto di essere pronti a morire piuttosto che ritornare in Libia”. Quei dodici ragazzi, insieme a una cinquantina di compagni, erano su un gommone intercettato in acque internazionali da una motovedetta libica, che li ha costretti a salire a bordo per riportarli indietro. Il Nuestra Madre de Loreto si trovava a breve distanza ed ha assistito all’intera operazione, incluso il danneggiamento del canotto per farlo affondare, a quanto pare, prima ancora che tutti i migranti che trasportava fossero evacuati. Quando alcuni giovani già trascinati sulla motovedetta hanno visto il peschereccio, non hanno esitato a gettarsi in acqua per cercare di raggiungerlo a nuoto, a rischio della vita ma come unica speranza di salvarsi dai lager a cui li stavano per riconsegnare. E i marinai spagnoli hanno ritenuto che fosse doveroso, anzi, naturale, soccorrerli e portarli al sicuro, sulla propria barca. Era il 22 novembre. Da quel momento è cominciata l’odissea a cui i porti chiusi e la politica di respingimento adottata dall’Italia e dall’Europa condannano ormai ogni battello che salvi migranti in pericolo di vita o comunque in difficoltà nel Mediterraneo. L’Italia e Malta hanno respinto a priori l’idea di aprire uno dei loro porti. Madrid ha iniziato una serie di colloqui diplomatici per convincere Roma o La Valletta, ma non ha offerto un proprio approdo. Nel frattempo il Nuestra Madre è rimasto a incrociare nel Mediterraneo, in condizioni meteo sempre peggiori e con pressioni via via più forti perché si arrendesse alla prospettiva di riportare i 12 ragazzi proprio in quella Libia da cui erano fuggiti. Isolato dalla politica, dalla sua parte si sono schierate Amnesty e altre Ong ma, in particolare, l’Unhcr, con l’ennesimo ammonimento che nessun migrante può essere costretto a rientrare in una situazione come quella libica, dove la sua vita non conta niente: è peggio di uno schiavo, una “res nullius” di cui tutti possono disporre. Lo stallo si è rotto quando Pascual Durà ha deciso di fare comunque rotta verso la Spagna, per rientrare a Valencia. Con il capitano del motopesca e il suo equipaggio sono scese in campo tutta la marineria e la stessa Comunità valenciana, in contrasto con la linea del Governo di Madrid. Il peschereccio era da poco sulla via del ritorno quando finalmente Malta, accogliendo la richiesta di Madrid, ha aperto i suoi porti. Da Roma è continuato il silenzio. Non è la prima volta che dei pescatori affrontano a viso aperto battaglie di questo genere. In nome – dicono – della legge del mare, che pone davanti a tutto la vita umana. Tra il 23 e il 24 novembre è accaduto con il vecchio barcone libico arrivato alle soglie delle acque territoriali italiane con 236 profughi. Roma si è affrettata a ribadire la chiusura dei suoi porti, accusando Malta di aver lasciato “passare” quel battello per non doversene occupare. Malta non ha reagito a queste accuse, ma nessuno intanto ha mobilitato i soccorsi. Meno che mai l’Italia, anche se il barcone, arrancando alla meglio, qualunque sia stata la rotta, era ormai non molto distante da Lampedusa. A risolvere la situazione è stato un peschereccio siciliano che, di fronte al pericolo enorme che correvano quei 236 disperati in fuga dalla Libia, ha preso a rimorchio il battello, trascinandolo fino al porto di Pozzallo. Anche a questo punto Roma ha innalzato un muro: lo sbarco è stato autorizzato solo per una cinquantina di donne e 12 bambini. Ma questo ordine disumano è stato travolto dagli avvenimenti: le condizioni dello scafo erano così precarie, con un’inclinazione di oltre 30 gradi su un fianco, che il comandante del porto, per evitare che si capovolgesse, ne ha disposto l’attracco pressoché immediato e il conseguente sbarco di tutti. Il 30 agosto, protagonisti di un’operazione analoga sono stati sei pescatori tunisini di Zarzis, uno dei più importanti porti pescherecci del paese. Il loro motopesca ha incontrato un barchino in avaria con 14 ragazzi a bordo, anch’essi tunisini, alla deriva da più di un giorno. Soccorrerli e portarli in salvo è stato un tutt’uno: preso a rimorchio il natante, lo hanno condotto a Lampedusa, il porto più vicino. Dell’operazione avevano dato avviso alle autorità italiane eppure, appena arrivati sull’isola, il peschereccio è stato sequestrato e i sei pescatori tutti arrestati e trasferiti in carcere ad Agrigento, con l’accusa di favoreggiamento dell’immigrazione clandestina: Chamseddine Bourassine, il capitano, e con lui Salem Lhiba, Lofti Lhib, Ammar Zemzemi, Farhat Tarhouni, Bechir Dib. In galera sono rimasti per 24 giorni. Poi il Gip ha revocato il fermo, riconoscendo che avevano soccorso persone in pericolo, così come avevano comunicato. Ma se l’equipaggio è potuto rientrare a Zarzis, il peschereccio, l’unica fonte di vita per tutti e sei, è rimasto sotto sequestro. Per riottenerlo è stato necessario avviare una apposita pratica, affidata a un delegato, dato che loro, essendo stati espulsi, non possono rimettere piede in Italia. “Il nostro arresto e il carcere in Italia – ha commentato con profonda amarezza Chamseddine Bourassine in una dichiarazione resa a Il Fatto Quotidiano – sono stati un brutto colpo. Adesso molti pescatori hanno paura a salvare i naufraghi, ma continueremo a farlo. Se vai per mare, se sei un essere umano, non puoi girare la testa dall’altra parte”. Ma forse è proprio questo che vogliono le politiche italiana ed europea: indurre a voltarsi dall’altra parte. Di certo, particolarmente arrabbiati per l’arresto dei loro colleghi tunisini sono i pescatori di Lampedusa, che si trovano spesso ad affrontare situazioni simili. E che non sono disposti a tirarsi indietro: a non vedere, cancellando regole e comportamenti che derivano da una cultura così antica da sembrare ormai innata. “Siamo arrivati al punto che se aiuti dei migranti in mare indicando la rotta verso Lampedusa, rischi di finire in manette”, ha sbottato Gerlando, un anziano pescatore del porto vecchio, parlando con Nello Scavo, inviato di Avvenire. Ed ha aggiunto: “Ma a dodici miglia dall’isola, con quale coraggio gli posso dire di tornarsene indietro e rifarsi duecento chilometri, magari con le onde di due metri e il carburante che scarseggia? Forse a Roma c’è qualcuno che dovrebbe capire che noi pescatori siamo. Pescatori, non assassini…”. E questa solidarietà antica prosegue a terra, offrendo le più diverse forme di assistenza dopo lo sbarco, magari una semplice telefonata per mandare notizie a casa: “Io diventerei pazza senza sapere di mio figlio…”, ha dichiarato, sempre ad Avvenire, con un grande senso di umanità, l’anziana moglie di un marinaio, richiamando le paure, le ansie di chi resta. Le notti insonni di mogli e madri che hanno perso traccia dei propri cari. Chi va per mare queste paure e queste ansie le vive, le tocca con mano, tutti i giorni. Ma l’Italia e l’Europa continuano ad alzare muri di fronte alla tragedia dei migranti. E a vantare come un grande successo la riduzione degli sbarchi, tacendo, stendendo una pesante coltre di silenzio, perché nessuno ne parli, sulla sorte dei ragazzi bloccati nel Mediterraneo o intrappolai in Libia o desaparecidos. Allora, ognuna di queste storie – le parole e i comportamenti dei pescatori che ne sono protagonisti – diventa una storia di resistenza contro la violazione dei più elementari diritti dell’uomo, a cominciare da quello alla vita stessa, e per la difesa di quei valori di libertà, uguaglianza, solidarietà, giustizia che sono il fondamento della nostra democrazia. Del nostro “stare insieme”. Mai come adesso è il momento di decidere da che parte schierarsi. I pescatori la loro scelta l’hanno fatta.

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