La rilettura irriverente della Cantata dei pastori di Peppe Barra

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09 gennaio 2019
Siamo da poco usciti dal periodo dell’anno che in molti aspettano e indicano come momento di maggior bontà, altruismo e dedizione. Eppure anche quest’anno, senza fare troppa retorica, i dati parlano chiaro, molti i senza dimora che han dovuto e devono affrontare il freddo, un governo della ruspa che minaccia qualunque tipo di spirito e attività di accoglienza, un centro a Roma, il Baobab, che aveva innescato una vera e propria macchina di umanità sgomberato, un sindaco, Mimmo Lucano, che credeva nel suo paese come oasi di asilo, accusato. Eppure, credenti o meno, la storia di Maria e Giuseppe che molti ricordano in questo periodo, il loro viaggio al freddo e al gelo, migranti, la sappiamo tutti. Ai benpensanti praticanti fa anche tanta commozione quel vagare per osterie senza ricevere alcuna ospitalità e l’avvento di un miracolo in una povera grotta. Eppure. Intanto per Natale mi trovo a Napoli, città incantevole coi suoi “bassi”, le sue tamburiate per strada, la sua bellezza sfacciata. Il suo legame con questo periodo dell’anno è tanto sentito. A Napoli il Natale vive ancora della sua tradizione e La cantata dei pastori ne fa parte. Sono ospite del Teatro Politeama, incontro il maestro Peppe Barra che da oltre quarant’anni porta in scena la sua interpretazione di quella cantata che ha oltre tre secoli di storia. Dalla prima edizione del 1698, dove la narrazione del percorso di Maria e Giuseppe alla ricerca di un luogo dove far nascere il figlio si avvaleva del suo elemento sacro, la versione poi ripresa nel 1974 di Roberto De Simone con Peppe Barra, riprende i fatti e la narrazione originale concentrandosi però interamente sulla comicità, accentuata nei due personaggi protagonisti, Razzullo (Peppe Barra) e il suo compagno di avventure e disavventure Sarchiapone, interpretato da un’immedesimatissima Rosalia Porcaro. I due catturano e trasportano con loro un po’ tutti i canoni umani, terreni; questo li rende tanto vicini al pubblico oltre che la loro spinta comica che trascina nella risata, a tratti anche tenerezza. Una rilettura che Nunzio Areni, musicista, ricercatore e profondo conoscitore della musica e teatro musicale del ‘700 napoletano, definisce come momento di grande spettacolo e tradizione culturale che merita di esser tutelato e restare appuntamento annuale nella città di Napoli. Impegnato nella ricerca di una casa stabile per la cantata, assieme al Comitato scientifico del Dipartimento di musica e teatro musicale colto e popolare dei conservatori di musica di Napoli e Avellino, promuove l’opera come bene immateriale dell’Unesco. “Peppe Barra è poi una delle ultime maschere napoletane” continua Areni “Espressione e capacità gestuale all’interno di un’operazione dove si mescolano tanti sapori come la commedia dell’arte, i lazzi dei commedianti, il sentimento dell’opera buffa, ma anche un’accuratezza di generi musicali. Chi può rappresentare tutti questi volti meglio di Peppe Barra?” Ed effettivamente il maestro mantiene salde quelle caratteristiche che lo identificano e rendono celebre sul palco. Barra da sempre è attento a dinamiche culturali popolari, ricordiamo la Nuova Compagnia di Canto Popolare, ha fatto della sua un’arte che arte preserva e tramanda repertori interpretandoli sempre con una personale rilettura e riscrittura. Alla Cantata è legato poi da un legame tutto personale che lo porta a parlarne come la favola più bella del mondo. “È sopravvissuta a secoli vuol dir che ci sarà qualche cosa in questa cantata” rilascia in un’intervista. Sul palco viene messo in scena, dunque, un racconto che si avvale di scenografie multiple, che si succedono ad ogni cambio scena, quasi come a rimandare agli sfondi dei presepi e rimarcare quindi un valenza iconografica alla quale la città di Napoli tiene molto. L’organizzazione della cantata vuole stupire, questo è evidente, così come la sua messa in scena che coniuga momenti recitati e coreutici, assieme anche a stacchi danzati, i demoni che con coreografie intermezzano le parti recitate. Scene che amplificano la loro appartenenza e personalità con l’uso del dialetto napoletano, usato da Razzullo e Sarchiapone e il rimando a un italiano in rima, a cui si rifanno tutti gli altri personaggi. Un tempo forse eccessivamente lungo, che condensato manterrebbe l’attaccamento alla visione, compensato però dalla vera bravura di tutti gli artisti in scena.

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