Selam, da sei anni in fuga dall’Eritrea

Giornalista, già responsabile delle edizioni regionali e vice capo redattore della cronaca di Roma de Il Messaggero, ha approfondito i problemi dell’immigrazione.
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16 gennaio 2019
“L’Eritrea? Grazie all’accordo che ha posto fine allo stato di guerra ventennale con l’Etiopia, è un paese che sta cambiando, aperto alla democrazia”. In realtà Isaias Afewerki, il dittatore che schiavizza l’Eritrea da vent’anni, è sempre al suo posto, con tutto il suo apparato di potere. E i dissidenti, come l’ex ministro Berahe Abrehe, continuano a finire in galera e a sparire, come le migliaia di prigionieri politici che riempiono le carceri dal golpe del 2001. Ma tant’è. Rinnovando ed anzi ampliando le “aperture” inaugurate con il governo Renzi e proseguite con Gentiloni e Minniti, di questa presunta Eritrea “nuovo corso” parlano capi di governo come il premier italiano Giuseppe Conte, ministri e parlamentari italiani ed europei, presidenti di Regione come Emiliano in Puglia, politici di destra e di sinistra estrema, personaggi pubblici di largo seguito come Jovanotti. Nessuno dice che, dall’indomani della firma del trattato di pace, a metà giugno, approfittando dell’apertura dei confini, sono scappati in sei mesi, solo verso l’Etiopia, oltre 27 mila giovani. Tanto che Asmara, dopo Natale, ha di nuovo chiuso la frontiera. Tutti dicono, al contrario, che ora i profughi, le migliaia di giovani che hanno fatto della diaspora politica eritrea una delle più vaste del mondo, ora possono tranquillamente rientrare. E non ci sarebbe da stupirsi se, a breve, agli eritrei venisse negato lo status di rifugiato o qualsiasi altra forma di tutela internazionale. Tra i primi a parlare di “ritorno” dei profughi è stato Jovanotti, citando il caso di Yonas, il tecnico che ha collaborato a realizzare “Chiaro di luna”, il controverso video girato ad Asmara, e che ora ha deciso di rimpatriare insieme alla moglie e alla figlia. Ma ci sono tanti, tantissimi ragazzi e ragazze della diaspora che non la pensano come Yonas. E che non vogliono né possono tornare in Eritrea, perché dall’Eritrea sono stati costretti a scappare per non finire schiavi della dittatura. Una è Selam, che ci ha messo sei anni per fuggire. E che ora è terrorizzata dall’idea di essere costretta a rientrare. La sua è una storia emblematica. In realtà non si chiama Selam: Selam è un nome di copertura scelto per ragioni di sicurezza e perché la sua identità non sia collegabile direttamente alle terribili umiliazioni che ha subito e che vorrebbe riuscire a lasciarsi alle spalle. Attualmente è in Russia, a Pskov, circa 20 chilometri dal confine con l’Estonia, insieme ad altri undici profughi eritrei. Nei confronti dell’intero gruppo, fermato dalla polizia mentre tentava di passare la frontiera, è stato emesso un decreto di espulsione. Il provvedimento non è stato ancora eseguito solo perché i giudici, pur respingendo la richiesta di asilo, si sono detti favorevoli a trasferire tutti, anziché in Eritrea, in qualsiasi altro Stato sia disposto ad accoglierli. Quella di Selam è sicuramente la vicenda più drammatica tra tutte quelle, pur difficili, dei suoi compagni. L’infanzia e la prima fuga Nata nel 1993 nella regione di Decamerè, nel sud dell’Eritrea, Selam aveva appena due mesi quando è rimasta orfana della madre. Tre anni dopo, nel 1996, ha perso il padre, morto nella guerra tra Eritrea e Yemen per il possesso delle isole Hamish, nel Mar Rosso. Da allora, fino all’età di 7 anni, di lei si è presa cura una zia. Al compimento del settimo anno è stata affidata a un orfanatrofio di Decameré, gestito da suore copte. Nell’istituto si è legata in particolare ad un’altra bambina orfana sua coetanea, Ribka (anche questo è un nome di copertura: ndr), con la quale ha frequentato le elementari e i primi anni delle medie inferiori. All’età di 15 anni le due amiche hanno deciso di scappare, spinte da due motivi: l’avvicinarsi dell’età in cui i ragazzi eritrei ricevono la chiamata per il servizio di leva obbligatorio e la pena di sentirsi emarginate da tutti, anche a scuola, perché orfane. Non ci è voluto molto ad eludere la sorveglianza dell’istituto. Lasciata Decameré, si sono mosse verso il confine con l’Etiopia, distante peraltro meno di 200 chilometri. Erano già arrivate a Senafé, alle soglie della frontiera, quando la polizia le ha intercettate e arrestate. Da questo momento è iniziato un sofferto periodo di detenzione che le ha portate, sempre insieme, in più carceri. Da Senafé sono state ricondotte a Decamerè, e rinchiuse per diversi giorni in un container prigione. Poi è iniziata una serie di trasferimenti: prima a Mai Aedaga (per tre settimane), poi ad Adiabeyto, nei pressi di Asmara (altre tre settimane) e, infine, a Wia, la prigione più dura, con celle di detenzione sotterranee, maltrattamenti, condizioni generali di vita al limite della sopportazione. Sono rimaste lì per oltre 4 mesi: tra le compagne di detenzione – secondo quanto ha riferito Selam – c’erano in particolare numerose suore copte e altre religiose. Il servizio militare (2012-2014) Erano passati circa sei mesi dal giorno dell’arresto quando sia Selam che Ribka sono state scarcerate e assegnate, benché minorenni, al lavoro obbligatorio previsto dal “servizio nazionale”, senza alcun compenso, proprio perché minorenni. Poco dopo aver compiuto 18 anni, tra il 2011 e il 2012, hanno continuano lo stesso lavoro ma, ora, con un salario mensile di 150 nakfa, meno di 9 euro. Ormai maggiorenne, Selam ha rivendicato a questo punto il diritto di essere esonerata dal servizio nazionale in quanto orfana di un caduto in guerra. La domanda è stata respinta. Nello stesso periodo ha conosciuto e poco dopo sposato un ragazzo appena più grande. Nel 2013, quando si è accorta di aspettare un bambino, ha rinnovato la domanda di esonero, puntando sulla gravidanza, oltre che sulla sua condizione di orfana di guerra. La risposta è stata ancora un “no”. Di lì a poco, però, dopo un periodo di addestramento presso una caserma, è stata assegnata alla “milizia nazionale cittadina”, l’organizzazione militarizzata i cui componenti possono vivere come civili ma custodendo a casa armi e divise perché hanno l’obbligo di essere sempre disponibili per eventuali emergenze o anche per servizi di routine di tipo militare: vigilanza, ispezioni, controlli, ecc. Nel 2014, quando la sua bambina aveva poco più di un anno, ha presentato di nuovo una istanza di esonero dal servizio nazionale e questa volta la richiesta è stata accolta. Seconda fuga. Prigioniera dei trafficanti (2015) Non più vincolata al servizio militare, si è rivolta all’ufficio immigrazione per ottenere un visto per l’espatrio per motivi di lavoro. Di fronte all’ennesima risposta negativa, lei e il marito hanno maturato la decisione di lasciare clandestinamente l’Eritrea. E’ fuggito prima il marito, riparando in Sudan. Selam l’ha seguito nel maggio del 2015: affidata la bambina a una zia, è scappata a piedi, camminando per 14 giorni verso il confine sudanese. E’ riuscita a passare la frontiera rivolgendosi a una organizzazione di contrabbandieri, che l’hanno fatta arrivare fino a Kassala ma la hanno poi sequestrata, insieme ad alcune compagne. E’ rimasta prigioniera, senza alcuna possibilità di comunicare con l’esterno, fino a quando è stata ceduta, insieme ad altre tre ragazze, ad alcuni trafficanti beduini Rashaida. “La trattativa per venderci come schiave – ha raccontato Selam – è stata condotta da un mediatore eritreo. Subito dopo i Rashaida ci hanno trasferito tutte e quattro nel Sinai. Appena arrivate, siamo state rinchiuse in un grosso container, in un punto imprecisato del deserto”. In quel lager c’erano già altre 17 tra ragazze e giovani donne. Tutte sequestrate per ricavarne un riscatto: a ciascuna di loro, per essere rilasciata, erano stati chiesti 10 mila dollari. E tutte, dopo essersi rifiutate di avere rapporti con i sequestratori, erano state ripetutamente violentate. La stessa sorte è toccata a Selam e alle sue tre compagne arrivate da Kassala. “Siamo state stuprate più volte – ha raccontato Selam – Spesso violenze di gruppo che si protraevano per ore, al punto da perdere la conoscenza e di non rendersi nemmeno più conto, di volta in volta, di quanti si accanivano contro di te. Spesso accadeva anche che qualcuna di noi veniva torturata proprio durante le telefonate fatte da un familiare per avere notizie o accordarsi sul riscatto, in modo da far sentire le sue urla di dolore attraverso il cellulare e indurre dunque ad accelerare i tempi del pagamento. In quella prigione ho conosciuto, in particolare, una giovane donna, anche lei eritrea, che aveva una bambina di otto anni. Il marito ha fatto di tutto per liberarle, ma non riusciva a trovare i 20 mila dollari richiesti. Ogni volta che aveva modo di mettersi in contatto, gli dicevano che più ritardava più sua moglie avrebbe subito violenze. A un certo punto, quell’uomo ha chiamato di nuovo dicendo che aveva solo 7 mila dollari. I trafficanti, allora, per costringerlo a procurarsi i soldi in qualsiasi maniera, hanno stuprato anche sua figlia, la bambina di appena otto anni. Quella povera piccola dopo tre o quattro giorni è morta per quello che le avevano fatto. E la madre è uscita di senno per il dolore”. “Nell’ottobre del 2015 – ha continuato Selam – finalmente per me quell’inferno è finito. Mio marito e altri miei familiari sono riusciti a raccogliere i 10 mila dollari per liberarmi. Insieme a me sono state rilasciate altre tre donne, tra le quali la mamma della bambina morta. Non potendo portarci verso Israele perché il confine era chiuso, ci hanno caricate su un pick-up e condotte in Sudan, fino a Khartoum. Appena arrivata, ho dovuto farmi ricoverare in ospedale per le lesioni riportate a causa dei continui stupri. Mio marito mi ha raggiunto subito. A poco a poco mi sono ripresa, ma la mia salute risente ancora delle violenze che ho subito…”. La fuga in Russia (2018) Dimessa dall’ospedale, Selam e il marito hanno vissuto per alcuni mesi in Sudan, facendo di tutto per recuperare il denaro necessario per tentare di arrivare in Europa attraverso la Libia. Selam pensava inizialmente a un viaggio da affrontare insieme, ma il marito l’ha convinta che c’erano troppi pericoli: sarebbe andato per primo lui e poi, una volta raggiunta l’Europa, pensava di avviare una pratica di ricongiungimento familiare, in modo da farla arrivare in sicurezza. E’ partito all’inizio del 2016. Entrato in Libia dal Sahara e raggiunta la costa vicino a Tripoli, dopo alcuni mesi, tra giugno e luglio, è riuscito a imbarcarsi, ma il gommone su cui l’avevano caricato è affondato nel Mediterraneo: i compagni hanno raccontato che è scomparso in mare insieme a numerosi altri. Selam ha saputo la notizia alcuni giorni dopo: “E’ stato terribile. Il dolore, il crollo delle speranze, un futuro sempre più scuro. Però di una cosa ero sicura: in Sudan non volevo restare, anche se, a quel punto, mi faceva paura tentare la via di fuga dalla Libia”. In Sudan, intanto, le condizioni di vita dei profughi si erano fatte più difficili, con frequenti ispezioni della polizia, retate, arresti, espulsioni, rimpatri forzati. Selam ha vissuto due anni in questo stato di incertezza, lavorando come poteva, con l’aiuto di altri profughi eritrei. L’occasione per tentare di nuovo la fuga si è presentata nella primavera del 2018. A Khartoum c’era una organizzazione che, per 4 mila dollari, offriva documenti falsi, biglietti aerei per la Russia e persino biglietti per lo stadio come “copertura”, in occasione dei campionati mondiali di calcio previsti tra giugno e luglio. Selam ha acquistato un “pacchetto” completo da un trafficante eritreo, spendendo in pratica quasi tutto il denaro risparmiato. A Mosca è arrivata senza problemi, insieme ad altri presunti “tifosi”. Una volta in Russia, pagando un’altra “tangente”, l’organizzazione di trafficanti contattata a Khartoum aveva assicurato di disporre di una rete di alloggi provvisori e di “passatori” in grado di accompagnare al di là della frontiera, verso l’Europa, chiunque lo volesse. Da Mosca al confine estone “A Mosca – ha raccontato Selam – ci aspettava un complice etiope del trafficante eritreo conosciuto in Sudan. Siamo rimasti come turisti per tutto il periodo indicato dal visto e poi l’organizzazione ci ha nascosto fino a quando, in cambio di altri 2.000 dollari, ha fatto sapere che era pronto il piano per l’espatrio. Sono venuti a prendermi verso la fine di novembre con una grossa auto. Eravamo in cinque, tutti eritrei: due donne e tre uomini. Abbiamo viaggiato a lungo, verso ovest, finché, il giorno 29, la nostra guida/autista, lo stesso etiope che ci aveva contattato appena arrivati a Mosca, ha detto che eravamo arrivati al confine con l’Estonia. Ci ha ordinato di scendere dalla macchina, indicandoci grossomodo la direzione da prendere, e subito dopo è ripartito. Non lo abbiamo più rivisto. Noi ci siamo incamminati, ma il confine non era vicino come ci era stato detto: doveva mancare ancora qualche chilometro. Non abbiamo fatto tanta strada. La polizia ci ha scoperto e arrestato, portandoci a Pskov. Neanche un giorno dopo hanno unito a noi un altro gruppo di profughi, sempre eritrei. Sette persone: due donne e cinque uomini. Abbiamo parlato tra noi. Tutti hanno alle spalle una storia simile alla mia. Come me, hanno scelto di tentare la via della Russia perché tutte le altre ‘rotte’ sono chiuse o troppo pericolose…”. Al momento del fermo, Selam e gli altri si sono dichiarati profughi eritrei, chiedendo di essere messi sotto la tutela dell’Unhcr. Pochi giorni dopo, tra la fine di novembre e l’inizio di dicembre, sono comparsi, tutti insieme, in giudizio. Nel procedimento li ha assistiti, un legale che – a quanto dicono – sarebbe stato loro assegnato “dalle Nazioni Unite”, probabilmente l’Unhcr. Hanno raccontato ciascuno la propria storia, dal momento in cui sono stati costretti a scappare dall’Eritrea agli ultimi passi, ormai non lontano dalla frontiera con l’Europa. Ma i giudici non hanno dato credito alle loro ragioni, respingendo la domanda di asilo e firmando invece un decreto di espulsione e rimpatrio forzato. Ora l’unica speranza è che qualche Stato li accolga, come esuli o a qualsiasi altro titolo. Sanno di non avere molto tempo: la sospensione del decreto di espulsione non può durare ancora a lungo. “Ma nessuno di noi – insiste Selam – vuole tornare in Eritrea. A qualsiasi costo…”.

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