Don Zerai: “La strage dei migranti è figlia di muri e respingimenti. Ma l’Italia fa finta di non vedere”

Giornalista, già responsabile delle edizioni regionali e vice capo redattore della cronaca di Roma de Il Messaggero, ha approfondito i problemi dell’immigrazione.
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23 gennaio 2019
Morti già 213 migranti dall’inizio dell’anno: 2005 in mare e 8 lungo le “vie di terra”. La rotta più pericolosa si conferma quella del Mediterraneo centrale, dalla Libia verso l’Italia, con 145 vittime, incluse le 25 salme affiorate fra il tre e il tredici gennaio nel golfo della Sirte. Sulla rotta spagnola i morti sono 58 mentre ne risultano 2 dalla Turchia alla Grecia. Il tasso di mortalità, il rapporto cioè tra i migranti scomparsi e quelli arrivati, è di uno ogni 25 se si considera l’intera Europa, ma addirittura quasi di uno a uno, un migrante morto ogni migrante arrivato, nella via di fuga verso l’Italia. Sono cifre da sterminio. Don Mussie Zerai, il presidente dell’agenzia Habeshia, sono anni che denuncia questa strage. “Sì – conferma – sono anni che ci troviamo di fronte a una strage continua. Una catastrofe che si sta compiendo sotto i nostri occhi, ma alla quale non si dà risposta. Peggio. Sembra quasi che le istituzioni e la gente, l’opinione pubblica, abbiano fatto l’abitudine a questa tragedia, quasi si trattasse di un fatto naturale e ineludibile. Gran parte della stampa, del resto, ne parla ormai come di una notizia di routine…”. Però, ad esempio, l’ultimo naufragio, quello del 18 gennaio, con 117 vittime, ha destato una vasta eco. Un’eco che non si è ancora spenta. “E’ vero, ma non poteva essere altrimenti. Si tratta di una tragedia che si è svolta a non grande distanza dalle acque italiane di Lampedusa e, oltre tutto, la segnalazione è venuta dalla Marina italiana. Senza contare che tutte quelle vite perdute in un solo naufragio hanno dimostrato di colpo che non è vero, come sostiene il governo italiano, che meno partenze significano meno morti. A parte che non far partire i profughi dalla Libia significa intrappolarli in un inferno, in lager dove soprusi, torture e morte sono la prassi quotidiana, purtroppo sono arrivati ben 117 morti a dimostrare che più muri si alzano più aumentano le vittime. Speriamo almeno che questo enorme sacrificio di esseri umani non venga presto dimenticato, come è accaduto fin troppe volte in passato, fino alla vigilia stessa dell’ultima strage”. E’ questo il rischio? Che, passata l’emozione iniziale, tutto torni nella routine? “Si, è esattamente questo il rischio. Senza andare troppo indietro nel tempo, lo dimostra il fatto che in Italia non si è spesa una sola parola sul caso dei 25 cadaveri di migranti affiorati progressivamente, nella prima metà di gennaio, sulle spiagge nei dintorni di Sirte. Si tratta, con ogni evidenza, delle vittime di un naufragio rimasto sconosciuto o addirittura ‘silenziato’. Ma quelle vite spezzate, con ogni probabilità molte di più di 25, non hanno ‘fatto notizia’ e la gente non ne ha saputo nulla. E il silenzio continua: occorrerebbe invece cercare di sapere da dove vengono tutti quei morti, se non altro in nome delle loro famiglie. Così come non va lasciata cadere la vicenda del naufragio del 18 gennaio”. Si riferisce, a proposito di quest’ultimo naufragio, a qualcosa in particolare? “Ecco, la ricostruzione di questa tragedia desta diversi interrogativi. Sappiamo essenzialmente tre cose: che l’allarme è stato lanciato da un aereo militare italiano della missione Mare Sicuro; che gli unici tre sopravvissuti sono stati tratti in salvo dall’elicottero della nave Duilio, della Marina Militare; che la centrale di coordinamento di Roma, avvertita dall’aereo di Mare Sicuro, ha delegato a Tripoli le operazioni di ricerca e recupero. Lo conferma il comandante della nave della Ong Sea Watch, che ha cercato di intervenire e fare la sua parte. Ma Tripoli si è limitata a inviare sul posto una nave mercantile che incrociava nella zona e che, oltre a non essere ovviamente attrezzata per interventi di questo tipo, è arrivata troppo tardi: non ha trovato nulla, né il gommone, né tantomeno i naufraghi. E’ sicuro che non si poteva fare di più? E Roma si è accertata che Tripoli fosse in grado di affrontare l’emergenza? Sono domande che esigono una risposta. Nei giorni successivi, come aveva denunciato Sea Watch, è venuto fuori addirittura che è pressoché impossibile rivolgersi per aiuto alla centrale operativa della Guardia Costiera libica, perché nessuno risponde al telefono o, nei rarissimi casi che si riesce a stabilire un contatto, l’interlocutore parla solo in arabo. Come si può pensare, allora, che la Libia sia in grado di gestire una zona Sar, vasta centinaia di migliaia di chilometri quadrati, che si spinge sino alle soglie di Lampedusa?”. C’è un altro aspetto. Se quel mercantile fosse arrivato in tempo, i superstiti sarebbero stati riportati in Libia. Esattamente come vengono riportati in Libia i migranti intercettati in mare dalla Guardia Costiera di Tripoli. Il Governo italiano ritiene che questo sia un dato positivo: un successo di cui farebbe fede il fatto che, dall’inizio di gennaio, sono sbarcati solo 160 migranti. “E’ vero, dal primo gennaio sono arrivati appena 160 migranti. Roma non dice, però, che tra Spagna e Grecia ne sono arrivati più di 5 mila. Che cioè i muri che ha eretto, chiudendo addirittura i porti, come tutti i muri, non fermano i flussi ma, semmai, li deviano e l’Europa ne è comunque investita. Ma questo è il meno. La cosa più grave è che Roma non si pone minimamente il problema della sorte che attende i ‘respinti’, tutti quelli, cioè, che vengono ricondotti di forza nell’inferno libico, nei centri di detenzione dai quali erano fuggiti. Perché di questo si tratta: non di salvataggi ma di respingimenti di massa, arresti e chiusura nei lager. Respingimenti che, oltre tutto, sempre più spesso vengono effettuati con mercantili di passaggio”. In effetti, stanno aumentando i casi di naufraghi recuperati in mare e riportati in Libia da navi commerciali. Il caso più clamoroso è stato quello della Nivin, il cargo dal quale, una volta arrivati a Misurata anziché in Italia come credevano, decine di migranti presi a bordo da un gommone nel Mediterraneo, si sino rifiutati di sbarcare. Fino a quando, per vincerne la resistenza, le forze speciali libiche hanno condotto un vero e proprio blitz, con decine di feriti e arresti. “Ricordo bene la vicenda della Nivin. E’ scoppiata una rivolta perché a quei ragazzi era stato promesso che li avrebbero portati in Italia. Proprio di recente, il 20 gennaio, c’è stato un episodio analogo, quello del gommone con 106 migranti abbandonato alla deriva per una intera giornata, fino alle 23 passate, nonostante gli appelli lanciati a più riprese, fin dalle 10 del mattino, dalla Ong Alarm Phone. Secondo quanto si è letto sui giornali, l’Italia è stata tra le prime destinatarie della richiesta di aiuto ma, anziché intervenire direttamente, ha esercitato per ore forti pressioni sulla Libia, perché assumesse la gestione del soccorso, fino a che Tripoli ha deviato sul posto il mercantile Lady Sham, della Sierra Leone. Portati a bordo, i migranti – secondo quanto avrebbero riferito nelle ore successive ad Alarm Phone – erano convinti che sarebbero stati trasferiti in Italia. Forse gli è stato promesso così per tenerli calmi. Ma poi, quando si sono accorti di essere stati portati invece a Misurata, sono piombati nella disperazione: questa volta non c’è stata una rivolta, ma qualcuno ha addirittura minacciato di uccidersi. E’ assurdo. Si sta affermando una pratica generalizzata di respingimenti di massa, in contrasto con il diritto internazionale e servendosi sempre più spesso di navi da carico prese a caso e sicuramente inadeguate. Mentre, nello stesso tempo, si continua a fare la guerra contro le Ong, criminalizzate, a mio parere, essenzialmente perché sono testimoni scomodi di quanto accade. In particolare, sono nel mirino le pochissime navi Ong rimaste operative. A cominciare dalla Sea Watch la quale, dopo l’odissea di 20 giorni in mare carica di migranti, conclusa a Malta, ora naviga con altri 47 naufraghi salvati da un battello che stava affondando, ma che non sa dove sbarcare…”. Eppure il premier Conte e i ministro Salvini e Di Maio continuano a vantare la politica messa in campo da Roma. “L’ultimo risultato di questa politica, in verità, è il ritiro della Germania dalla missione Sophia e, probabilmente, la fine stessa di questo programma, lasciando il Mediterraneo ancora più sguarnito, Ma, a parte questo, se sono un successo tutte le morti e le sofferenze in cambio della diminuzione degli sbarchi in Italia lo lascio giudicare alla coscienza e al senso di umanità della gente. Mi sembra fuorviante, però, che invece di riflettere su quanto sia alto il costo di vite umane pagato da profughi e migranti che si imbarcano verso l’Italia, si tirino fuori di continuo dei diversivi. Ad esempio, l’eterno alibi della sicurezza e della ‘difesa dei confini’, come se alle porte ci fosse un esercito in armi e non dei disperati in fuga per la vita. O, ancora, più di recente, la pretesa ricerca delle ‘cause remote’ dell’immigrazione dall’Africa, come la questione della moneta, il franco legato all’euro, in uso in diversi paesi dell’ex Africa Francese. Ma se si cercano cause e responsabilità remote sul ‘caso Africa’, nessuno in Europa è esente da colpe. Meno che mai l’Italia. Io dico solo che siamo di fronte a un problema decisivo per il modo di essere della società europea in cui viviamo”.

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